Il lavoro del lavoro
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Perché non basta più un lavoro qualsiasi.
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Anteprima del libro
Il lavoro del lavoro - Aldo Bottini
Capitolo 1
Lavoro e valori
Alberto Orioli — Qualcuno ha detto che il lavoro è il modo che l’uomo ha avuto fin dagli albori per «realizzare l’umanità», intesa come rapporto dialettico con la natura, a tratti alleata, a tratti nemica. È stato lo strumento per trasformarla, la natura, per adattarla ai bisogni di volta in volta mutevoli.
«L’uomo vive mentre lavora» ci insegnava Jean Fourastié negli anni ’70.
E aggiungeva che il lavoro diventa la rappresentazione della dignità dell’uomo e della sua fiducia, se non fede, nella finalità del mondo. Ma è stato, e spesso è ancora, anche una espressione di schiavitù, di servaggio innaturale e umiliante.
Il lavoro intreccia il rapporto tra le generazioni, lo scambio dei saperi, la dialettica dell’innovazione, la cultura della gerarchia, il rapporto tra talento e necessità sociali: non è una semplice attività umana.
È la quintessenza dell’essere umani.
Nella previsione costituzionale dell’articolo 1 il lavoro è ancora di più: il valore cardine dell’intero impianto costituzionale repubblicano; strumento per realizzare libertà, autonomia, promozione e realizzazione della persona. Ma anche ponte culturale prima ancora che politico per recuperare l’unità tra società e Stato. Strumento per dare contenuto concreto alla partecipazione dei singoli allo sviluppo delle comunità e della coesione sociale, decisive per un Paese uscito dalla guerra civile, in macerie materiali e morali come era quello ai tempi dei costituenti.
Quell’intuizione è validissima ancora oggi, anche se però abbiamo capito che uno dei presupposti per la completa realizzazione costituzionale è quello dell’equilibrio demografico.
Se i giovani si riducono e il Paese perde intere generazioni tutto cambia. Anche per il lavoro. E soprattutto per il welfare, che perde la cosiddetta solidarietà tra generazioni che, per la verità, agli occhi dei giovani dell’ultimo ventennio si è rivelata una beffa: hanno garantito la contribuzione per consentire l’uscita dal lavoro di quelle generazioni che hanno scritto le regole lasciandoli senza prospettive e con la sgradevole sensazione di essere stati soltanto dei portatori di contributi per conto terzi. Senza l’idea – e fino a pochi anni fa era un dato – che avrebbero percepito una pensione proporzionata al reddito una volta finito il ciclo lavorativo.
La rivalsa in atto sembra essere quella di giovani che si percepiscono come bene scarso e tentano di alzare la loro riconoscibilità sociale e, dunque, anche il loro prezzo. Laddove forse l’elemento rivoluzionario è il rifiuto della spartizione canonica della vita professata dai loro genitori o nonni: scuola, lavoro, pensione. E soprattutto il rifiuto della prevalenza del tempo del lavoro sul tempo della vita.
Tra le discontinuità con il passato c’è anche il fatto che – come spiega il demografo Alessandro Rosina – «i giovani italiani si trovano a essere maggiormente e più a lungo a carico della ricchezza privata accumulata in passato dai genitori, anziché messi nella condizione di generare nuova ricchezza e rafforzare il benessere collettivo».
Con l’idea-corollario che il lavoro diventa anche strumento di educazione all’emancipazione.
Le grandi catastrofi globali, dal Covid alla guerra in Ucraina, hanno indotto a un ripiegamento nella ridotta della frugalità, del ripensamento fatalistico del tutto può succedere
che archivia l’idea del sacrificio come premio, del cammino faticoso e della meta esistenziale come finalità nobili del lavoro.
Da qui svanisce l’identificazione con il lavoro che è il fuoco amico della civiltà contemporanea. L’87% di chi è occupato – avverte il Censis – dichiara di dedicare troppo tempo al lavoro e di avere maturato l’intenzione di diminuirlo e di ridimensionarlo a beneficio delle relazioni sociali o dei propri hobby.
Sempre secondo il Censis non funziona più il tradizionale intreccio lineare tra «lavoro-benessere economico-democrazia».
Un prezzo valoriale, innanzitutto, per chi se lo può permettere: il lavoro deve diventare un modo per incidere nella società, per fare la differenza, altrimenti non ha senso. È anche il portato di un’esaltazione del narcisismo come tratto della nostra contemporaneità social. E anche questo prospetta un riappropriarsi del lavoro come modalità con cui essere umani. Umani contemporanei: nel solco delle nuove sensibilità indotte dalla tecnologia e dalla percezione degli sbagli fatti nel passato, ad esempio, sulla sostenibilità. Dal mito del posto fisso si passa al mito del posto giusto.
