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E-book372 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Capita che la vita ci conduca su strade che non avevamo immaginato, e che la nostra quotidianità sia differente da quella che avevamo sognato. Certe forze profonde del nostro animo, però, non si estinguono mai del tutto, e non è affatto detto che il desiderio di qualcosa di diverso, di intenso, di vitalistico, si spenga. Allora, un romanzo è il terreno perfetto perché il pensiero si distenda, danzando sui fili sottili che uniscono realismo e fantasia. La realtà si sfuma di tinte sature, piene della passione con cui si custodiscono le verità intime.
Negli incanti di Mosca, un uomo e una donna si incontrano e si innamorano. Vivono assieme un tempo fugace. Si celano addirittura i propri nomi, chiamandosi solo Natasha e Pierre, come le creature del grande amore tolstojano.
Lei ha rotto un’esistenza insoddisfacente per inseguire la se stessa che vuole veramente essere. Nelle missioni umanitarie del Centro Africa conoscerà la violenza e la solidarietà, la sicurezza di una famiglia per niente convenzionale e il terrore di una guerra atroce e incomprensibile.
Lui è in cerca di un senso del proprio vivere. In nome di un sogno, una donna appena intravista, è arrivato a frantumare ogni equilibrio, non solo nella sua vita, ma anche in quelle di chi gli stava attorno, gli amici, una sposa promessa. E quando quel sogno sembrava potersi fare reale, la sorte glielo ha strappato via.
A legarli sarà una storia intricata, avvolgente, dominata da personaggi vividi e capaci di scelte coraggiose, che tra continui colpi di scena tracceranno una loro rotta attraverso un destino sempre imprevedibile.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2022
ISBN9791254570173
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    Anteprima del libro

    I desideri più profondi - Caterina Viti

    Prima parte

    Natasha

    1

    Sono appena ritornata alla missione, faccio fatica a mettere in ordine le idee. Non so se la confusione che ho in testa dipende da tutta la storia che mi ha portato qui, oppure solo dal contrasto tra la frenesia del mondo appena lì fuori e la quiete serena di questo luogo.

    Qui ogni cosa sembra scorrere tranquilla, sempre. Potrebbe essere passato un giorno, ancora meno, un solo minuto da quando me ne sono andata. I volontari tutti presi nelle loro occupazioni, i ragazzi devono essere nelle classi, il rumore più forte è quello di un martello che batte, viene dalla spiaggia, una figura che non riconosco si confonde con il rumore che produce.

    È la vita che scorre serena. Se penso che nessuno sa quello che so io, mi sale la nausea.

    Alla mia destra vedo Doc sulla porta dell’infermeria, mi saluta appena, non mi si avvicina, mi conosce bene. Abbiamo costruito questo posto insieme, lo ama quanto me. Devo parlare con lui, ora però non posso, riesco soltanto a pensare alla doccia.

    Doc è un uomo paziente, una brava persona. Condivide i miei ideali e tollera il mio terribile carattere. Alla fine, tutta la sua vita, come la mia, è qui. Vorrei correre da lui e lasciarmi andare, abbracciarlo, piangere, raccontargli cosa è successo. Ma no, io non faccio così. Più tardi, forse domani, gli consegnerò il referto dell’ospedale e allora lui impazzirà, si arrabbierà tantissimo, mi farà milioni di domande e di esami del tutto inutili.

    O forse domani il nostro sogno sarà svanito, cancellato dall’orrore che ho trovato nel mio viaggio.

    Quel martellare insistente, nel caldo che ovatta ogni altro suono, mi penetra nel cervello, non so più neanche se lo sento davvero o è solo nella mia testa.

    Ecco le vocine dei bambini, aspetto, stanno rientrando al villaggio, lì saranno al sicuro.

    Quello che mi serve adesso è una doccia. Devo togliermi da dosso lo sporco e la persistente sensazione di terrore che mi tormenta da quando sono stata dimessa dall’ospedale due giorni fa. Devo raggiungere la mia branda, prendere il mio asciugamano pulito, abbandonarmi per un po’ sotto un getto d’acqua. È soltanto questo che voglio ora.

