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Alfonso De Liguori. Vescovo a forza e moralista geniale
Alfonso De Liguori. Vescovo a forza e moralista geniale
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E-book250 pagine3 ore

Alfonso De Liguori. Vescovo a forza e moralista geniale

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Questo saggio cerca di vedere sant’Alfonso com’era, e non come alcuni vorrebbero che fosse. Percorrendo la «strada degli eccessi», di voci negative o di esaltazioni indebite, De Spirito evidenzia la disinformazione di quelle e la inconsistenza di queste. Confrontando il suo profilo interno e l’ambiente intorno con uomini e idee, etiche e ascetiche, a lui precedenti o coevi, l’Autore rivela l’infondatezza di primati attribuiti al Santo nell’attività missionaria, di vagheggiate propensioni a una «Chiesa nazionale» nel servizio episcopale, e di una supposta «rivoluzione copernicana» nella storia della teologia morale. Dallo studio, invece, della sua vita, che si svolse nel secolo dei Lumi, e dall’esame delle opere, che nel passato ebbero una diffusione mondiale, appaiono l’umanità di un simpatico santo napoletano, l’abilità del «migliore artista» della devozione popolare e la genialità di un grande maestro di vita cristiana.
LinguaItaliano
Data di uscita21 ott 2016
ISBN9788838245039
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    Anteprima del libro

    Alfonso De Liguori. Vescovo a forza e moralista geniale - Angelomichele De Spirito

    ROMA

    L’AUTORE A CHI LEGGE

    Nel Settembre del 1997, aprendo il convegno di studi svolto a Benevento e a Sant’Agata dei Goti, per il terzo centenario della nascita di sant’Alfonso de Liguori (1696-1996), ricordavo come egli, lasciando questa diocesi per motivi di salute, a chi scherzando gli diceva di vederlo con la testa più dritta sul collo e non così curva come prima per causa dell’artrosi cervicale, sorridendo rispondeva: «Sì, perché mi ho levata la montagna del Taburno da sopra il collo» [1] . Il Taburno è un massiccio montuoso di 1393 metri nell’Appennino campano, che a ovest di Benevento sovrasta Sant’Agata dei Goti. E l’appropriata metafora indicava la grave responsabilità di cui si sentiva investito nella guida di quell’antica, seppur piccola diocesi.

    Ora, per il secondo centenario della sua beatificazione (15 settembre 1816) vorrei poter dire qualcosa di nuovo, o almeno in modo nuovo, riguardo a quanto già ampiamente esposto sulla sua attività missionaria, l’episcopato e la teologia morale; e pubblicato nel volume che raccoglie gli atti di quel convegno [2] .

    Allargare lo sguardo soprattutto al vasto, intricato, contraddittorio e offuscato panorama della storia della teologia morale, comparando tra loro uomini o idee, serve allo storico e all’antropologo culturale, che trattano essenzialmente di valori vissuti. Ed è indispensabile per lo studioso, che in questa disciplina intende evidenziare «cambiamenti epocali» o, semplicemente, più o meno importanti innovazioni, per poi esprimere un sensato parere sui loro fautori.

    In fatto di correnti dottrinali, percorsi ascetici o «sentenze morali» – opportunamente difese o avversate, più che originali o «copernicanamente rivoluzionarie» –, è nell’impegno per la loro affermazione e vasta divulgazione, che sant’Alfonso eccelle. Con la sua predicazione, ma soprattutto con le sue opere a stampa. Che se, fra tante, sono sopravvissute nel popolo cristiano – almeno fino al Vaticano II –, è perché sono state scritte col cuore, oltre che con la mente; e rispondevano a esigenze culturali del tempo, con una sensibilità popolare e un linguaggio familiare, accessibile a tutti.

    Era questo uno dei pochi meriti, di cui egli stesso andava umilmente fiero. «L’impegno mio – confidava all’editore veneto Giambattista Remondini – è di scrivere le cose con una tal chiarezza che le capiscano tutti; e mi dicono la gente che in ciò hanno qualche pregio l’opere mie, perché vi sono spiegate con chiarezza le cose più difficili» [3] . Ma è pure uno dei tanti meriti, che gli si possono riconoscere: l’aver concorso nella storia della lingua italiana alla formazione di un toscano popolare.

