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Il sabba del villaggio
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E-book273 pagine4 ore

Il sabba del villaggio

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Fantasy - racconti (206 pagine) - Terrore Cosmico: Giacomo Leopardi come non lo avete mai immaginato.


Se siamo abituati a leggere storie gotiche ambientate nell’Ottocento inglese, come non potremmo immaginare che un personaggio complesso come Giacomo Leopardi diventi protagonista di vicende, seppur di finzione, dense di ombre e oscuri presagi?

Gli ingredienti per una storia “vittoriana” non mancano affatto, del resto. Abbiamo una madre fredda e impenetrabile, un padre severo e distante e un destino di morte che incombe sull’intera famiglia Leopardi. Lutti, malattie e misteri la fanno da padrone, dunque. Ed è in questa prospettiva conflittuale, e densa di fatalismo, che nasce la raccolta che state per leggere. Giacomo Leopardi diventa protagonista di vicende legate al sovrannaturale, all’occulto e a un orrore tipicamente ottocentesco, sebbene sia qui riconfigurato in chiave del tutto originale.


Alessandro Iascy è nato a Palermo nel 1984. Sin da bambino è affascinato dalla letteratura fantastica e dal 2006 ha trasformato questa passione in attività di divulgazione, attraverso i suoi blog, Andromeda per la fantascienza e Heroic Fantasy Italia per il fantasy. È promotore di diverse iniziative editoriali: dalla rivista Andromeda per l'editore Letterelettriche alle collane Heroic Fantasy Italia per l'editore Delos Digital e True Fantasy per l'editore Watson, per cui è stato curatore di diverse antologie da lui ideate. Nel 2017 ha vinto il prestigioso Premio Italia con la webzine Andromeda. Tra le Antologie curate: Eroica. Antologia sword & sorcery, Watson 2016; Folklore. Antologia fantastica sul folklore italiano, Watson 2018;  Thanatolia. Antologia sword & sorcery, Watson 2018; Impero: Antologia Gladius & Sorcery, Watson 2019; Sui mari d'acciaio, Letterelettriche 2020.

LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2021
ISBN9788825418033
Il sabba del villaggio

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    Anteprima del libro

    Il sabba del villaggio - Alessandro Iascy

    Tormento notturno

    Giacomo Ferraiuolo

    T’acqueta omai. Dispera

    L’ultima volta. Al gener nostro il fato

    Non donò che il morire. Omai disprezza

    Te, la natura, il brutto

    Poter che, ascoso, a comun danno impera,

    E l’infinita vanità del tutto.

    Giacomo Leopardi, A Se Stesso

    1

    Lo sciabordio delle onde riempiva la sera afosa. L’odore salmastro della morte si innalzava attorno le due figure strette in un abbraccio che trasudava perversione. Palpiti di estasi e libidine.

    Lei emerse tra i flutti, come una Venere Oscura, sul ventre piatto alghe disegnavano forme arcane, lettere di una lingua ormai dimenticata. Nessuno avrebbe dovuto leggerle.

    Avanzò tra le acque del lago e alzò la testa alla luna, che brillava contro la tela nera della notte. Accennò un sorriso e le tenebre scivolarono in una corsa affannosa verso di lei, stringendola nella loro morsa maledetta.

    S’insinuarono sotto la sua pelle, entrandole nel corpo.

    Una nuova energia le si irradiò dentro, pompando verso il cervello.

    Il cuore batté, si portò una mano al petto, e strinse nel punto dove lo aveva avvertito.

    Quella sensazione che aveva tanto odiato.

    Che le avevano rinnegato.

    La sua espressione mutò, un’ombra le calò sul volto, nascondendolo ai raggi lunari.

    Rimase così, immobile come una statua nera, a fissare la coppia distesa sul bagnasciuga. A pochi chilometri di distanza c’era il piccolo accampamento.

    In lontananza, oltre gli arbusti, si vedevano le ultime luci, sicuramente in qualche bettola una prostituta stava intrattenendo gli ultimi marinai.