    La nausea è tremenda, la testa sembra esplodermi. Adesso non c’è più il rumore del martello, sento però i motori delle jeep militari che si avvicinano. Cavolo, sono già qui. Ma sì, una bella doccia e dopo sistemerò tutto.

    Qualcuno si avvicina. Mi soffermo a guardarlo, però ho la vista sfocata, non posso distinguere i suoi lineamenti. Dal colore dei vestiti che ha addosso indovino che sia l’uomo che lavorava col martello. Ha il passo incerto, ansima, deve essersi dato parecchio da fare con quell’arnese. Non è uno di quelli della missione che già conosco. Ma qui i volontari vanno e vengono continuamente, sarà uno di quelli, chi se ne frega.

    Ecco la mia stanza. Il profumo di un asciugamano pulito è paradisiaco.

    Il corridoio per arrivare alle docce è buio. La luce del sole fiammeggia sulla porta in fondo, ma adesso viene coperta da una sagoma scura, l’ombra di una figura sulla soglia. Sarà una dozzina di metri, non riesco a mettere a fuoco, potrebbe forse essere l’uomo del martello.

    Nonostante non lo veda bene, in lui c’è qualcosa che trovo estremamente familiare.

    Mi avvicino di pochi passi, se ne sta lì immobile. Eppure, è troppo strano il modo in cui si comporta. Ho paura di avere una tremenda allucinazione. Un passo ancora, e se questo tipo svanisce vado subito dal dottore.

    Chiudo gli occhi, faccio il passo, riapro gli occhi. Un senso di vertigine mi prende dal profondo, sento un boato in testa, un fischio assordante nelle orecchie. Non ora, non ora. E poi non può essere, è sicuramente la mia testa che mi fa vedere cose che non possono esistere.

    Mi volto, vado veloce verso le docce. Sono ancora tutte vuote. Raggiungo l’ultimo box, quello che uso sempre, ecco che arriva il getto, mi ci butto sotto e sì, sto subito meglio. Il profumo del sapone mi dà un piacere assoluto. Forse bastava davvero questo. L’acqua scorre e scorre, si porta via in mille bolle di vaniglia tutta la paura, la polvere pesante che era sulla mia pelle e nei miei pensieri.

    Chiudo il rubinetto, aspetto qualche secondo senza muovermi che le gocce mi cadano di dosso con piccoli echi liquidi.

    Non sto ancora bene, ma comincio a ritrovare il contatto con me stessa e con la mia realtà. Adesso comprendo meglio l’orrore di quello che è successo. Mi sento piena della sofferenza che ho provato in quei giorni di prigionia. Freddo, fame, dolore, umiliazione, questo rimane in me ora.

    Sento i passi di qualcuno fuori dalle docce. Io resto in silenzio, non ho certo voglia di incontrare uno spensierato volontario in vena di fare amicizia. Perché Doc non lo ha fermato, non gli ha detto di starmi alla larga? Forse nemmeno lui mi conosce così bene.

    Una vertigine mi fa perdere l’equilibrio, io non posso avere visto quello che ho creduto di vedere. Forse sto diventando pazza sul serio, forse la mia testa ha sopportato più di quanto avrebbe dovuto.

    Presa dalla rabbia, batto forte le mani sulla porta, facendo vibrare tutta la fila di box. Grido: Vattene, vattene! con tutta la voce che ho, lo grido finché la gola mi brucia e il dolore ai polsi, alle braccia alle spalle mi attraversa come un terremoto. I passi si allontanano.

    Ma torno in me. Ci sono le jeep là fuori, devo resistere, ancora non posso mollare. Presto, sì, presto potrò farlo, ma non ora.

