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I Segreti dei fiori e degli uccelli: Le allegorie mistiche di un maestro sufi del XIII secolo
I Segreti dei fiori e degli uccelli: Le allegorie mistiche di un maestro sufi del XIII secolo
I Segreti dei fiori e degli uccelli: Le allegorie mistiche di un maestro sufi del XIII secolo
E-book135 pagine1 ora

I Segreti dei fiori e degli uccelli: Le allegorie mistiche di un maestro sufi del XIII secolo

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Info su questo ebook

È la prima traduzione italiana di un classico della letteratura mistica medievale in lingua araba. L’opera è un unicum nella storia del sufismo. L’autore – un mistico egiziano del XIII secolo – in questa sua opera, l’unica pervenutaci, dissemina insegnamenti sapienziali attraverso l’uso felice di allegorie animali e vegetali. Nei 37 brevi capitoli del testo, al-Muqaddasi immagina che una lunga serie di fiori (camomilla, lavanda, basilico) e di uccelli (nobili come l’usignolo, il falco, la rondine, il pavone, ma anche meno nobili, come l’oca, il gallo, il pipistrello), gli parlino rivelandogli i loro segreti e le loro qualità. Il testo, non diversamente da La lingua degli uccelli di ‘Attar, si richiama al genere della fiaba allegorica ma, al di là del suo valore poetico, può essere considerato come una delle migliori espressioni della letteratura esoterica araba.
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2013
ISBN9788827223956
I Segreti dei fiori e degli uccelli: Le allegorie mistiche di un maestro sufi del XIII secolo
Autore

'Izz al-Dîn al-Muqaddasî

Nacque a Gerusalemme e lì svolse la funzione di imam e di predicatore. Morì nel 1280. Gli sono attribuite diverse operette, sempre di contenuto mistico e apologetico.

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    Anteprima del libro

    I Segreti dei fiori e degli uccelli - 'Izz al-Dîn al-Muqaddasî

    COPERTINA

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    I SEGRETI DEI FIORI E DEGLI UCCELLI

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    Le allegorie mistiche di un maestro sufi del XIII secolo

    ‘izz al-dÎn al-muqaddasÎ

    A cura di Angelo Iacovella

    Con un saggio in appendice di Alberto Ventura

    Orizzonti dello spirito / 95

    Collana fondata da Julius Evola

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    Copyright

    I SEGRETI DEI FIORI E DEGLI UCCELLI - Le allegorie mistiche di un maestro sufi del XIII secolo