    I due ragazzi si erano allontanati, per ricavarsi attimi di solitudine, sesso e affanno.

    La Venere si sfiorò il seno ed ebbe un brivido, scese giù con la mano, accarezzandosi il corpo sinuoso, sfiorò un’alga e la lasciò cadere nell’acqua, divorata dal lago.

    Avanzò e il ragazzo si voltò verso di lei.

    – Questa sera c’è una strana elettricità nell’aria. Non la senti? – chiese rivolto alle onde che con forza divoravano la riva, per poi restituirla alla terra.

    La ragazza alzò le spalle, si slacciò la camicia che indossava e afferrò il suo amante per le spalle, spingendolo contro di lei.

    L’essere emerso dalle acque sorrise. Avanzò di nuovo verso di loro, protese le braccia in direzione della coppia, due rami ossuti e lembi di pelle. Emergere dal lago la stava dilaniando. I seni si prosciugarono e il ventre si ritirò, battendo con forza contro le costole.

    Il suo corpo divenne l’immagine della morte e della devastazione.

    Il desiderio di passione fagocitato dalla rabbia e da quella sensazione che ormai era da troppo tempo sua: vendetta.

    Con uno scatto cadde in ginocchio, affondò le dita nella sabbia ciottolosa e alzò la testa verso di loro.

    La ragazza si scostò dall’amante.

    – C’è qualcosa a riva, vai a vedere Antonio, ti prego – disse con voce tremante.

    – Te l’ho detto, c’è una strana elettricità.

    Un rombo profondo scosse la quiete notturna. Crebbe d’intensità, trasformandosi in un ringhio sputato dall’inferno.

    – Tirami su – implorò la ragazza.

    La donna emersa dal lago affondò le dita nella sabbia, il volto contratto dalla furia. Si lanciò in una corsa, come una bestia, verso di loro.

    La coppia lottò, ma lei li avvolse tra le sue spire piene di dolore, per trascinarli nel lago, in una gabbia acquitrinosa di disperazione eterna.

    Le loro anime l’avrebbero saziata.

    Il suo pegno.

    Il suo cuore si acquietò quando lasciò che il lago l’avvolgesse per farla scomparire in quella notte ancora più oscura.

    2

    – Sei sicuro di poter uscire di casa? Tua sorella mi ha detto che vi è proibito!

    Leonardo raccolse un sasso e lo lanciò dalla scogliera, alle sue spalle si ergeva in cima alla collina Recanati, fiorente borgo racchiuso da alte mura, e anche da quella distanza si vedeva Palazzo Leopardi svettare contro il cielo.

    Giacomo ripose nella sua borsa di pelle i fogli macchiati d’inchiostro e sospirò.

    – No, non potrei essere qui.

    Leonardo sgranò gli occhi. – Lo sai che succede se ti scopre?

    Giacomo cercò di tirarsi su, allungò un braccio verso l’amico per cercare un appoggio, e respirò a pieni polmoni l’aria che giungeva dal mare.

    Libertà.

    – Come hai fatto a parlare con mia sorella?

    Leonardo fece un passo verso il baratro e rimase immobile, a guardare gli scogli frastagliati che fendevano le onde. – Non sei l’unico che riesce a scappare di casa!

    – Giura!

    Leo sorrise guardando l’amico. – Ce la fai a scendere giù?

    – Non posso, non ce la farei a risalire. Cosa dice la gente in paese?

    Leo sbuffò. – Le solite cose.

    – Che siamo degli storpi.

    – Nessuno comprende il tuo genio, amico mio. Io lo so che tu farai grandi cose. – Lo abbracciò.

    – Ho ricevuto una proposta.

    Leo lo guardò con un sorriso radioso. – Da chi?

    – Voglio andare a Milano, per lavorare presso un editore. Finalmente lascerò quelle fredde stanze – disse indicando Recanati.

    – Mi lascerai qui, amico mio?

