Quando c'era Lula...: Dal sogno dei grandi eventi a Bolsonaro
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Anteprima del libro
Quando c'era Lula... - Ivan Grozny Compasso
Ivan Grozny Compasso
Quando c'era Lula...
Dal sogno dei grandi eventi a Bolsonaro
Tracciati editore
e-mail: info@tracciati.eu
web: www.tracciati.eu
I Edizione - Giugno 2022
Collana ZOOM
© 2022 Ivan Compasso
Immagine di copertina: foto Ivan Compasso
Con la collaborazione di: Francesca Campanini, Donatella Gasperi.
Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.
ISBN: 978-88-32134-20-9
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
https://writeapp.io
Ringraziamenti
A Mauro Valeri
Indice
Ringraziamenti
Premessa
Prologo
2012-13
Maricon
Sostiene Texeira
O’crack
Augusto
I campioni nazionali
17 giugno
Voltar
La terra
Lacrimogeni
A cidade maravilhosa
Favelados, productos imaginarios
2014
Il Mondiale con Diego
Fino alla finale
Marco e Diego
La pistola
2016
Lava Jato
Un mondo nuovo
Rio Norte
Fuori dai giochi
2021
Bolsonaro
Premessa
Socrates, il grande campione degli anni Ottanta, capitano del Brasile ’82 e leader politico oltre che fine intellettuale, scrisse queste parole nella sua rubrica che teneva ogni lunedì sul più importante quotidiano paulista, la Folha do Sao Paulo, il 14 novembre del 2007 1 .
«La scorsa settimana io e mio figlio Gustavo, fondatore dell’Istituto Brasiliano di Diritto allo Sport, abbiamo pubblicato un manifesto sulla Folha di Sao Paolo, nel quale dichiariamo il nostro punto di vista sul Mondiale in programma in Brasile nel 2014.
Mi piacerebbe condividerlo con i nostri lettori. Ciò che segue vuole servire come spirito per approfondire la decisione di ospitare la Coppa del Mondo in Brasile.
Non ci sono dubbi caro lettore, sulla nostra felicità per la scelta del nostro Paese come sede di questa grande manifestazione calcistica nel 2014.
Questa felicità però non ci può annebbiare la vista davanti all’abisso che ci separa dalle condizioni necessarie per aver meritato questa designazione.
Il calcio è un fenomeno sociale, parte integrante della cultura del paese, un elemento innegabile di identità nazionale, estremamente simbolico in quanto tale.
Il calcio brasiliano, dentro e fuori dal campo, dice molto su chi siamo, i nostri valori, le dinamiche sociali e le relazioni di potere. È una lezione pratica di cosa sia il Brasile: il Mondiale, pertanto, non deve essere analizzato se non in quest’ottica.
La mancanza di condizioni è stata evidente sin dai primi passi per la candidatura del Paese, e a partire da oggi sarà evidente per quanto riguarda l’organizzazione di questo mega evento.
Dando una scorsa ai vertici che minacciano di mettersi a capo di questo processo è possibile anticipare il futuro.
L’appropriazione dei beni comuni, la personificazione maliziosa di estese iniziative sociali, la preponderanza di interessi indegni e illegittimi a proprio vantaggio e del proprio gruppo ristretto di persone e la difesa del poteruccolo
eterno che caratterizza queste pratiche nel mondo del calcio e nel Paese.
Il comitato organizzatore del Mondiale 2014 annunciato pochi giorni fa ne è il miglior ritratto.
Una sola persona che può tutto, che non deve dar conto o soddisfazione a nessuno. Torniamo al feudalesimo. Ma non dobbiamo preoccuparci.
Qualsiasi evento sportivo accade da solo. Basta una palla che rotoli e tutte le attenzioni si dirigeranno verso il campo e tutte queste premure svaniranno e saranno dimenticate. Grazie alla valanga di informazioni controllate, specialmente quelle veicolate dall’impero mediatico, onnipresente e onnipotente nel mondo del calcio, svolgendo un ruolo fondamentale nel ritardo delle istituzioni sportive È sempre stato così in Brasile, no?