    Per il resto, dovrebbe essere chiaro – a chi non si ferma in superficie e non si accontenta di frasi ad effetto – che a una notevole e più spedita affermazione della morale alfonsiana, ha provveduto la dichiarazione ufficiale della sua santità (1839). Lo avevano ben visto, cinquant’anni prima, alcuni lungimiranti esperti. Racconta il biografo Tannoja che, morto Alfonso, in un consesso di ecclesiastici «impastati di farina giansenista», un dignitario tra gli altri disse: «Preghiamo Iddio che non sia santificato, ché va a terra la causa nostra». E in un’altra adunanza si sentì esclamare: «Se questo si fa santo – cioè viene canonizzato –, noi siamo ruinati» [4] .

    Intanto, se un primato si deve riconoscere a questo santo napoletano, è quello di essere stato il migliore artista della devozione popolare [5] . Facendo attenzione, però, che per lui – che cita san Tommaso – la devozione (che non è devozionismo) consiste nell’ «esser pronti ad eseguire in tutto quel che Dio da noi domanda» [6] .

    Ma la devozione è certamente fatta anche di preghiere. Non ripetute formule magiche per soli beni e benefici materiali, ma quelle che nutrono «l’amore che lega e stringe l’anima con Dio»; e, se «la fornace dove s’accende la fiamma del divino amore è l’orazione, o sia meditazione: In meditatione mea exardescet ignis (Ps 38, 4)», Alfonso arriva a dire: «Senza l’orazione mentale non si prega»[7]. Dunque, «sai che viene a dire orazione? – egli domanda – Viene a dire, parlare da tu a tu con Dio, trattare d’amicizia con Dio»[8].

    Il popolo, poi, è composto di ricchi e poveri, di colti e incolti. Ma per lui, cui stava a cuore «la divozione di ogni sorta di persone», tutte sono anime bisognose della stessa misericordia di Dio, e perciò della stessa preghiera e dello stesso amore [9] .

    Questo principio alfonsiano è tutto il contrario di ciò che appare a qualche cultore, peraltro non dozzinale, di storia della spiritualità. Cioè, che il santo, presupponendo un popolo «diviso fra cristiani comuni, impegnati ad evitare il peccato mortale, e anime elette orientate a una perfezione spirituale», per gli uni avrebbe scritto la sua teologia morale, minimalista; per le altre, «anime spiritualmente aristocratiche», le sue opere ascetiche[10]. Il che sarebbe sembrato ad Alfonso quasi una bestemmia, visto quel che ha scritto e come lo ha scritto. Per esempio, seguendo i suoi maestri, san Francesco di Sales e santa Teresa d’Avila, e ancor prima san Paolo, egli ripeteva: «Iddio vuol tutti santi, ed ognuno nello stato suo»[11].

    Con cognizione di causa, invece, e con adeguate parole, hanno tradotto quel primato di Alfonso quale migliore artista della devozione popolare, il filosofo Cornelio Fabro e lo storico della pietà Giuseppe De Luca. L’uno, sostenendo che il cristianesimo da lui proposto è «un cristianesimo robusto, che ha la sua formula nella "conformità attiva alla volontà di Dio"»[12]. L’altro, coniando la sua «idea» di pietà, che è la presenza di Dio nella vita dell’uomo «per consuetudine di amore [...], che non è mero sentimento, soprattutto è volontà, forza razionale che scatta nell’azione»[13].

    Dunque, l’aver reso «popolari» i temi più alti e gli affetti più ardenti dei secoli precedenti, fanno di Alfonso non un autore qualunque di pietà, ma in questa storia un personaggio che segna un’epoca e uno stile [14] .

    Tuttavia, lo stesso De Luca, nel 1958, accettando di pubblicare per le sue Edizioni le opere del santo, a cura di Oreste Gregorio, Giuseppe Cacciatore e Domenico Capone, suggeriva anche di «creare un Bollettino alfonsiano, per passare in rassegna le voci positive e negative pronunziate dalla stampa su di lui, dal ’700 ad oggi»[15]. Quell’idea non fu mai realizzata. E, forse, questo saggio potrebbe ora, in qualche modo, sopperirvi. Almeno, è questo l’intento.