    – Lo sai che devo andarmene, e il prima possibile. Sei fortunato che non abiti al palazzo. – Un velo di tristezza calò sul volto di Giacomo. – Tu e i miei fratelli, voi soli mi mancherete, tutta questa gente, quelle mura gelide, niente di tutto questo mi mancherà.

    Leonardo lo strinse ancora di più a sé.

    * * *

    Era rientrato da poco, i lunghi corridoi erano immersi in una penombra glaciale. Giacomo sfiorò una parete e ritrasse la mano, era come se qualcosa di freddo ci fosse appena strisciato sopra.

    Raggiunse la grande scalinata in pietra che portava al primo piano e udì un vociare sommesso, come una lode che s’innalzava in quel silenzio tanto opprimente.

    Era la voce di sua madre. Era chiusa nella stanza, così la chiamava.

    La donna portava sempre con sé la chiave e nessuno, neanche le domestiche, potevano accedere in quell’antro del palazzo, anche se Giacomo durante una delle sue notti insonni aveva visto Isabella uscir fuori da quella camera segreta.

    Afferrò la ringhiera di metallo e prese diversi respiri profondi prima di salire le scale. Per tornare a Recanati aveva affrettato il passo e ora si sentiva spossato.

    Quando raggiunse la cima la sentì fermarsi alle sue spalle.

    – Vostra madre non sarà felice di sapere che avete, per l’ennesima volta, abbandonato il palazzo senza avvisarla.

    Era la voce di Isabella, la domestica.

    Giacomo serrò i denti. Continuò a camminare cercando di cacciar fuori quella voce che tanto odiava.

    – Giacomo – lo chiamò di nuovo.

    Giacomo non rispose.

    Non gli piaceva Isabella, durante una delle rare chiacchierate che sua madre gli concedeva, aveva provato a dirglielo, ma era stato liquidato con un gesto delle mani.

    Si fermò davanti alla porta della stanza e ascoltò.

    Sua madre era all’interno, e le parole che pronunciava gli giungevano collose, come se stesse recitando sottovoce una nenia a lui sconosciuta.

    Percepiva un’energia sprigionarsi dall’interno e battere contro la porta, per liberarsi e invadere il palazzo.

    Allungò un braccio e con la mano sfiorò il legno. Scariche elettriche e quella sensazione tanto oscura, come un’ombra che cresceva dentro di lui. Un attimo e fu risucchiato.

    Isabella lo afferrò, allontanandolo dalla porta.

    Giacomo la fissò, gli mancava il respiro e il cuore aveva preso a battergli con forza nel petto, causandogli fitte di dolore.

    La ragazza gli toccò il petto.

    – Non dovete correre. Lo sapete che il vostro fisico ne risente.

    – State dicendo che sono uno storpio? Come tutti gli abitanti di questo paese?

    – Sto dicendo semplicemente che dovete andarvi a riposare.

    Giacomo fece per tirare indietro il braccio, ma la ragazza serrò la presa. Gli occhi neri cominciarono a riflettere una luce ancora più oscura.

    Il tocco della domestica era gelido.

    – Non disturbate vostra madre.

    3.

    Correva con affanno lungo i corridoi del Palazzo. Batteva con forza le mani contro le pareti, cercando di svegliare sua sorella o suo fratello. Qualcosa gli era entrato in gola, come un grumo che pulsava, impedendo all’aria di giungere ai polmoni. Lei era alle sue spalle, lo rincorreva camminando come una bestia antica. Quella notte era emersa ai piedi del letto e aveva cercato di afferrarlo per trascinarlo via.

    Giacomo era scivolato via prima che l’essere avvolgesse le sue caviglie tra le dita magre.

    Si fermò in cima alle scale.

    Si voltò verso di lei e la vide fermarsi al centro del corridoio, imperiosa contro le tenebre, la pelle cadaverica brillava nell’oscurità.