Quello che ignorano volutamente, e che vogliono farci ignorare, è il potenziale di agitatore delle masse e trasformatore sociale di questo fenomeno giocato con i piedi.
Questa è la natura legittima del calcio.
Se dovesse emergere non troverebbe limiti alla trasformazione di realtà, all’integrazione di culture e persone, alla formazione di cittadini e conoscenze e infine servirebbe da vettore di sviluppo e uguaglianza. Questo è un punto di vista che ci manca. Lo spirito che darebbe un senso a una coppa del mondo disputata in Brasile.
Un Mondiale con questi valori in gioco, con benefici per tutti, benefici reali e non solo la fugacità della felicità di assistere ad alcune partite, ci renderebbe meritevoli di ospitare tale evento con molto orgoglio. Nemmeno per quanto riguarda le migliorie alle infrastrutture, conseguenza di un evento di questa portata, si può parlare delle condizioni necessarie. È già successo con il Campionato Panamericano, nonostante le innumerevoli promesse di incredibili lasciti e fantastiche migliorie, finita la competizione resta davvero poco destinato a migliorare la vita quotidiana dei carioca.
Quello che si è visto è stata una quantità immensa d’investimenti pubblici per nulla trasparenti, usati in larga parte per abbellire opere sociali provvisorie, dunque inefficienti, per migliorie urbanistiche non urgenti e per costruire parchi sportivi che servono a quelli di cui abbiamo parlato prima, sia che si parli di concessioni per il loro utilizzo in forma privata a prezzi ridicoli, o proprio per un effimero teatrino sportivo che serve a sostenere questo poterucolo
.
In questo scenario crudele la cosa peggiore è capire che l’unico che meriterebbe di vivere una coppa del mondo, grazie alla sua passione delirante per il calcio, all’intensità con cui questo sport fa parte della sua cultura e identità, è proprio chi, anche a causa di tutto ciò di cui abbiamo parlato, non è stimolato alla discussione sulla manipolazione della propria passione, né a comprendere questa realtà. Ovvero il tifoso brasiliano.
Alla luce di questi aspetti e di una visione più profonda e complessa che inserisca il Mondiale e il proprio gioco del calcio in un contesto sociale e politico, evitando il punto di vista e il potere di chi è contrario, e infine, andando oltre alla semplice festa o al semplice gioco, non vediamo le condizioni perché il Brasile riesca ad ospitare un evento di tale portata e simbolismo.
Allo stesso tempo, ci sembra improbabile che possa portare delle trasformazioni nelle realtà sociali del nostro paese, che è quello che a noi, che sogniamo un Brasile più giusto e umano, interessa».
Socrates
Prologo
Marzo 2021
«Da dove diavolo mi stai chiamando? Non sei a Rio?»
«Ma sei pazzo, fra’? A Rio non si può più stare, è da uscire pazzi. Non c’è niente, non si può lavorare, non c’è nessuno. La città è sempre più violenta, della polizia è inutile che ti dico. Così sono venuto a São Paulo litoral, circa 500 m a sud di Rio. Qui è bello e ci sono anche turisti. Ma aspetta che ti faccio vedere».
Angelo passa in modalità videochiamata e mi mostra la casa dove vive con la famiglia. Ha circa quarant’anni, fa del suo artigianato la prima forma di sostentamento della famiglia. L’ho conosciuto nel 2012 e da allora è nata una forte amicizia. Vive a Rio da quando ha vent’anni: nato a Milano, padre napoletano, madre colombiana, non capisce come sia concepibile anche solo pensare di vivere senza vedere il mare.
«State bene? Non riuscivo a contattarti».
«Lo so, abbiamo avuto tutti il covid, fra’. Prima i bambini e poi anche noi, quindi è stato un bel casino. Qui muore un sacco di gente, non si sa neppure quanti».
«Avete avuto tutti il covid e state bene? Anche i bambini?»