    Esco dalle docce avvolta nel mio asciugamano. Impaziente corro verso la luce accecante in fondo al corridoio fino ad affacciarmi fuori. Ma quello che vedo non è quello che speravo di vedere. Le gambe allora sembrano cedere, tutto il corpo è scosso da un tremore intenso. Non sono le jeep del Generale, non sono i militari che dovevano arrivare per proteggerci. Nella mia testa immagini e pensieri formano un groviglio spaventoso.

    Tutto intorno sta salendo il panico, i volontari prendono a correre di qua e di là, le loro voci si inseguono, i ragazzi si affacciano dalle finestre delle classi e un fremito sembra percorrere tutta la missione.

    Torno nel corridoio, le porte sfilano accanto a me.

    La penultima, quella prima delle docce, è quella di una sorta di ufficio, è capitato che Doc e io ci siamo rifugiati lì a bere, a fumare, a fare discorsi e progetti. C’è una scrivania appoggiata al muro, e sotto c’è nascosto un fucile a canne mozze, carico.

    Ce lo abbiamo messo appena finito di montare il campo. Ci sono anche altre armi nascoste in punti che soltanto lui e io conosciamo. Ce le dette il Generale, noi pensammo fosse uno strano dono di benvenuto. All’epoca era stato quasi divertente scovare dei posti segreti per nasconderle, come un gioco fra noi, speravamo fosse una precauzione inutile. Non lo è. Adesso il mio obiettivo è quella stanza, quel fucile.

    Ecco la porta, ecco la scrivania, ecco il freddo del metallo. Riesco a impugnarlo quasi senza fermarmi. Per un secondo mi sento più forte, sicura di me. È sconcertante il coraggio che può infondere un’arma.

    Quando esco da quella stanza il passato mi attacca. Il cuore mi esplode in gola, la vista annebbiata dalle lacrime che trattengo.

    Lo sconosciuto del martello è lì, e non è uno sconosciuto, ed è reale. È l’uomo che ho incontrato a Mosca più di un anno fa, e che in tre giorni ho amato più di quanto abbia mai fatto nella mia assurda, insignificante vita. Vorrei chiudere gli occhi e sciogliermi di nuovo fra le sue braccia.

    I ricordi mi travolgono. Vorrei essere là con lui, dentro allo sfarzoso costume da nobildonna di due secoli fa, non essere mai partita, essere rimasta, e non trovarmi a fare questo non so neanche io cosa.

    Ma sono qui ora, e qualcosa devo provare a farlo. Penso ai suoi occhi che non ho avuto il coraggio di guardare, alle sue mani, la sua pelle, la sua voce. Penso a questo mentre la realtà è spaventosa di fronte a me.

    Cammino attraverso il campo della missione. Tutto intorno a me sembra sconvolto, la quiete irreale che avevo amato al mio arrivo si è disintegrata in grida, gente che fugge, sciami di ragazzi terrorizzati. Nessuno sa cosa fare o dove andare.

    Sento delle voci che mi chiamano, anche la sua, le ignoro, per me non esistono. Ne cerco una e solo una, la distinguo per il suo buffo modo di chiamarmi, è miele per le mie orecchie.

    Vado incontro alla prima delle jeep, che si è appena fermata affondando le ruote nella polvere. Due, tre, quattro, ecco l’ultimo, sono scesi tutti. Due a destra, due a sinistra e uno davanti alla macchina, è il più vicino. Nel cassone c’è un ammasso informe e puzzolente.

    Mosca è lontana, non sono rimasta, sono partita. Il mio scopo nella vita era venire in un posto come questo, per costruire un po’ di pace in un mondo senza senso.

    Ed è quello che sono convinta di stare facendo adesso, a piedi nudi, soltanto con un asciugamano addosso e un fucile in mano, di fronte a cinque uomini. Sono assassini, sono arrabbiati, gridano qualcosa che non riesco a capire in quel loro strano dialetto. Però non ho dubbi che ce l’hanno con me.

    Quando arrivo proprio davanti a quello che sta in mezzo, mi raggiunge l’odore nauseante dei corpi mutilati nel cassone. Dal caos alle mie spalle arriva un’altra voce, adesso la sento, è la sua voce.

