C'era una volta l'Oratorio Salesiano Don Bosco Gaeta: Dal 1966 al 1991 diretto da Don Arcangelo Gizzi
Di VV. AA.
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Anteprima del libro
C'era una volta l'Oratorio Salesiano Don Bosco Gaeta - VV. AA.
C’era una volta… l’Oratorio
Salesiano Don Bosco Gaeta
Dal 1966 al 1991 diretto da Don Arcangelo Gizzi
Direttore di Redazione: Jason R. Forbus
Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2022©
Saggistica – Memorie
www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com
È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.
C’ERA UNA VOLTA…
…L’ORATORIO
Salesiano Don Bosco Gaeta
Dal 1966 al 1991 diretto da Don Arcangelo Gizzi
AliRibelli
Sommario
Cenni biografici
Premessa
A Sua Santità Papa Giovanni Paolo II
Intervista a Don Gizzi
RACCONTI
Domenico Cavaliere
Rita Paciullo
Salvatore Villani
Tiziana Rivale
Nicola Serio
Giacomo Carlucci
Mara Magnatti
Giuseppe Pignatiello Marilena Parrella
Claudio Lavorino
Clementina Corbi
Alberto Virgolino
Stea Gabriella
Franco Bertelli
Anna Paduano Simeone
Massimo Guglietta
Paola Di Domenico
Massimo Burzi
Annamaria Pietracatella
Fernando Battista
Cinzia Miano
Giancarlo Stea
Agnese Giusto
Tonino Bazzanti
Sara Buonaugrio, Manuela Merenna, Gabriella Marrocco, Cristina Ruffini, Emanuela Galiano, Carmen Credico
Tonino Battista
Paola Lieto
Anna Maria Carlucci
Giulio Polverino
Anna Ioime
Iva Aversano Guglietta
Salvatore Marruzzino
Anna Maria Ciaramella
Luigi Oriani
Simona Barbanti
Tina Mottola
Luca Agostini
Gildo Marzullo
Elisa Bartolomeo
Erminia e Pietro Barbanti
Ernestina Cascione
Piero e Nanà Alivernini
Melania Sasso
Brigida Galiano
Mariella Netani
Giulia Troili
Serenella Simeone
Giuseppe Guglietta
Antonio Miele
Antonio D’Onorio De Meo
Storia della chiesa di San Francesco
Cenni biografici
Don Domenico Machetta è un presbitero della Chiesa cattolica, noto compositore internazionale di musica liturgica.
Nato a Nole (TO) il 26 novembre 1936, è divenuto sacerdote nella Congregazione salesiana.
Dall’inizio degli anni ottanta, vive a Bairo Canavese presso la Fraternità di Nazareth, una comunità religiosa da lui fondata negli anni ottanta con la collaborazione di Luisa Salice.
La pluridecennale produzione artistica di don Domenico Machetta si divide in due grandi cicli:
Gli anni del rinnovamento liturgico musicale (1969-1976);
La riscoperta del canto come preghiera biblica (dal 1977 in poi).
Premessa
Gaeta, 1° maggio 2013 in via Regina Maria Sofia, si è realizzato il sogno di comprare casa nella zona medioevale, non per trascorrere le vacanze con la famiglia ma con il forte desiderio di viverla, entrando in punta di piedi nel tessuto antropologico più intimo, dove tanti gaetani, e non, hanno reso illustre questa meravigliosa città.
Durante le mie passeggiate ho avuto modo d’incontrare fare amicizia con diverse persone del luogo e una volta parlando della chiesa di San Francesco, dove l’occhio si posa obbligatoriamente costeggiando il lungomare, due amici iniziarono a raccontare della bellissima e partecipata messa di don Gizzi che era il direttore dell’Oratorio.
Dal loro racconto carpivo quanto lo stimassero e quanta nostalgia avessero di quei tempi…
Il giorno dopo, passeggiando, andai a visitarla.
Un signore molto gentile, incaricato della chiesa, mi diede delle informazioni, mi parlò dei salesiani che purtroppo dopo tanti anni non c’erano più, e di un certo don Gizzi, che era stato un salesiano carismatico e aveva creato un Oratorio unico, con tante attività. Un lungo e dettagliato racconto anche sollecitato dalla mia curiosità di sapere, poiché ero stato un allievo dei Salesiani di Caserta.