    Il vaglio di un lavoro storico-filologico degli scritti del santo e un esame critico – sine ira et studio – del suo profilo interno e dell’ambiente intorno, rassicurano sull’affidabilità di un giudizio, postumo o coevo. Verificano esaltazioni e detrazioni, che affermano molto più di quel che provano. E rappresentano, altresì, il minimo di riguardo, che si deve a chi è stato ritenuto «un autentico genio» (Daniel-Rops), o «nell’empio secolo XVIII la figura più grande e più imponente» (von Pastor).

    Anche da questo punto di vista – oltre che da omesse verifiche –, sono sorte esagerazioni ed eccessi sia denigratori sia ammirativi, che falsano la luce e fanno vedere male. Che attribuiscono al missionario improbabili primati, al vescovo riforme vagheggiate da «spiriti spregiudicati», al teologo morale rivoluzioni copernicane. Forse perché si ignorano altri protagonisti e altre storie. Oppure, lo esaltano per sorprendenti novità, certamente non sue. Ma che forse interessano molto chi le ha immaginate.

    Libero (per quanto possibile) da preoccupazioni apologetiche, ma senza rinunciare ad obiettive difese, ho percorso questa strada degli eccessi, tracciata da allegri panegiristi o da arcigni detrattori, due categorie egualmente non gradite ad Alfonso [16] .

    A spingermi in questa direzione è stata la curiosità di conoscere meglio un «molto simpatico santo napoletano», che visse in «stretto affiatamento con la plebe» e riscosse una «importanza mondiale», come egli parve a Benedetto Croce [17] .

    A sostenermi nella fatica, il desiderio di rendermi ragione, con documenti alla mano, di certi...incerti pareri, attribuiti a un «uomo di spirito e di garbo, capace di risolvere una questione con una uscita, e di raddrizzare un mondo capovolto con un sorriso», come lo scoprì don Giuseppe De Luca [18] .

    Ho, quindi, cercato di vedere sant’Alfonso com’era, e non come alcuni vorrebbero che fosse [19] . Ovviamente, consapevole della già grande difficoltà di conoscere se stessi, figurarsi gli altri, e per di più se santi, non mi illudo di esservi riuscito appieno. Ma quanto basta, forse sì. E, tuttavia, amo ripetere al benevolo lettore quel che egli scrisse al suo editore quando volle apportare una correzione a un suo libro già in stampa: «Compatisca, perché siamo uomini e non possiamo riflettere a tutto ciò che si deve a tempo suo» [20] .

    Gaspare Landi, Sant’Alfonso e il pollo mutato in pesce


    [1] Cfr. A. M. Tannoja, Della vita ed istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori, V. Orsini, 3 tomi, Napoli 1799-1802, (d’ora in poi semplicemente Tannoja, con la j, come egli si firmava), II, p. 410.

    [2] La figura e l’opera di Alfonso de Liguori nel Sannio, a cura di A. De Spirito, Editrice Ancora, Milano 1999.

    [3] A. de Liguori, Lettere, [a cura di F. Kuntz e F. Pitocchi], Società S. Giovanni, Desclée, Lefebvre e Cia, Editori Pontifici, 3 voll., Roma 1887-1890, (d’ora in poi semplicemente Lettere), III, p. 281. Per l’attenta cura della stampa, cfr. pp. 19-22.

    [4] Cfr. Tannoja, III, pp. 82-83.

    [5] Cfr. anche G. De Luca, Sant’Alfonso. Il mio maestro di vita cristiana, a cura di O. Gregorio (1963), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1983, pp. 92 e 122.

    [6] A. de Liguori, Riflessioni sulla Passione di Gesù Cristo (1773), in Opere ascetiche, V, Redentoristi, Roma 1934, p. 326.

    [7] A. de Liguori, Pratica del confessore per ben esercitare il suo ministero (1755), in Opere morali italiane, Marietti, Torino 1855, p. 817; cfr. anche pp. 840-843. Id., Pratica di amar Gesù Cristo (1768), in Opere ascetiche, I, 1933, cit., p. 93.

    [8] A. de Liguori, Del gran mezzo della preghiera per conseguire la salute eterna e tutte le grazie che desideriamo da Dio (1759), II, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1962, p. 219.