«Tutti bene per fortuna. Oh fra’, te lo devo dire però, guarda che la dengue è stata molto peggio. Che dolori che avevo quando l’ho presa. Col Covid invece l’importante è non avere problemi respiratori. Che qui se ti capita che ti prende male muori sicuro. A meno che non sei ricco, fra’».
«Quindi a Rio non ci torni più?»
«Aspetto, fra’».
«E cosa diavoli aspetti?»
«Lula, fra’. Lula. Non lo sai fra’?!? Lula è tornato, ora voglio proprio vedere sto bastardo di Bolsonaro. Però fra’, col cavolo che sto lì durante la campagna elettorale. Perché se è vero che secondo lui non bisogna buttare via soldi per la sanità e la salute pubblica in un momento dove manco dove metterli sanno, i morti, spende un sacco per i militari. Per quello spende eccome. E secondo te io sto a Rio con questo che chi lo sa cosa combinerà? Hai visto il suo amico Trump a Capitol Hill, che ha fatto. E lì è l’America, mica il Brasile, fra’». Lui chiama tutti fra’, a scanso di equivoci.
«Dai Angelo, mi vuoi dire che hai paura delle elezioni?»
«Hey fra’, siamo sopravvissuti alla Dengue, alla Zika e ora al Covid. Ma della campagna elettorale non mi fido proprio. A Rio poi. Questo è capace di scatenare la guerra civile. Dici che esagero?»
Se Ignacio Lula da Silva si potrà e nel caso si vorrà presentare, è tutto da vedere. Chi lo conosce bene, l’ex presidente del Brasile che dopo le traversie giudiziarie e la caduta delle accuse a distanza di anni torna in campo, è Augusto Paula. Anima critica del PT bahiano, avvocato, si occupa di diritti umani. Lui difende prima di tutto gli ultimi. Se con Augusto in generale mi sento molto spesso, con la pandemia è diventato ancora più frequente. Videochiamate lunghissime.
«Ho un sacco di tempo libero, fratello».
Augusto lo dice camminando sulla spiaggia di Jacuipe.
«Non porti la mascherina, Augusto? Non farai mica come Bolsonaro?»
Lui sposta lentamente il telefonino dal suo viso per farmi vedere la spiaggia. Non finisce più la sabbia a Jacuipe, e non c’è nessuno.
«Vedi perché non indosso la mascherina? Faccio due passi, da solo, e penso al mio amato paese. Come siamo ridotti. Quando sei venuto qui la prima volta ti domandavi se davvero quella segnata da Lula fosse la strada giusta e guarda ora come ci troviamo. Tanti errori, troppi, sono stati commessi, è vero. Però ora stiamo rischiando di perdere anche quel poco che avevamo costruito. La gente se non muore di Covid muore di fame. E se non muore di fame c’è qualcuno sempre pronto a sparare. Non era così il mio Brasile prima di Bolsonaro. Mi domando come sarà dopo. Perché ci deve essere per forza, un dopo».
2012-13
Maricon
Dicembre 2012
Leticia ha quasi ventiquattro anni. Statura media, occhi castani, capelli scuri. Abilissima con diversi strumenti, insegna a un conservatorio di Sao Paulo. Parrebbe quasi più europea che brasiliana anche per via della carnagione particolarmente chiara. La prima volta che l’ho sentita cantare e suonare era seduta su un tronco d’albero nel quadrato
di Trancoso. Proponeva un repertorio misto molto classico di jazz e bossanova.
Trancoso si trova a sud di Salvador de Bahia, cinquanta chilometri da Porto Seguro. Nonostante sia un luogo molto attrattivo per chi viaggia, non ha subito una forte trasformazione e il paesaggio è quasi intatto. Il centro del villaggio è rappresentato da uno spazio assolutamente verde, il quadrato
appunto, delimitato da costruzioni di legno, coloratissime come impone la cultura bahiana. Ristoranti, negozi di artigianato locale, banchi di frutta gestiti da signore vestite di bianco, ragazzini che corrono di qua e di là.