    Faccio l’ultimo passo, di scatto alzo il piede e scarico tutta la mia paura sul suo petto, lui cade all’indietro sul cofano della macchina. Non leggo la sua espressione, ma scommetto è quella stessa da idiota che aveva quando l’ho visto per prima volta, quando il Generale amico mio aveva provato a intavolare una trattativa con suo padre, che è uno spietato signore della guerra. Ora che gli sono a meno di un palmo di distanza, sono certa che quella da idiota sia la sua espressione naturale.

    Un passo fa ero quasi fra le braccia dell’uomo più perfetto che possa esistere, pronta a lasciarmi andare all’estasi, e ora sono qui a condividere l’alito con questo individuo abietto che mi vuole morta almeno quanto io voglio morto lui.

    Mi avvicino al suo orecchio tentando di imitare quel suo dialetto. Sai che sono stata io! Ho vinto!

    Mi allontano un po’ giusto per prendere fiato e rendermi conto se ha capito, non lo so. La sua faccia è identica a prima. Allora alzo il fucile, avvicino le sue bocche nere alla fronte di lui, poi lo alzo ancora di pochi centimetri e lo scarico contro l’ammasso di corpi.

    Resto immobile, mostrando cieca fierezza quando in realtà sono impietrita dalla paura.

    Ha funzionato.

    Salgono confusamente sulla jeep.

    Il rumore di altri motori alle mie spalle. I rinforzi!

    2

    Quando ho deciso di cambiare, non ero più una ragazzina. Avevo già compiuto trent’anni, facevo una vita tranquilla, regolare, ordinaria. Impiegata nella stessa ditta da quando mi sono diplomata. Relazioni sentimentali quasi nulle, rapporti sociali scarsi. Non sono mai stata la prima della classe, la ragazza più desiderata, l’impiegata del mese. Non una grande amica per nessuno, né una figlia affettuosa e presente.

    Un giorno di aprile, sfogliando svogliatamente una rivista, il titolo di un articolo mi ha incuriosita. Si è risvegliato in me qualcosa di così lontano e dimenticato da non riuscire a capire se fosse un sentimento provato davvero o soltanto sognato. Da quel giorno, per circa tre anni ho lavorato duro ogni giorno per ritrovare e rafforzare quelle sensazioni.

    È stata dura uscire dalla comoda noia della mia monotonia, però quel desiderio di cambiare il mondo che da bambina mi alimentava si era riacceso, e pian piano è cresciuto e mi ha invasa. Sono passata dall’essere una ragazza svogliata e passiva all’essere donna determinata a raggiungere uno scopo.

    Sono stati anni di impegno fisico e mentale. Dal divano agli allenamenti quotidiani, dallo spray al peperoncino nella borsa ai livelli avanzati di autodifesa.

    La parte più facile è stata separarmi dalle cose materiali, il piccolo appartamento, l’auto, i pochi valori, i vestiti. È stato come liberarmi degli oggetti di scena di una commedia alla quale non avevo mai preso realmente parte. Con uno zaino in spalla, in aeroporto, riconosco davvero me stessa. È così poco ciò che in realtà serve per affrontare un viaggio, sia geografico o esistenziale.

    Vado a visitare Mosca e San Pietroburgo. Sogno che ho da quando sedicenne, sono rimasta tutto il mese di febbraio bloccata a letto per una frattura al bacino, e disperata mi sono letta Guerra e pace.

    Avrei voluto visitarli in inverno, con la neve e venti gradi sottozero, ma devo partire per la mia nuova vita. La fine di agosto è come un mite autunno in un altro posto, tutto sommato sarà più comodo spostarmi per un giro così breve.

    In aereo sono riuscita a buttare giù un itinerario approssimativo di tre giorni, giusto per vedere le cose più importanti, quelle che lo sono per me.

    Seduta in un caffè ho appena finito di parlare con il referente dell’organizzazione di volontariato a Parigi. Fra pochi giorni ci incontreremo lì per definire gli ultimi dettagli prima della partenza per la missione in Africa. Adesso, internet alla mano, devo confermare le prenotazioni per questo tour.