    Quel colore che tanto odiava. Lo vide per la prima volta in una culla quindici anni prima, quando sua madre lo aveva chiamato e trascinato nella grande sala dei ricevimenti. Sua madre stava sorridendo, come capitava di rado.

    Giacomo aveva creduto che suo padre gli avesse portato un dono da uno dei suoi viaggi.

    Ricordava ancora la stanza illuminata da ceri, con ombre tremolanti che danzavano lungo le pareti gelide, come tanti artigli che si protendevano verso di lui.

    Aveva sentito un odore acre rendere l’aria quasi irrespirabile e, quando in punta di piedi, si era proteso verso la culla, aveva visto il cadavere del suo fratellino avvolto da un sudario di seta.

    Al ricordo Giacomo inorridì.

    Si voltò verso la porta della stanza e qualcosa batté contro il pavimento.

    La figura alle sue spalle indietreggiò e quasi scomparve al buio. Giacomo strizzò gli occhi per mettere a fuoco e riuscì a malapena vederla piegarsi, come se stesse mutando in una nuova forma.

    L’essere spalancò le fauci e dalla gola sputò un grido stridulo.

    Giacomo si alzò di scatto. Era ancora nel suo letto. Il volto ricoperto di sudore, e il cuore che batteva con forza. Tastò le lenzuola e il cuscino. Era stato un altro incubo, l’ennesimo.

    Digrignando i denti cercò una posizione migliore su quel materasso scomodo e fissò per qualche secondo la notte che lo avvolgeva.

    Lo sentì di nuovo, anche in quel momento. Lo stesso rumore del sogno.

    Una voce alle sue orecchie sibilava parole che gli raggiungevano il cervello intimandogli di ‘non vedere, non ascoltare.

    Quella voce che conosceva così tanto bene.

    Un oggetto pesante urtò contro il pavimento, un suono sordo tuonò contro il silenzio notturno.

    Giacomo scese dal letto e quasi a tastoni raggiunge lo scrittoio, accese la lampada a gas e uscì dalla sua stanza.

    Avvertì dei passi veloci e mani o zampe grattare contro le pareti.

    Lo sapeva che in quei rumori c’era qualcosa di sbagliato. Per quanto cercasse di ripetersi che era solo un animale che voleva entrare nel palazzo, quella voce che ormai era diventata così forte continuava a ordinargli di non vedere e non ascoltare.

    Quasi come una nenia distorta, ma avanzò nel buio, cacciando via le ombre al suo passaggio. Ombre che cercavano di afferrarlo, gelandogli la pelle con i loro tocchi oscuri.

    Una ragazza gridò.

    Giacomo affrettò il passo e si fermò poco distante la porta della stanza. C’era qualcuno dentro. Poggiò l’orecchio al muro e ascoltò. Più cercava di convincersi che doveva essere solo un altro incubo, più realizzava cosa stava sentendo. Udì nitido lo stesso rumore di quando il macellaio di Recanati aveva sventrato il porco, quel suono appiccicoso di viscere che cozzano contro il pavimento, e l’urlo strozzato della vittima, lo stesso verso del maiale, ridotto poi a un rantolo terrificante.

    Giacomo arretrò nel buio e quando sentì la chiave girare nella serratura, spense la lampada, lasciandosi finalmente inghiottire dalle ombre.

    Rimase paralizzato mentre una figura avvolta da un abito fatto di ombre scivolò fuori, trascinando sul pavimento un sacco, troppo grande per contenere una scrofa, troppo pesante per un agnello, un sacco stretto attorno a due spalle e a un busto.

    Giacomo si portò una mano davanti la bocca e cercò di bloccare un sibilo. La figura oscura si voltò.

    La sua voce esplose nella notte.

    – Non ascoltare. Non vedere.

    Qualcosa lo raggiunse con passi felpati. Giacomo si voltò e l’oscurità lo assorbì.

    4.

    – Tutto bene Giacomo?

    Carlo gli poggiò una mano sulla spalla e Giacomo trasalì. Era seduto al suo scrittoio, guardava fuori verso il cielo terso. Il ragazzo si voltò e gli sorrise annuendo.