In fondo si scorge una chiesa, si dice sia la prima edificata in tutta l’America Latina dopo l’arrivo dei portoghesi. Accanto a un albero in fiore ci sono dei fili sottili che dai rami scendono verso terra. Tirandoli si viene sommersi da una pioggia di petali che poi, posandosi a terra, creano un soffice tappeto rosso. Un signore offre ai passanti una fresca bibita di limao, giovani ragazze si avvicinano sventolando sottili braccialetti di cotone, di ogni gradazione. Dei nastrini, tutti della stessa misura, 47 centimetri, detti Medida do Bonfim. Bisogna farselo allacciare ai polsi ed esprimere un desiderio mentre si fanno tre nodi in modo da fissarlo bene. Si aspetta che si strappi poi da solo, col tempo. A quel punto dovrebbe avverarsi l’incantesimo. Che ci si creda o no, lo portano tutti. Anche le star della tv, figuriamoci i calciatori.
La strada che porta alla spiaggia è un sentiero che corre tra gli alberi, sui quali sono tirati dei cavi che danno il là a una sfilata multicolore di teli da mare. Ce ne sono di ogni tipo, alcune immagini, è vero, si ripetono, ma ci sono dei commercianti che si fanno notare per creatività. C’è chi ha stampato i volti dei grandi musicisti brasiliani, chi i luoghi magici della zona, chi ha recuperato i caratteri degli indigeni che vivevano qui prima dell’arrivo dei lusitani.
Ovunque c’è musica. Musica e musicisti. Se Leticia si muove con la sua band e si esibisce comunque con un piccolo impianto d’amplificazione, i musicisti di strada si affidano alla propria voce e al proprio strumento. Sono i giorni che precedono il fine anno, è piena estate. In queste zone la maggior parte dei villeggianti sono brasiliani, quindi anche i commercianti fanno attenzione a quest’aspetto. Ci sono anche gli stranieri ma sono piccoli gruppi. Gli argentini non mancano mai, li troveremo dappertutto, per il resto si riconosce qualche nordamericano. In spiaggia si accompagna la birra, irrimediabilmente gelata, a gamberi o a formaggio cotto e condito con erbe aromatiche. Ragazzi e ragazze di ogni età giocano a pallone. Insieme, anche le partite. Poi ci sono veri e propri tornei.
Ci sanno davvero fare col pallone, i brasiliani, è uno spettacolo guardarli. Sono curioso di vedere come festeggeranno l’inizio del nuovo anno, quello che li divide dal ritorno della coppa del mondo in Brasile, dopo la tragedia
del Maracanazo, nel 1950. Il piccolo Uruguay sconfisse il Brasile con le reti degli angeli dalla faccia sporca, Ghiggia e Schiaffino.
Il Brasile, il paese, non la nazionale, sembra godere di ottima salute. Fa parte dei BRICS, e ospiterà nei prossimi anni i due più grandi eventi che ci possano essere. Anche sui diritti molte cose sono migliorate. E si respira anche qui ottimismo. Cauto ottimismo.
Quando, però, chiedo a qualcuno del Mondiale, la prima cosa che dicono quasi tutti è che la squadra non è pronta. Se invece gli si domanda degli stadi, di solito scoppiano tutti a ridere.
«Chissà se finiscono».
«Non li finiranno mai!»
«È troppo importante per il paese, non possiamo fare brutta figura».
«Ma manca ancora tempo...» chiosa qualcun altro, a un anno e mezzo circa dall’inizio del grande evento.