Durante i miei primi week end a Gaeta conoscevo sempre più persone e udivo sempre più spesso il nome di don Gizzi, al punto che divenne forte in me il desiderio di conoscerlo. Sapevo che si era sposato e aveva due figli, che era appassionato di musica, di montagna, che era molto amato, ma non sapevo come fare per incontrarlo.
Un giorno Tino Muto, mio vicino di casa e padre dell’amico di mio figlio, mi raccontò che suonava la tromba nella banda città di Gaeta e che aveva imparato a suonarla da un certo don Gizzi, ex salesiano! Gli dissi che ne avevo tanto sentito parlare e che mi avrebbe fatto piacere conoscerlo, quando Tino mi rispose: «Abita di fronte casa tua!».
Non riuscivo a credere alle sue parole… don Gizzi abitava a trenta metri da casa mia!
Lo cercai affacciandomi dal cancello del cortile della sua abitazione, vidi un anziano che stava annaffiando le piante e pensai che fosse proprio lui, quando lo chiamai chiuse l’acqua e venne ad aprire il cancello. Man mano che si avvicinava mi catturava il suo sguardo sorridente, che trasmetteva una dolcezza profonda.
Mi presentai e iniziammo a parlare. Mi accolse come se mi conoscesse da sempre, come se fossi un amico di vecchia data, con parole semplici ma da persona di elevata cultura. I suoi occhi limpidi rispecchiavano un uomo buono. Ero così felice di averlo incontrato che ho sempre attribuito a Dio il dono di questa conoscenza.
Don Gizzi, nonostante la grande differenza di età, da allora è diventato il mio migliore amico, il mio punto di riferimento per qualsiasi decisione, parere, consiglio o argomento.
Ricordo le lunghe e piacevoli passeggiate mattutine da Gaeta medievale fin su a Monte Orlando, passate ad ascoltare i racconti del suo Oratorio, nominava persone, giovani, ragazzi, e sembrava come se li conoscessi. Ne parlava con ammirazione ricordando le tante attività ed esperienze che con loro aveva vissuto. Come mi sentivo sfortunato per non averlo conosciuto allora! Quanto avrei voluto essere uno dei suoi ragazzi!
Ho partecipato tutti gli anni con la mia famiglia alla bellissima festa in occasione del suo compleanno, dove arrivano da ogni parte d’Italia, oltre che da Gaeta, i suoi giovani ex-allievi e ho potuto vivere con un pizzico di sana invidia quanto quella comunità era stata, e ancora era, unita e come lo spirito di Don Bosco era vivo in loro.
Mi sentivo parte di una grande famiglia, trasmettevano tutti, grandi e piccoli, un sentimento che non si può scrivere
, ma solo vivere.
Ho conosciuto don Gizzi da sposato, come marito e padre, posso dire di far parte della loro famiglia come un parente stretto ed è commovente e meraviglioso come abbia trasmesso lo spirito di Don Bosco nell’educare i figli Savio e Valerio, due magnifici ragazzi, come anche il rispetto e l’amore puro per la donna e mamma che ha verso Teresa, è esempio di rarità.
Quando arrivo a Gaeta il fine settimana prima di salire in casa passo da lui, la sua accoglienza e i suoi occhi, ora di ottantenne, la sua saggezza, la sua innocenza, mi riempiono di energia e di amore.
Sono trascorsi trent’anni da quando don Gizzi ha iniziato una nuova vita. Oggi, parlano ancora di lui tantissimi ex oratoriani e persone che l’hanno conosciuto.
A volte, d’estate, lo accompagno sottobraccio a messa a San Giacomo (con la macchina fino nei pressi della chiesa), dove preferisce andare perché lì celebra il suo ex alunno del liceo don Gianluigi Valente, che stima molto. La sua omelia, a suo giudizio, è teologicamente corretta e breve.
Ed è sempre un avvicinarsi di gente che lo saluta con affetto e gioia per averlo incontrato.
«Quando il tempo non cancella le gesta, le opere, le emozioni, i sentimenti, qualcuno al di sopra opera in lui».