    [9] Cfr. A. de Liguori, Visite al SS. Sacramento e a Maria SS.(1745), in Opere ascetiche, IV, 1939, cit., p. 290.

    [10] T. Goffi, La spiritualità dell’Ottocento, Edizioni Dehoniane, Bologna 1989, p. 50.

    [11] A. de Liguori, Pratica di amar Gesù Cristo, cit., p. 79.

    [12] C. Fabro, Attualità di Sant’Alfonso, in «L’Osservatore Romano», 25. XI. 1960, p. 3. I non corsivi sono miei.

    [13] G. De Luca, Introduzione alla storia della pietà, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1962, pp. 7-8.

    [14] Cfr. A. De Spirito, G. De Luca, S. Alfonso e la storia della pietà, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 28 (1985), pp. 147-166.

    [15] G. De Luca, Sant’Alfonso. Il mio maestro di vita cristiana, cit., p. 21.

    [16] Per gli anni dell’episcopato, cfr. A. De Spirito, Antropologia di una presenza, in La figura e l’opera di Alfonso de Liguori nel Sannio, cit., pp. 23-27. G. Orlandi, Un vescovo sotto inchiesta. S. Alfonso Maria de Liguori «denunciato» alla Santa Sede da un suo diocesano, in «Spicilegium Historicum C. SS. R.» (d’ora in poi SHCSR), 52 (2004), pp. 437-496. Per la sua dottrina, cfr. Id., Sant’Alfonso Maria de Liguori «denunciato» al Sant’Ufficio da un canonico napoletano, in «Campania Sacra», 32 (2001), pp. 341-361. Id., S. Alfonso negli Archivi Romani del Sant’Officio, in SHCSR, 47 (1999), pp. 205-238.

    [17] In O. Gregorio, Sant’Alfonso M. De Liguori visto da Benedetto Croce, in SHCSR, 19 (1971), pp. 403, 394, 396.

    [18] G. De Luca, Sant’Alfonso. Il mio maestro di vita cristiana, cit., p. 90.

    [19] Questo tipo d’indagine, lo avevo iniziato alcuni anni fa. Cfr. A. De Spirito, Sant’Alfonso, san Gerardo, don Giuseppe De Luca e lo storico Gabriele De Rosa, in SHCSR, 58 (2010), pp. 229-279. Ivi, a completamento degli scritti alfonsiani di G. De Luca, Sant’Alfonso. Il mio maestro di vita cristiana, cit., ho riportato altri dodici ignorati brani da me rintracciati.

    [20] Lettere, III, p. 53.

    I. DE LIGUORI, TANUCCI E GENOVESI

    Tre nomi: Alfonso de Liguori, un ecclesiastico; Bernardo Tanucci, un politico; Antonio Genovesi, un economista; che ebbero rapporti tra di loro[1]. Un secolo: quello dei Lumi, in cui vissero e, in qualche modo, anch’essi caratterizzarono. Un Regno, quello di Napoli, la cui capitale, terza al mondo per numero di abitanti, era, al dir dell’adagio riportato da Benedetto Croce, «un paradiso popolato di diavoli».

    Erano diavoli «cattivi», ma anche poveri; e sparsi per lo più nelle campagne, dove sopravvivevano politicamente emarginati, economicamente precari e, come scrisse il primo dei tre nel progettare un nuovo Istituto religioso, «abbandonati e destituiti di spirituali soccorsi». Per loro, quindi, egli divenne missionario e accettò di essere vescovo, ma soprattutto – seppur non solo per loro – scrisse di teologia morale e di ascetica, per riformarne i costumi e indirizzarli perfino sulle vie della santità.

    L’importanza di questo movimento avviato da Alfonso e dai suoi Redentoristi fu tale, che ben può dirsi una «chiave di lettura» dei bisogni e dei modelli etici e religiosi della società meridionale del Settecento.