La seconda volta che ho visto e sentito suonare Leticia è stato il giorno prima di fine anno. Ero andato in giornata da Trancoso a Caraiva. Si trova a circa due ore di mare, distanza coperta con barca a motore molto veloce, quindi, oggettivamente, si parla di diverse miglia marine. Qui il Rio Caraiva s’incontra con l’oceano. Uno spettacolo incredibile. Non è la prima volta che mi capita di nuotare contemporaneamente in acqua dolce e salata, ma davvero questo posto racchiude in poche centinaia di metri tutto quello che si può chiedere alla natura. C’è la foresta, così imponente che sembra guidare il fiume verso il mare da quanto è fitta. Si crea un bacino naturale e tutto pare immobile. La spiaggia è come spezzata ma una lingua di sabbia avanza fino a dove il mare non è riuscito a farsi spazio. Sembra di rimanere sospesi... L’acqua assume una serie di gradazioni di colori che sembrano quasi dividere quella dolce da quella salata. Bambini giocano immersi proprio in questo punto, dove il fondale è molto basso e l’oceano ha ormai attutito la sua forza. Le onde del Pacifico sono poderose anche qui ma in questo spazio è come se si attenuasse tutto. S’infrangono prima di arrivare su questa parte di spiaggia. Si formano delle vere e proprie piscine naturali. In questo lembo di sabbia, non più largo di tre metri dove sia da una parte che dall’altra c’è acqua, c’è chi prende il sole. Con quattro sottili pezzi di canne di bambù e un telo, le persone del posto delimitano e affittano
questi piccoli spazi ambitissimi ai pochi turisti che si avventurano fino a qui.
Se si passeggia seguendo la spiaggia, man mano che si prosegue, si ha la netta impressione che si potrebbe camminare per ore senza incontrare che sabbia. Sono spiagge enormi, poco adatte per fare una nuotata tranquilla, vista la forza che il mare scarica qui. Le onde sono gigantesche, qualche surfista ne approfitta. Camminando verso il villaggio, invece, costeggiando il fiume, si incontra una serie di piccoli resort. Molti sono stati aperti da stranieri convinti che sarebbe stato un affarone vivere di turismo in questo paradiso, ma le cose per molti, non solo qui, non sono andate come speravano.
La gente del posto vive molto più in difficoltà di chi sta a Trancoso. Se anche lì si lamentano che le cose non vanno come tutti si augurano, un certo giro si è creato. Caraiva è più difficile da raggiungere. È vero che quando ci si arriva non si vorrebbe più andare, per via dei colori, dei profumi e dei sapori che irrimediabilmente ci riportano alle atmosfere dei romanzi di Jorge Amado, ma non in molti riescono a scoprirlo.
Proprio costeggiando questi piccoli resort incontro di nuovo Leticia e la sua band. Sta suonando in un giardino, è primo pomeriggio e nonostante la brezza c’è un gran caldo. Attorno a lei una ventina di persone ascoltano rilassate mentre mangiano frutta, bevono aracujà o limao misto a cachaca. Qui si comincia presto a bere, figuriamoci nei prefestivi. Sono tutti sotto degli alberi, in favore d’ombra. È molto carino il posto, un mix di gusto transalpino e di cultura locale. A gestirlo due ragazzi francesi che l’hanno rilevato da qualche mese. Uno di loro è al bar che prepara i cocktails. Chiacchierando dice a Camila, con la quale sono venuto fin qui, che in questo periodo di festa è bello far suonare anche di pomeriggio, non solo la sera. «Si crea un’atmosfera suggestiva».
Camila è tecnicamente mia cugina di secondo grado, è figlia di una cugina di mia madre. E, sempre a voler fare i pignoli, è la prima volta che ci incontriamo davvero. Sua madre e suo padre, quando io avevo nove anni, sono partiti da Sao Paulo e sono venuti a trovare tutti i loro cugini in Europa. La famiglia di mia madre è sparsa davvero in ogni dove, e solo in Europa loro hanno viaggiato dal Belgio alla Gran Bretagna per poi andare in Francia, venire in Italia e concludere il giro a Malta. Era il sogno di Zelia, la mamma di Camila, quello di vedere tutti i suoi cugini, e Brazil, così si chiama il padre, la accontentò. Così partirono per questo lunghissimo viaggio. Zelia, mia madre, era abituata a sentirla spesso nonostante la distanza. Si scrivevano ogni mese lettere lunghissime e ogni tanto riuscivano anche a telefonarsi. A quei tempi per fare le interurbane si andava alla Sip
. Viene da ridere a pensarci, nell’era degli smartphone. Una porta pesantissima, si entrava in quella sala dove c’erano delle cabine insonorizzate, si chiedeva la linea al centralino, si dava il numero e si chiamava solo dopo aver inserito i gettoni che si erano acquistati a una cassa. Una cosa così, più o meno. Quando Zelia e Brazil fecero tappa da noi si fermarono più del previsto. S’instaurò un legame fortissimo tra noi tutti.