Ringrazio Dio di aver conosciuto don Gizzi, che simpaticamente ho definito il prete dal collarino stretto
: un uomo buono.
Raffaele Narducci
Medico Chirurgo Allergologo,
Casa di Cura San Michele
,
Maddaloni (CE)
A Sua Santità Papa Giovanni Paolo II
Richiesta di dispensa dal Ministero e dall’obbligo di osservanza dei voti:
Beatissimo Padre,
sono un sacerdote salesiano, ordinato a Torino il 26 marzo 1966. Mi trovo ora in una fase di serio ripensamento della mia vita. La mia è una crisi che si protrae fin dai primi tempi dell’ordinazione, anzi si può dire che affonda le radici in una situazione personale, che risale agli anni della formazione stessa.
Penso che non sia più il caso di dilazionare la soluzione di un problema, che richiede ormai di essere affrontato e risolto, per una questione di onestà, di sincerità e correttezza da parte mia, e per il fatto che non me la sento più di continuare a vivere in una situazione di non serenità e di grande disagio.
Devo confessare che in tutti questi anni di vita salesiana e sacerdotale le maggiori soddisfazioni non le ho avute dal mio sacerdozio, ma da altre attività svolte, che mi hanno dato la forza e il coraggio di continuare nella via intrapresa, nonostante il forte disagio interiore.
Queste cose forse non sono di fondamentale importanza: esse tuttavia già parlano del retroterra
della mia storia personale. Chiedere di lasciare il ministero sacerdotale, e di inserirmi nella vita come semplice cristiano, non è il capriccio di un momento, ma il frutto di una lunga riflessione.
Tanti sono i motivi che mi hanno portato a questa conclusione, primo fra tutti quello di non aver scelto di diventare sacerdote in modo veramente libero.
Fin da bambino fui messo in collegio, con la speranza di avviarmi al sacerdozio, nonostante i miei pianti e le mie resistenze iniziali: mi infastidiva anche solo l’idea di diventare prete e mi angustiava il pensiero di andare lontano dalla famiglia. Mi dovetti tuttavia arrendere: la mia era una famiglia numerosa e povera...
Nell’ottobre del 1949, mio zio mi accompagnò a Roma con il suo camion a due piani con le pecore da alcuni parenti. Il 21 di ottobre entrai in collegio nella Casa Salesiana di San Tarcisio dove frequentai le scuole medie, nel giorno del mio dodicesimo compleanno! Nel settembre del 1952, insieme ad altri miei compagni, ci mandarono in Piemonte, a Penango, nel Monferrato.
Fu un’esperienza traumatica. Se avessi potuto decidere, libero da ogni condizionamento, sarei scappato fin dai primissimi giorni!
Fu terribilmente dura per me, nato in un piccolo paesino, dove la vita di noi ragazzini si svolgeva in gran parte per strada, nei boschi, sugli alberi… l’impatto con una mentalità molto chiusa e quasi da terrore: tutto era proibito, anche rimboccarsi le maniche della camicia! La morte di un ragazzo calabrese, che rifiutò di entrare in noviziato e che, soggiornando presso parenti a Torino, era andato a sfracellarsi con la vespa contro un marciapiede, fu interpretata dai Superiori come castigo di Dio per la vocazione tradita
.
Passai un anno veramente difficile, che non si può descrivere, ma non ebbi il coraggio di decidere: il timore di doverlo dire al direttore, le difficoltà economiche della famiglia, nonché il ricordo di quel ragazzo, mi trattennero da una decisione più grande di me.
Così fu anche prima di entrare in noviziato: il mese di luglio del 1954 fu per me pieno di angoscia, di rimorsi, di preoccupazione per il futuro. Sarei dovuto tornare a Penango, dalle vacanze, verso il 20 luglio, ma non me la sentii e mi trattenni in famiglia per tutto il mese. Poi fui invitato da mia madre a riflettere sul fatto che «non era da persona educata e corretta ritirarsi senza averne parlato prima con il direttore», così tornai a Penango.
Qui giunto, non ebbi il coraggio, non dico di decidere diversamente, ma neanche di parlarne, come invece mi ero proposto di fare. La difficoltà interiore di esternare la mia decisione era frenata dall’ambiente rigido e dalla mancanza di comprensione dei superiori.