La generazione yolo - you only live once (si vive solo una volta) – sta portando una nuova cultura del relativismo nel lavoro. Che, complice anche lo sconvolgimento sociale indotto dal Covid, ha portato al fenomeno del big quit, del gran numero di dimissioni volontarie (la great resignation, fenomeno soprattutto di matrice americana, dove il Paese vive una stagione di piena occupazione). Come se il lavoro avesse perso senso, appeal. E come se non fosse più la modalità con cui gestire la propria sopravvivenza anche economica. Naturalmente ciò amplifica i fenomeni di diseguaglianza già in atto nelle economie occidentali. E diventa appannaggio di chi magari abbia una possibilità di rendita (anche se non ingente) e quindi goda di un diritto alla scelta, negato a chi, senza alternative economiche, rischi soltanto indigenza, emarginazione e povertà. Non sono piccoli numeri perché le nuove generazioni possono contare su un welfare informale delle famiglie che, nel boom italiano, hanno accumulato beni per almeno due/tre generazioni. Così i lavoratori sono precari per antonomasia, ma usano la precarietà anche come possibilità paradossale di cambiamento, come disperata forza contrattuale.
Fenomeno che accentua la competizione tra una insorgente mentalità da rentier rispetto a quella trasformativo-produttivistica. E a farne le spese è l’idea stessa di lavoro e il suo mito ambivalente che ha accompagnato la cultura occidentale, fin dallo stigma biblico della fatica come punizione: «Mangerai il pane con il sudore del tuo volto finché tornerai nella terra da cui fosti tratto; perché sei polvere, e in polvere ritornerai».
E forse in questi nostri tempi ribollenti, dove il mondo cerca nuovi equilibri geopolitici anche fondati sulla contrapposizione di valori e di civiltà, c’è spazio anche per un ripensamento del lavoro magari proprio partendo dal libro della Genesi. Soprattutto perché l’Italia è la patria dei diritti del lavoro, ma si ritrova un Paese ricco di diritti e povero di lavoro.
Aldo Bottini — Partiamo dalle grandi dimissioni. Al di là delle esagerazioni mediatiche, non si può negare che il fenomeno esista. Lo dicono i dati che ci vengono forniti da più parti, lo conferma l’esperienza quotidiana. Molti responsabili delle funzioni HR riportano mediamente un raddoppio, negli ultimi due anni, del turn over. Numeri che crescono ulteriormente, se si concentra l’osservazione sui lavoratori giovani altamente qualificati.
Non credo proprio che questo abbia a che vedere con una sorta di moderna versione di quel rifiuto del lavoro
teorizzato da alcune frange di estrema sinistra negli anni ’70 quale forma di contrapposizione (silente o manifesta) al sistema di produzione capitalistico. E neppure penso che si tratti di una fuga di chi se lo può permettere verso una vita, più o meno frugale, da rentier, dedito alla consumazione dei piccoli o grandi patrimoni accumulati da nonni e genitori.
È certamente vero che la ricchezza privata, accumulata a partire dagli anni del boom economico nel nostro Paese, ha funzionato e funziona tuttora da rete di protezione e ammortizzatore sociale, ma il fenomeno di chi in questi anni lascia (o progetta di lasciare nel breve/medio periodo) il proprio attuale lavoro è più complesso, e delinea una tendenza accentuata e accelerata dalla pandemia, ma non generata dal nulla.
Dal mio punto di osservazione vedo una maggiore propensione a cambiare lavoro, non ad abbandonarlo tout court. C’è sicuramente, soprattutto tra i millennials e la Generazione Z, meno paura di cambiare rispetto al passato. La sicurezza che deriva dall’avere, poco o tanto che sia, le spalle coperte
può giocare un ruolo, ma non è il motore del cambiamento.
Conta molto di più, soprattutto ovviamente per chi può vantare una elevata formazione e/o qualificazione professionale, l’accresciuta consapevolezza del proprio potere contrattuale, che sempre più spesso induce a non accettare un lavoro qualsiasi, ma a scegliersi il proprio datore di lavoro (secondo un’espressione cara al professor Pietro Ichino) e a cambiarlo quando non risponda più alle aspettative, o quando si presenti all’orizzonte qualcosa di più interessante.
Al riguardo, valga un piccolo aneddoto personale. Anni fa, uno dei miei figli, un tipico millennial neolaureato, annunciò a me e a mia moglie che avrebbe lasciato il suo primo impiego a tempo indeterminato e ben pagato, in una solida, tradizionale e ben reputata società, per andare a lavorare, con una retribuzione inferiore, in una start up molto innovativa che iniziava allora a muovere i primi passi. Io e mia moglie gli dicemmo che era pazzo, come del resto avrebbero fatto i nostri genitori. Non ci diede retta, e naturalmente ha avuto ragione lui: la start up che lo aveva affascinato è rapidamente diventata una delle più interessanti aziende globali, che gli ha offerto un’altrettanto rapida crescita professionale.
D’altra parte, l’accresciuta possibilità di scelta dei lavoratori va di pari passo con il calo demografico, che comincia a produrre i suoi effetti man mano che i baby boomers escono dal mondo del lavoro. Lo shortage di personale competente (e talvolta di personale tout court) turba i sonni di tutti gli HR e occupa ormai da tempo i titoli dei giornali. Le previsioni al riguardo sono inquietanti. Secondo uno