Questo ricordo, quei giorni insieme, ha così creato un rapporto molto stretto anche con Camila, anche senza che ci fossimo mai visti. Non potevo quindi che iniziarlo con lei questo viaggio, perché so bene che lo sto solo cominciando e non so affatto dove mi porterà. Non lo sanno i brasiliani, che sarà del loro futuro, seppure prossimo, perché dovrei saperlo io? Se voglio davvero cercare di capire che impatto ha su questa gente trovarsi addosso tutto d’un tratto le attenzioni e le aspettative del mondo, non bisogna fare troppi programmi ma seguire il corso degli eventi.
Qui ci sono ancora cento milioni di poveri. Metà della popolazione. E, quando parliamo di povertà, ci riferiamo a quella vera. Quella fatta di niente. Un piccolo assaggio l’ho proprio a Caraiva: oltre la staccionata che delimita il giardino del resort ci sono alcuni ragazzini. Si vede che vivono per strada, ne incontrerò così tanti da non farci più caso. Quasi. Uno mi resterà impresso più degli altri, non solo per i suoi calzini, ma c’è ancora strada da fare prima di incontrarlo.
Quando i ragazzini si allontanano faccio più attenzione a quello che sto ascoltando. Suoni aspri, sporchi. La formazione non è la stessa, alcuni musicisti – tutti molto giovani – si danno il cambio e qualcuno ogni tanto si aggiunge. Leticia suona l’ukulele che ogni tanto alterna con un cembalo. Stanno giocando a rifare Tropicalia, il celebre album che diede il marchio a un movimento artistico che segnò sia culturalmente che politicamente il Brasile. Movimento che, una volta raggiunto il successo, tutte le forze politiche hanno tentato di tirare ognuna dalla propria parte, senza però riuscirci. Non c’è da stupirsi se la scaletta che ascoltiamo non è neanche lontanamente vicina a quanto sentito sul prato di Trancoso. Camila nelle pause tra un brano e l’altro mi spiega che i pezzi sono risalenti al periodo più politico della carriera di Caetano Veloso e che molti brani che stiamo sentendo sono stati scritti con Gilberto Gil. Parliamo di giganti della musica, non solo brasiliana. A un certo punto parte un curioso scioglilingua, poi l’allora super sperimentale É proibido proibir, che nasce come un chiaro manifesto contro tutti i tipi di totalitarismo. La canzone risale al 1968, tempi difficili in Brasile. Proprio questo brano mise in grande difficoltà Veloso che fu messo sotto accusa da più parti, com’era prevedibile. La sorpresa fu che i più duri con le sue scelte musicali, giudicate troppo sperimentali, da frocio
come gli urlavano a certi concerti, erano proprio gli studenti che manifestavano per le strade contro la repressione e la mancanza di libertà e democrazia. Insomma, le critiche più feroci arrivavano proprio da chi dichiarava di voler cambiare il mondo ma non accettava un’apertura di tipo artistico, di ricerca, di confine. È rimasta celebre la volta in cui, proprio di fronte a una platea di studenti e militanti politici, si scagliò in un’invettiva contro chi gli stava davanti accusandoli di essere conservatori tanto quanto quelli che contestavano. «Se sarete voi a prendere il potere, sarete quelli che avranno ucciso chi è morto ieri!» disse.