Così andai in noviziato, dove l’eccessiva severità del Maestro non invitava certamente a decidere con serenità circa la propria vita.
Negli anni della teologia, i miei problemi personali si ripresentarono con prepotenza. Ogni volta che un mio compagno lasciava la vita salesiana, entravo in profonda crisi: come avrei voluto essere io al suo posto, ma non ero capace di farlo, così andavo avanti...
Nell’ottobre-novembre del ‘64, qualche mese prima del suddiaconato, ebbi finalmente il coraggio di parlarne con il mio direttore don Murtas. Conoscendomi, avrei voluto decidere subito, ma mi lasciai convincere dai suoi consigli
di attendere a decidere, un mese o due. Come non ascoltare i consigli
di un superiore?
Anche i miei familiari vennero a conoscenza della cosa, non ricordo come: probabilmente tramite un mio cugino che abitava da quelle parti, nei pressi di Ivrea. Uno dei miei fratelli partì da Roma e venne da me, a Bollengo, dove si trovava il nostro studentato teologico, con l’intenzione di riportarmi a casa. Anche in quell’ occasione, il senso di vergogna, del giudizio degli altri, dei miei compagni, dei superiori, mi provocò sensi di colpa che superavano la volontà di lasciare, per cui rimasi in collegio.
Solo pochi giorni prima dell’ordinazione, il mio confessore mi consigliò di non procedere oltre, ma era troppo tardi per ritirarmi. Nessuno fino ad allora aveva preso seriamente in considerazione il mio problema lasciandomi la responsabilità di decidere.
Si aggiunsero anche le difficoltà
inferte da parte di un mio insegnante, don Gozzelino, che dovevo ritenere a suo dire una severa punizione, e rimase in sospeso per qualche giorno la possibilità della mia Ordinazione, in quanto: «di carattere ribelle e di idee poco ortodosse circa la disciplina e l’osservanza religiosa», «disprezzavo alcune pratiche di pietà» (ad esempio: passando davanti a chiese e cimiteri con i compagni non recitavo con loro una giaculatoria ad alta voce, oppure quando non ero d’accordo su determinati argomenti esternavo il mio pensiero all’insegnante dopo la lezione). Eravamo ai primi di marzo del 1966. Se queste difficoltà il mio insegnante le avesse esternate prima del suddiaconato, quando già io volevo ritirarmi, se mi avesse aiutato, non ci avrei pensato una seconda volta a farlo, ma allora era troppo tardi per vari motivi.
Alla paura di dover affrontare a ventott’anni una nuova vita, una sistemazione diversa, un lavoro incerto e di pesare sui miei familiari, si aggiunse anche il fatto che ero già diacono, con gli obblighi inerenti, che parenti e amici già sapevano della mia ordinazione ormai prossima e mia madre aveva già inviato inviti e partecipazioni.
Mi accorgevo di non sentirmela per un passo così decisivo e importante, ma la paura, la preoccupazione di essere giudicato un traditore
superava la forza di fermarmi.
Giunse il momento della decisione finale e per me fu angosciante. Il giorno stesso dell’ordinazione ero tentato, nel mio intimo, di oppormi con la volontà: tanta era la preoccupazione di fronte a un simile impegno.
Ma non me la sentii di invalidare il Sacramento e inficiare tutto ciò che ne sarebbe derivato.
Con volontà accettai e mi affidai nelle mani di Dio.
L’educazione ricevuta, i sensi di colpa in caso di abbandono della vocazione (in simile evenienza, si parlava, come ho già accennato precedentemente, di castighi divini
), la preoccupazione di deludere Superiori e genitori (più che altro, mia madre), influirono sulla mia fragile sensibilità e finii per decidere qualcosa, che poi mi ha portato a soffrire non poco negli anni seguenti, fino ad oggi.
Già nei primi anni di sacerdozio pensavo di dare una svolta alla mia vita: non ne ebbi mai il coraggio! Mi è rimasto sempre impresso nella mente l’espressione di un nostro sacerdote anziano nei riguardi di un altro confratello che aveva lasciato il sacerdozio con regolare permesso della S. Sede e stava per sposarsi: «È un demonio!».