    Il cameriere si avvicina, è un ragazzo giovane, sembra inesperto, ha un bel volto ancora segnato dagli ultimi residui di un’adolescenza un po’ tardiva. È simpatico, ha avuto pazienza mentre ordinavo cercando le parole in russo sul cellulare. O forse sono così felice che tutti mi risultano simpatici e disponibili. Lascia il samovar sul tavolo, pago, lo ringrazio con un timido sorriso e il mio impacciato inglese.

    Un’ombra è sopra di me. Alzo lo sguardo aspettandomi il giovane cameriere, avrò sbagliato a pagare. Il denaro, come le lingue straniere, non mi capiscono. Non è lui, bensì un uomo sui quaranta che mi scruta con un’espressione seria. Sarà il titolare? Devo averla combinata grossa. Sono in imbarazzo, però non distolgo lo sguardo, è tanto bello che potrei restare tutta la mattina a fissarlo.

    Dice qualcosa, non capisco, il panico cresce. Accidenti a me e alla mia avversione per le lingue! Un figo da paura mi sta parlando e non posso rispondergli perché a scuola copiavo sempre e all’orale giocavo la carta della timidezza.

    Sposto con dispiacere gli occhi e cerco un appiglio sul tavolo. Ma c’è una gran confusione. La cartina della città aperta, la tessera della metro, il cellulare con la mail di prenotazione dell’albergo, la tazza, il samovar, lo zucchero. Forse ha chiesto lo zucchero? L’ora? Inutile, niente viene in mio aiuto, e lui se ne sta in silenzio, ancora lì.

    Avrò qualcosa di buffo, la maglia al contrario o un buco nei jeans, da quando ho lasciato la mia vita ordinaria sono nel caos perenne. Le mie amiche mi prenderanno in giro per anni quando gli racconterò questa storia.

    Mi faccio coraggio, quando incontro di nuovo il suo sguardo non trovo nulla da dire, né la maniera di dirlo.

    Alla sua espressione seria ha aggiunto una nota interrogativa, semplicemente sollevando il sopracciglio sinistro. Cavolo, quanto è bello! Vorrei parlargli, potrei provare col francese, non perché in quella lingua sia un drago, ma forse mi ci sento un po’ più sicura.

    Aspetta ormai da un paio di minuti. Chi se ne frega! Mi butto con l’inglese. Mi dispiace, non ho capito. Sento la mia voce bella decisa, sono fiera di me! Il tremore che sento fino nelle ossa non è uscito dalla bocca.

    Per un secondo anche il suo sopracciglio destro si inarca lasciando sul bel viso un’espressione stupita. L’aspetto ruvido, la barba di un paio di giorni, quell’atteggiamento serio, quasi severo, mi fanno girare la testa.

    Fa un mezzo respiro, e prima di parlare sorride. Eccolo, da quel sorriso posso vedere un angolo di paradiso. Siede vicino a me e da lì in poi niente sembra avere più senso.

    3

    Nella villa del Generale c’è una grande agitazione, soldati corrono indaffarati da ogni parte. Dentro di me una calma devastante. Doc mi siede accanto, il suo sguardo è fermo, le mani gli tremano intorno al bicchiere di scotch.

    Il Generale sbraita ordini decisi. Per me quello che dice non ha più molto senso, dovrebbero soltanto lasciarmi dormire. I militari stanno completando l’evacuazione della missione, presto tutti saranno al sicuro. Qui sono al sicuro anche io, almeno per un po’. Ho infilato i piedi nudi e sporchi dentro gli anfibi, ma ho ancora i capelli bagnati. Avrei bisogno di un posto dove respirare.