É proibido proibir non finì mai in nessun album di Caetano Veloso ma uscì singolo. Sul lato A, la versione come doveva essere, sul lato B quella eseguita con Gilberto Gil proprio al Festival Internacional de Cançao, dopo lo sfogo contro chi lo contestava. L’esecuzione che sto ascoltando è molto apprezzata dai presenti, molti dei quali hanno l’età per ricordare quei fatti. Tra i più giovani c’è chi non la riconosce, vista la sperimentale versione di un già sperimentale brano che, nella loro esecuzione, diventa scarno e quasi scheletrico. L’esibizione si chiude con un altro brano di Caetano Veloso, scritto nel 1969, un periodo molto difficile sia per lui che per il suo paese. Anche questo Leticia lo canta a modo suo. Arrivano gli applausi e lei, scherzando al microfono, dice: «Ok, ora basta con questa musica da maricon».
Tra le risate generali qualcuno chiede un bis e dopo un attimo di esitazione parte una strana session che dura fino a quando non ce la fanno proprio più. Salgono sul palco tutti quelli che hanno partecipato a questo strano pomeriggio. Persone, turisti che stanno transitando, attratti da tanta energia, si uniscono alla compagnia. Qualcuno, com’era prevedibile, comincia a ballare. Mentre capisco che col maracuja non ho un bel rapporto, è un frutto troppo dolce e nei cocktail preferisco il classico limao (il lime), altrimenti è davvero stucchevole, chiedo a Camila se la battuta di Leticia fosse solo per gioco, per rimarcare quei tempi o per evidenziare che ancora oggi certi pregiudizi rimangono. Dopotutto sulla carta questo è il paese più emancipato e libero, sessualmente, che ci sia.
«A Sao Paulo, dove abito io – racconta – essendo una metropoli attraversata ogni giorno da gente di tutto il mondo, dove comunque rispetto al resto del paese la condizione, sia economica che sociale, mediamente è migliore, la comunità omosessuale non si nasconde. Anche a Florianopolis o a Rio de Janeiro è così. Le grandi città fanno storia a sé. È nei piccoli centri che ci sono i problemi più grossi. Come imparerai presto stando qui, anche in questo caso la posizione sociale, quindi la situazione economica, determina molto. Se hai i soldi puoi essere quello che vuoi, senza quelli la situazione è molto diversa. È così anche per noi donne, figurati. Credi che abbiamo gli stessi diritti degli uomini solo perché abbiamo una presidente donna? Lo sai che non è così. Non può essere così. Forse da voi in Europa, ma qui no».
Mi trattengo dal dirle che anche in Europa non è che sia così diverso, ma siccome non è questo il punto, continuo ad ascoltarla raccontare. «Il Brasile è una giovane democrazia che ha subito la brutalità di un regime militare. Durante quel periodo, che è finito a metà degli anni Ottanta, le libertà erano davvero limitate. Ed erano pochi bianchi conservatori a dominare la società, a comandare. E a fissare i parametri per ciò che poteva essere e ciò che invece no, non era assolutamente accettabile. Dato per scontato che gli oppositori politici erano terrorizzati o misteriosamente sparivano, c’era anche l’aspetto della discriminazione che quindi non colpiva solo per il colore della pelle, o per le origini, ma colpiva anche chi faceva scelte di vita diversa, ritenute non corrette. Figuriamoci cosa accadeva a chi aveva tendenze sessuali diverse dagli eterosessuali. Non era un paese facile, insomma. Continua a non esserlo, per molte cose. Basti pensare alla fetta di popolazione che vive decisamente al di sotto della soglia della povertà, ancora molto numerosa. In ogni caso, alla libertà nessuno vuole rinunciare. Perché anche quella non è scontata. Anche se con difficoltà, i diritti una volta raggiunti vanno difesi. Detto questo, se uno ti vuole offendere in Brasile, ti dà del maricon (frocio, finocchio, rott...)».
Leticia è giovane, è una ragazza che ha un innato talento musicale e dicono sia molto brava anche a insegnare agli altri. È nata dall’unione di una donna omosessuale e del suo migliore amico. Il padre, eterosessuale, ha poi sposato la