    – Non hai dormito questa notte?

    – Non lo senti pure tu questo odore acre, pervade la casa, impregna le mura!

    Carlo si guardò attorno e si accorse che anche Paolina lo stava fissando preoccupata.

    – No, in verità.

    Giacomo si passò una mano sulla fronte. – Questo caldo oggi, quest’odore – afferrò il foglio che aveva davanti e lo stropicciò, per lanciarlo a terra. Si alzò di scatto.

    – Giacomo, dove vai? – chiese Paolina.

    – A pensare.

    Il Conte Monaldo gli disse qualcosa, ma la mente di Giacomo era offuscata da pensieri che battevano con forza tra di loro. Scese lungo la scalinata e si aggrappò a una delle due colonne di marmo, aveva bisogno di quiete e quell’odore stantio diventava sempre più forte.

    Serrò le labbra.

    Lei emerse dal corridoio.

    Giacomo si voltò di scatto, Isabella era immobile, in mano reggeva un sacchetto di cuoio. La ragazza gli sorrise.

    – Dovreste dormire la notte.

    – Ho dormito! – strillò Giacomo e si lanciò verso il portone del Palazzo, lo spalancò e si immerse nell’aria pura mattutina, sperando di riuscire a cacciar via quelle sensazioni che gli si stringevano attorno al cuore.

    Oltrepassò un gruppo di bambine, tra il marasma di pensieri percepì qualche parola, anche loro lo stavano schernendo.

    Lo storpio.

    Strinse una mano a pugno e continuò a camminare, come un’ombra fumosa tra la gente che accalcava le vie di Recanati.

    Raggiunse le tre querce e, finalmente da solo, si lasciò cadere sul terreno. Guardò i raggi del sole filtrare tra le foglie. Rimase così. Stava perdendo la concezione di se stesso e del tempo, come se il suo corpo avesse perso consistenza.

    Un tutt’uno con la natura.

    * * *

    – Cosa è successo a Giacomo? – la voce di Monaldo irruppe nel silenzio della grande libreria. Le ombre proiettate dalle fiamme delle candele danzavano sotto ritmi tribali che solo esseri provenienti da memorie antiche potevano ascoltare.

    Carlo chiuse il libro che stava leggendo e guardò suo padre.

    – Ha dormito male questa notte.

    Monaldo lo fissò con aria grave. Un’ombra gli raggiunse la caviglia, stringendosi contro la sua pelle. L’uomo rabbrividì.

    – Dove sono le sue opere?

    Carlo indicò lo scrittoio di Giacomo, con sopra il foglio accartocciato.

    – Non ha scritto oggi?

    – Vuole buttar via tutto.

    – Gli è arrivata questa lettera da Giordani. – Il padre sfilò dalla tasca un foglio piegato con minuzia. – Libertà, ribellione.

    – Non dovreste leggerla – disse Carlo.

    – Verrà qui a Recanati. Giacomo gli parla degli incubi. Giordani non è di certo la persona adatta al nostro Giacomo, e voi due lo sapete.

    Paolina smorzò un sorriso. – Quando scrive a Giordani, Giacomo cambia espressione, lo vedo brillare. Perché impedirgli di fare una cosa che lo fa stare bene?

    – Giordani non porterà niente di buono.

    Carlo riaprì il libro, cercando di cacciar fuori dalla sua testa le parole del padre. L’uomo glielo sfilò di mano.

    – Pensi anche tu alla ribellione?

    – No.

    – Pensi anche tu alla libertà? Voi non sapete cosa c’è al di fuori. – Indicò un punto oltre la finestra.

    – Noi non sappiamo neanche cosa c’è dentro queste mura – sibilò Paolina.

    Una folata di vento li raggiunse e le fiammelle delle candele si ritirarono. Le ombre arretrarono, mostrando le coste dei libri rilegate a mano accatastate nella grande libreria. Studi e storie fantastiche. Trattati e parole impresse sulla carta.