    Si aspettano ancora qualcosa da me, non me lo chiedono ma so che è così. Mi alzo, riempio un bicchiere di whisky, bevo un bel sorso. Il liquido brucia nello stomaco poi esplode nella testa. Raggiungo il tavolo con la cartina della regione e senza parlare inizio a individuare i punti della mia storia. Dove ci siamo scontrati con i guerriglieri, dove sono stata catturata, dove ho trovato la mia vendetta e il più importante di tutti, dove sono stata tenuta prigioniera, il posto in cui credo facciano base.

    È stato facile, ho fatto tutto senza sforzo, e incredibilmente so anche come andare avanti. Ma Doc mi sta fissando in un modo strano, non gli ho raccontato proprio tutto, mi guarda come se sapesse. Osservo le mie braccia, la maglietta che mi sono messa al volo non copre le ferite. Anche il Generale mi guarda con insistenza. In effetti ho commesso un errore, dovevo mettere delle maniche lunghe.

    Doc si toglie la giacca, me la passa con gli occhi bassi, in silenzio. Sa che in questo momento non tollererei un contatto, una parola, uno sguardo di troppo. Una piccola cosa potrebbe farmi esplodere di rabbia.

    Sarebbe davvero l’unico uomo con cui posso passare la mia vita. Se solo non fossi mai stata a Mosca.

    Lui dove sarà ora? Perché era qui? Non posso pensarci adesso.

    4

    Parigi in settembre è ancora caldissima, una città che mi rapisce ogni volta che soltanto ci penso. Sono come un gatto, più legata ai luoghi che alle persone.

    Arrivata come al solito con un volo notturno, scappata dalla frescura moscovita l’afa di qui mi sta soffocando. È tardi per la cena, ancora presto per andare a dormire. I bar degli aeroporti sono diventati per me un rifugio confortevole. Ordino da bere, leggo un libro, mando qualche stupido meme alle mie amiche. C’è molta pace. Le poche persone che si incontrano sono stanche e silenziose.

    Questa volta è diverso.

    Da cosa sono scappata? I tre giorni in Russia sono stati i più intensi della mia vita. Quell’uomo, quelle sensazioni, devo assolutamente allontanarmene.

    Un cocktail non mi basta. Ultimamente ho deciso di bere whisky. Non mi piace, come non mi piace il caffè, ma come al caffè della mattina sono assuefatta al punto di non potervi rinunciare, anche con il whisky sta succedendo la stessa cosa. Il segreto credo sia proprio nel fatto che non mi piacciono. Lo shock di quel sapore che il mio corpo rifiuta mi scuote, mi sveglia, riesce a rendermi lucida.

    Sono al secondo giro, mezzanotte è passata da un pezzo, non ho preso il libro o il cellulare, sto qui senza fare nulla a fissare il bicchiere. Non riesco a bloccare la mente. I pensieri tornano continuamente a lui. Immagini, parole, respiri.

    Butto giù in un sorso, stringo gli occhi per la brutta sensazione che provo. Il vetro diventa labbra, il liquido lingua, le sue labbra, la sua lingua, le sue mani su di me.

    Mi alzo di scatto facendo cadere la sedia, impacciata come sempre, pago il conto e me ne vado.

    Raggiungo l’albergo, penso a quella ragazza gentile che ho incontrato all’ultimo meeting; si è prestata a dividere la stanza con me, e di più, si è pure offerta di occuparsi del mio bagaglio: forse non immaginava che sarei stata una compagna sregolata e fastidiosa. Almeno avrei potuto avvertirla del mio arrivo notturno. Ma appena ieri ero con lui e tutto questo non esisteva, e ora ieri non esiste più.

    È inutile che la raggiunga in camera adesso, la disturberei di certo e in ogni modo non potrei chiudere occhio. Ci sarà di certo qualche nottambulo, non sarei sola al bar dell’albergo. Ho bevuto abbastanza per stasera, e poi non mi piacciono così tanto le persone.

    Sfilo davanti all’ingresso dell’hotel. L’appuntamento per la colazione è alle sette e trenta, non la perderò, ma più che per riposare ho bisogno di queste ore per soffrire, per accettare il dolore della separazione.