    In effetti – riflette lo storico Giuseppe Galasso –, maturato all’interno di questa società e con gli occhi fortemente polarizzati su di essa, il liguorismo si può considerare come la più «nazionale» delle articolazioni assunte dal cattolicesimo meridionale nella sua epoca. Il suo enorme interesse in questo senso e la sua suscettibilità di fungere da cartina di tornasole nello studio socio-antropologico del Mezzogiorno moderno sono, inoltre, accresciuti dal fatto che il Fondatore consapevolmente diede all’azione dei Redentoristi un’impostazione nettamente «popolare», sia per quanto riguarda la destinazione della loro attività, sia per i mezzi e i sistemi pastorali e pedagogici e per i moduli organizzativi di tale attività. Il carattere «nazional-popolare» del movimento non era, di certo, casuale[2].

    Ma la succitata qualità «nazionale», o «nazional-popolare», non aveva nulla a che vedere con la costituzione di una «Chiesa nazionale», che lo avrebbe ispirato e alla quale egli avrebbe aspirato, collaborando a realizzarla con la sua azione e quella dei suoi primi compagni.

    Nel predominante giurisdizionalismo napoletano, con i relativi problemi per lo Stato e per la Chiesa, non era certamente quella la soluzione da lui immaginata e la meta agognata. Né tampoco essa avrebbe potuto avere una ripercussione sul suo episcopato. In particolare, arrivando a motivarne la rinunzia, più che per la cattiva salute, per non aver potuto dar vita, d’accordo col riformismo tanucciano, a una «Chiesa nazionale»[3].

    La novità di questa peregrina tesi, di un sant’Alfonso aspirante tanucciano, perché anch’egli desiderava, per dirla in breve, un clero colto e riformato – e a tal fine s’adoprò con l’esempio, gli scritti e la parola –, non avrebbe bisogno di confutazioni, tanto è palese la sua insostenibilità per chi conosce alquanto l’uno e l’altro personaggio. Ma potrebbe essere comunque utile soffermarsi su di essa, per ulteriori chiarimenti e qualche approfondimento. Innanzitutto, su quali fossero le caratteristiche di tale riformismo.

    Sinteticamente, possiamo dire, con lo storico Mario Rosa, che il riformismo tanucciano fu «soprattutto anticlericale e antipretesco, vagamente episcopalista e conciliare, arcaizzante e regalista, teso a rivendicare le prerogative politiche statuali di fronte alla Chiesa, ma estraneo a progetti di riforma e d’intervento in sacra da parte del potere politico»[4].

    In questo contesto, guardiamo ad Alfonso. Quella tesi afferma, tra l’altro ed essenzialmente, che egli sarebbe stato «un presule reso oltremodo impotente proprio dalla progressiva perdita del controllo sulla materia beneficiaria». E «l’isolamento in cui viene relegato lo costringe alla resa». Nel contempo, dinanzi alla costruzione di una «Chiesa nazionale», voluta dal ministro borbonico, Bernardo Tanucci (1698-1783), egli «si defila, rifugge il coinvolgimento diretto per non tradire la fiducia del papa». Ma non senza aver prima «elogiato l’assolutismo» dello statista toscano e «tentato inutilmente di blandirlo per dissuaderlo», dedicandogli anche un libro: Trionfo della Chiesa cioè Istoria dell’Eresie (1772)[5].

    È superfluo far notare che l’autore non ha mai elogiato – nemmeno in quella dedica – «l’assolutismo» di Tanucci, arbitro del governo napoletano dal 1759 al 1776. E, sulla «riforma» della Chiesa, quanto fossero distanti le loro posizioni, lo dimostrano soprattutto i motivi di questa chiara e severa disposizione del 1769, allorché Alfonso pubblicò l’Opera dommatica contra gli eretici pretesi riformati. Il ministro ordinò al regio consigliere della Camera di S. Chiara, Francisco Vargas Machuca, «di rivederla e di sospenderne lo spaccio, essendo l’autore troppo sospetto di attaccamento alla setta gesuitica, e perché sospetta qualunque sua opera di essere infetta di sentimenti erronei e contrari al vero spirito della Chiesa e della sovranità»[6].

    Bisogna sapere che Alfonso «temeva» certe aspirazioni di Tanucci, anzi «tremava» al pensiero che egli, «abborrendo anche l’ombra delle nuove fondazioni»[7], infierisse contro la sua e i suoi seguaci, cacciandoli dal Regno come aveva fatto con i Gesuiti nel 1767, e come infatti farà con i Redentoristi di Agrigento,

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