    di ‘Izz Al-DÎn Al-MuqaddasÎ

    A cura di Angelo Iacovella

    Con un saggio in appendice di Alberto Ventura

    ISBN 978-88-272-2395-6

    © Copyright by Edizioni Mediterranee

    Prima edizioni digitale 2013

    Via Flaminia, 109 - 00196 Roma

    www.edizionimediterranee.net

    Versione digitale realizzata da Volume Edizioni srl - Roma

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    Introduzione

    Invano si cercherebbe il nome di ‘Izz al-Dîn al-Muqaddasî nei più diffusi manuali di letteratura araba editi in Occidente e a stento si vedrebbe citata o segnalata la sua opera Kitâb Kashf al-Asrâr ‘an Hukm al-Tuyûr wa’l-Azhâr (letteramente: il Libro della spiegazione dei segreti relativi alla condizione ontologica degli uccelli e dei fiori) nel pur vasto e variopinto panorama delle fonti in lingua originale, redatte in età tardo-medievale o all’epoca della successiva decadenza. Tra le rarissime eccezioni a questa inconsapevole congiura del silenzio, sulle cui motivazioni più riposte diremo più avanti la nostra, la notizia biografica – fugace, certo, ma pur sempre sufficiente a gettare un qualche sprazzo di luce sull’equazione personale dell’Autore e sulla sua peculiare cifra stilistica – che si deve alla penna del poligrafo mamelucco Abû ’l-Mahâsin Jamâl al-Dîn Yûsuf b. Taghrîbirdî, estensore, intorno alla metà del XV secolo della nostra èra, di un celebre e alquanto autorevole Repertorio-obituario di uomini notevoli, dal titolo al-Manhal al-Sâfî wa’l-Mustawfâ ba‘da al-Wâfî (La pura e piena fonte dopo il compimento)¹. Ora, mentre nel caso di altre personalità di spicco da lui menzionate (governatori, giurisperiti, comandanti militari, uomini di religione ecc.), Taghrîbirdî è solito diffondersi in una miriade di dettagli (a volte insignificanti) e di sottigliezze erudite degne di miglior causa, quando si tratta di rievocare, traendola dall’oblio, la stinta silhouette di ‘Izz al-Dîn al-Muqaddasî e di additare il contributo specifico da questi arrecato alla civiltà arabo-islamica, egli si contenta di offrirci delle indicazioni che – viste con il senno di poi – ci appaiono fin troppo stringate ed essenziali; segno, forse, del non eccelso apprezzamento nel quale la scarna produzione letteraria (in prosa e in versi) di quel semi-sconosciuto scrittore palestinese, originario della città di Gerusalemme (Bayt al-Maqdis), era tenuta dagli esponenti più in vista della intellighentzia islamica. Così, sempre in quella sede, ci viene frettolosamente ricordato che dello stesso al-Muqaddasî (il quale rispondeva, altresì, all’appellativo di Ibn ‘Abd al-Salâm b. Ahmad b. Ghânim) non si conosceva, già allora, che la data della morte (il 18 del mese di shawwâl dell’anno 678 dall’ègira, corrispondente al 21 febbraio 1280), sopravvenuta in quel del Cairo a seguito di una caduta rovinosa da un luogo elevato. Il solo altro dato certo riguardava la professione del Nostro: uomo coltissimo e provvisto, per unanime giudizio dei suoi contemporanei, di un eloquio forbito, al-Muqaddasî svolse le funzioni di wâ’iz predicatore ufficiale, soprattutto in Egitto, ispirandosi alla lezione dell’insuperato giurista e oratore irakeno Abû ’l-Faraj Ibn al-Jawzî (m. 1201 d.C.), capofila della scuola hanbalita di Baghdâd². In questa veste, egli diede prova delle sue doti non comuni in occasione di una cerimonia svoltasi in quel della Mecca, al cospetto di una folla ammirata di sapienti e di potenti lì appositamente convenuti per ascoltarlo. Altrettanto arido di ragguagli in merito alle imprese pubbliche di al-Muqaddasî risulta il più recente – ma non per questo meno accurato – Lexicon bibliograficum et enciclopaedicum³ dell’ottomano Hâjjî Khalîfah (1608-1657), il quale – a differenza del suo predecessore – pedissequamente si limita a fornire il titolo della presente operetta, senza scendere nelle benché minima precisazione in ordine al suo compilatore, trattato alla stregua – ahilui! – di un minore tra i minori. Come spiegare, in una prospettiva critica, la smaccata e per certi imbarazzante incomprensione ⁴ – per non dire di peggio – dimostrata dalla cultura dotta arabofona nei confronti di questa singolare, benché periferica, figura di letterato?

    La risposta a questo dilemma ermeneutico è racchiusa, ci sembra, tra le pagine del poema in prosa di cui è data qui, per la prima volta, una versione integrale in italiano. Al lettore avvertito basterà sfogliarle per rendersi conto – non senza un filo di iniziale stupefazione – che tanto l’argomento (l’intimo e serrato colloquio tra un io narrante e ciò che del cosmo circostante in lui risuona) quanto il meccanismo affabulatorio a esso soggiacente rappresentano, per la loro straordinaria modernità, un unicum nel suo genere, esempio atipico di eccentrica evasione dalle misurate e impersonali regole dell’estetica musulmana, notoriamente refrattaria all’individualismo e all’introspezione psicologica.

    Al-Muqaddasî ci conduce in un giardino esotico e lussureggiante, quasi un luogo dell’anima, dove a farla da padroni sono le specie più diverse di fiori e di volatili, ma anche la nuvola e lo zefiro, con ognuna delle quali, egli immagina di intavolare un discorso non verbale, istituito sul fondamento della immedesimazione e della simpatia (nel senso etimologico del termine: partecipare alla natura, alle gioie e alle sofferenze altrui), ricevendone in cambio profondi ammaestramenti sul senso della vita e dell’amore. Se è vero che al figlio di Adamo è stato donato il privilegio, per dirla con Dante, di significar per verba i moti e i turbamenti più sottili scaturenti dalla sua interiorità, questo non significa che alle altre creature – animate o inanimate – non sia concessa, di converso, la possibilità di esprimersi in quello che i mistici musulmani hanno sempre definito, non per nulla, come il verbo degli uccelli (mantiq al-tayr) o linguaggio emblematico (lisân al-hâl). Perché l’uomo acceda a questa peculiare modalità comunicativa, occorre che si sbarazzi, in via preliminare, dell’ingombrante e ronzante (per usare un’espressione tratta dallo yoga di Patañjali) mulinello della mente, che è esattamente ciò che impedisce all’udito spirituale di schiudersi e decifrare i sublimi criptogrammi che la natura ci consegna, senza risparmio, per il tramite dei suoi messaggeri alati e profumati.