    Sono uscita mentre era addormentato, lasciando quella stupida frase dietro la nostra foto. L’unico ricordo di noi. A quest’ora si sarà accorto che non ci sono…

    Continuo a camminare per la città, che se di giorno è un incanto, di notte è semplicemente indescrivibile. Guardo il fiume parigino scorrere lento e sinuoso mentre la luce intorno pian piano cambia, la mattina sta arrivando, è ancora così doloroso dire addio al dolore che provo.

    Un sospiro profondo, le spalle mi dolgono per le ore passate immobili. Queste sensazioni sono reali. Che scema sono. So da sempre che i sentimenti non fanno per me. Come ho potuto pensare che stavolta fosse diverso.

    5

    Mi dirigo a passo spedito verso l’albergo, le gambe sono sciolte, la testa leggera, tutta l’oppressione della nottata svanita. La bellissima città si sta destando un poco per volta, io mi sento sveglia e presente a me stessa. La mia vita inizierà qui, oggi.

    La stanza è nella penombra, la mia compagna ancora a letto. Sono le sei, le ho portato un caffè e un cornetto per ammorbidirla, perché ho assolutamente bisogno che mi lasci il bagno per una mezz’ora. In realtà è così gentile che probabilmente lo avrebbe fatto comunque. Non riesco a credere che esistano delle persone così diverse da me.

    Il bagno è perfettamente in ordine, come del resto tutta la camera, questa ragazza è inumana. Non apro neanche la valigia, tutto quello che mi serve è dentro la sacca. Spazzolino e biancheria pulita. Non ho il mio bagnoschiuma, userò quello dell’albergo. Nemmeno il mio egoismo ha il coraggio di tornare di là a disturbare quella pacifica creatura.

    Bussa alla porta, la sua voce di bambina mi fa sorridere.

    Tutto bene? Non sento più scorrere l’acqua da un po’, e insomma, scusa io dovrei proprio fare pipì.

    Da quanto sono qui? Non stavo davvero dormendo, ma a cosa stavo pensando per estraniarmi da tutto? A lui, ovvio. Quante docce abbiamo fatto insieme. A quest’ora si sarà dimenticato di me? E io mi sto dimenticando lui?

    La sento bussare di nuovo, potrei essere fuori dal bagno in meno di due minuti, ma la bulla che è in me prende il controllo. Scusami, ne ho ancora per un po’. Se vuoi puoi entrare, a me non dà fastidio.

    Sento che esita alla maniglia, immagino il suo pallido volto ancora assonnato mentre si interroga sul da farsi, in lei il bisogno e la discrezione si scontrano in una battaglia furiosa. Alla fine, si risolve a entrare, trasuda imbarazzo da ogni poro.

    Sono uscita dalla doccia e fingo di mettermi una crema sul viso in un modo così attento da mostrare che il destino dell’universo intero dipenda dalle mie rughe, intanto la spio nel riflesso dello specchio. È così bella, giovane, candida. Mi viene in mente la Heidi del cartone che guardavo da bambina. Satana all’inferno si sfrega le mani preparandomi il posto. Che posso farci, sono fatta così. La giornata non poteva iniziare in modo più divertente.

    Prendo un asciugamano, tolgo la crema dal viso, lo metto in testa. Il groviglio dei miei capelli è fuori controllo da settimane. Magari nella pausa pranzo cercherò una parrucchiera per dare almeno una spuntata, ma per stamattina un elastico dovrà bastare. Strofino con energia la testa con l’asciugamano mentre metto in carica il cellulare e aspetto che il portatile si avvii, poi lego l’elastico prima che il caldo e l’umidità prendano il sopravvento.

    Ecco che si riaffaccia il ricordo di lui, le sue mani nei miei capelli, la risata quando si accorgeva che non poteva toglierla senza strapparmene almeno un centinaio. La passione travolgente subito dopo.

    Come ho fatto a lasciarmi andare in quel modo? Come ho potuto lasciarlo dopo quello che ho provato? Io, la donna meno femminile che si possa

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