    Paolina si guardò attorno e rabbrividì quando le ombre tornarono prepotenti a divorare quel tesoro di sapienza.

    – Credete di non sapere.

    5.

    – Sta venendo qui!

    Giacomo si destò dal sonno e si voltò verso la figura che lo stava raggiungendo vicino le querce. Il sole era ormai basso e il cielo si stava macchiando di arancione.

    Ombre violacee divoravano con avidità la vallata.

    – Carlo, sei tu?

    – Sì, sono io.

    Carlo lo raggiunse e si sedette contro il tronco di un albero. Respirò a pieni polmoni. – Sai che ti dico? Che la sento anche io la puzza dentro casa.

    – Veramente? – gli occhi di Giacomo si illuminarono.

    – Puzza di menzogna.

    – Non capisco. – Giacomo fece per tirarsi su, ma rimase bloccato sul terreno.

    – Sta venendo Giordani, è partito da Torino e verrà qui per conoscerti.

    Giacomo scoppiò a ridere e si aggrappò al terreno per tirarsi su. Il fratello gli allungò un braccio per aiutarlo, ma lui gli fece segno di fermarsi, ce l’avrebbe fatta, avrebbe lottato contro il suo stesso corpo per ergersi nel tramonto.

    – E quando verrà?

    – La settimana prossima, lunedì prossimo.

    Una nuova energia si sprigionò nelle vene di Giacomo, la lasciò crescere mentre il sole veniva divorato dalle montagne alle sue spalle, e il fresco serale si innalzava abbracciando la natura.

    – Mi hai capito? Arriva lunedì, per te, fratello mio.

    Giacomo sorrise, il volto macchiato di rosso.

    * * *

    Profumo di cannella. Giacomo sapeva cosa significava. La madre, con l’aiuto di Isabella, preparava sempre dei biscotti alla cannella quando a Palazzo giungeva una nuova domestica. Giacomo era curioso e si affacciò nel corridoio, la vide mentre scompariva nella cucina, una folta chioma bionda e due braccia esili.

    – È bellissima – sospirò Paolina distesa sul letto.

    – L’avete vista?

    La sorella annuì, stringeva al petto una lettera, si voltò a guardarlo e gli fece segno di sedersi al suo fianco. Gli prese una mano tra le sue, e Giacomo la sentì così fragile.

    – Non dormi la notte?

    – In realtà dormo, ma una sensazione disturba i miei sogni. Come una presenza così oscura che diventa sempre più reale.

    Il sorriso di Paolina scomparve. – Ti va di parlarmene?

    – Non riuscirei a spiegarlo. È tutto così nebuloso.

    – Devi scrivere, Giacomo.

    Quell’ordine imperioso aleggiò nella mente di Giacomo per tutta la serata. Cenò, fissando il piatto, incurante dei discorsi del padre e dello sguardo glaciale di sua madre.

    Attese che l’ultima candela nel palazzo fosse spenta e quando il fumo si dissolse completamente uscì fuori dalla sua stanza per raggiungere la biblioteca.

    La puzza di quella mattina era stata assorbita dai libri e ora l’odore di cuoio e di antichità era così vivo. Era come se in ognuna di quelle opere pulsasse un cuore.

    Aprì una teca e fece scorrere le dita su ogni libro. Scariche elettriche e storie eterne.

    Poggiò la candela sul suo scrittoio e si sedette, ammirando la luna piena che brillava nel cielo.

    Le parole iniziarono a fluirgli dalla mente attraverso le mani, lettere e macchie d’inchiostro sporcarono i fogli biancastri, raccontando le sue sensazioni, i pensieri e i desideri indicibili.

    La ragazza del palazzo di fronte aveva smesso di filare, le finestre erano chiuse e sicuramente ora viaggiava in mondi onirici.

    Lui era lì, nel pieno della notte, mentre il mondo dormiva, a gridare i suoi

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