    Quando, nel 1821, ad opera del grande orientalista francese J.H. Garcin, fu data alle stampe la prima edizione in arabo (con parziale traduzione e note a commento)⁵ delle allegorie di ‘Izz al-Dîn al-Muqaddasî, non sfuggirono, al sapiente curatore, le implicazioni esoteriche che all’opera in questione dovevano connettersi, ancorché seppellite sotto la coltre di una forma intenzionalmente voluttuosa e barocca, ampollosa e altisonante. Ascrivendolo apertamente all’albo d’oro del sufismo, il Garcin rendeva giustizia a un insospettato maestro della spiritualità extra-europea, che – pur attingendo ai vieti stilemi dell’immaginario mistico di gusto iranizzante (con tanto di rose e di usignoli cinguettanti) – era riuscito a trasformare una apparentemente innocua divagazione morale in un testo sapienziale, dalla portata universale e senza tempo.

    E ci piace pensare che, dall’alto della sua bizzarra scienza, questo retore medio-orientale avrebbe potuto tranquillamente conversare alla pari con Paracelso, nell’università di Basilea, a proposito di signatura rerum, o accompagnare, nelle sue magiche e ispirate peregrinazioni attraverso la romantica campagna inglese, il medico-teosofo Edward Bach, interprete della rugiada e scopritore delle virtù terapeutiche degli omonimi fiori.

    La parola non detta attende di essere udita.

    Angelo Iacovella

    Lo scrivente, nel licenziare questo volume, sente l’obbligo di ringraziare, per l’aiuto prestatogli e i preziosissimi suggerimenti, i dottori Davide Saponaro e Muhammad Abdelkader.

    I SEGRETI DEI FIORI E DEGLI UCCELLI

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    Prefazione

    Nel nome di Allâh Clemente e Misericordioso

    Lode ad Allâh vicino nella Sua lontananza, lontano nella Sua vicinanza, la cui grandezza non è suscettibile di essere descritta né in tono serio né leggero, santificato nell’elevatezza della Sua lode, senza limite e senza misura, il quale ha dato l’esistenza a ciò che in principio era nulla, depositando un grano di saggezza in ogni essere vivente. Egli ha conferito all’intelletto la facoltà di giudicare, al fine di consentirgli di discernere tra una cosa e il suo contrario e ha ispirato all’uomo ciò che questi sperimenta, ragion per cui l’uomo dispone della facoltà di riconoscere il vero attraverso la vista e per mezzo del pensiero ravvisare la bontà dell’intenzione. Chiunque si consacri a una retta riflessione, felicemente guidata, si persuade che ogni creatura può incorrere nella presa della disgrazia o della fortuna, benché nutrita dai tesori delle Sue grazie e dei Suoi doni preziosi, giacché nessuno può trattenere ciò che Allâh concede agli uomini in misericordia e nessuno può concedere ciò che Egli trattiene. Se l’occhio della tua vista interiore fosse purificato e lo specchio della tua coscienza privo di ogni sozzura, e tu aprissi l’orecchio del tuo risveglio, ogni creatura vivente ti renderebbe edotto in ordine ai suoi desideri non ancora appagati, e sulla pena che scaturisce da tale privazione. Perché, dunque, non volgi la mente allo zefiro che mormora nel fogliame, accompagnandosi al pianto delle nuvole, il cui movimento assomiglia all’andirivieni delle onde del mare e che geme dietro il dolce sorriso del fulmine, seguito dallo scoppio di riso del tuono? Volgiti poi alla primavera: eccola mentre ti colma di gioia mercé l’apparire delle sue rose e ti annuncia il venir meno della fredda stagione e avanza verso di te a misura che l’inverno si ritira e un mantello screziato riveste la nudità dei campi; il salice d’Egitto si lamenta con te per l’ondeggiare dei suoi rami e la margherita ti mostra in rassegna il variopinto esercito dei fiori agitanti al tuo cospetto i loro stendardi pavesati di felicità; il narciso si erge sul suo stelo come intento alla preghiera; l’anemone ti appare con indosso una veste stracciata e le gote arrossate dal pianto

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