Nonostante la non poca sofferenza e il ripromettermi, di anno in anno, di cambiare vita, pur senza aver avuto mai il coraggio di farlo, mi sono sempre sforzato e impegnato a dare il meglio di me e a rispettare gli impegni presi.
Da qualche anno però, con il verificarsi di tanti e, per me, gravi eventi, sia a causa di alcuni dirigenti sportivi che di alcune famiglie dell’Oratorio che mi hanno deriso e umiliato anche con manifestazioni pubbliche in seguito alla decisione condivisa con l’ Ispettore dei Salesiani, di togliere una squadra di calcio federale, di seconda categoria, formata da giovani adulti, che frequentavano solo per il calcio e non partecipavano ad alcuna attività di comunità oratoriana; sia per le intenzioni dei miei superiori di chiudere la Casa Salesiana di Gaeta e per avermi bocciato l’iniziativa di un progetto per la realizzazione di in un Ostello Internazionale per la Gioventù; la mia crisi si è acuita dandomi il coraggio di prendere finalmente una decisione maturata da anni e che non è più differibile a cinquantaquattro anni.
Ho sempre cercato, nonostante tutto e nonostante i miei difetti e i miei limiti, di essere un buon salesiano, non ho mai pensato a me stesso né a garantirmi un futuro economicamente tranquillo. Il voto di povertà, insieme agli altri impegni, l’ho vissuto nel modo più coerente e concreto possibile. Ora, dopo trent’anni di sofferta ma generosa dedizione agli altri, ai giovani, mi trovo di fronte a diversi problemi e, non ultimo, quello economico.
Certamente i problemi dei miei ventott’anni oggi non sono risolti: si sono aggravati, l’età si è quasi raddoppiata e quelli triplicati! Proprio per questo non è più possibile rimandare ulteriormente la decisione di cambiare vita.
Ho già contattato il mio Superiore, il neo Ispettore dell’Ispettoria Romana, che mi ha manifestato tutta la sua fraterna comprensione e solidarietà.
Anche S.E. Mons. Vincenzo Maria Farano, Arcivescovo della Diocesi di Gaeta, si è mostrato padre e amico, ha capito il mio dramma e ha condiviso con me l’augurio di recuperare, in una nuova vita, la mia serenità e mi sta seguendo in questo passaggio.
Chiedo a Sua Santità di essere sciolto dagli impegni connessi con la mia Ordinazione e con la Professione Perpetua.
Preciso che intendo cambiare tipo di vita, senza per questo rinunciare all’impegno di essere un buon cristiano e senza mettere in discussione la mia fede: Dio Padre continuerà ad essere, per la mediazione di Maria, il riferimento della mia vita.
Con stima.
Arcangelo Gizzi
Roma, 27 novembre 1991
Intervista a Don Gizzi
Trasferito a Gaeta per punizione!
Nel settembre del 1966, la Commissione dell’Università Salesiana non accolse la mia richiesta di frequenza su diciannove neo salesiani, con la motivazione che segue:
«Ribelle, non disciplinato e disprezzante di alcune pratiche di pietà»
«di carattere ribelle e di idee poco ortodosse circa la disciplina e l’osservanza religiosa», «disprezza alcune pratiche di pietà».
Per esempio: passando davanti a chiese e cimiteri con i compagni non recitavo con loro una giaculatoria ad alta voce; quando non ero d’accordo su determinati argomenti: esternavo il mio pensiero all’insegnante dopo la lezione.
Immaginate il mio stato d’animo.
Dal Piemonte fui mandato provvisoriamente a Roma nella Casa di San Tarcisio, presso le Catacombe di San Callisto, in attesa di sapere la mia destinazione.
La settimana prima del 14 Settembre del 1966, accompagnai un camion che doveva scaricare nella Casa di Gaeta alcuni banchi per la scuola degli interni aspiranti
del collegio.
Man mano che attraversavo Gaeta per raggiungere l’Oratorio, si apriva davanti a me uno scenario stupendo: quanto era bella! E che posizione strategica aveva la Casa Salesiana!
Purtroppo, però, non ebbi la stessa impressione, anzi tutt’altro, quando varcai il portone dell’Oratorio: c’era uno stato di abbandono, di vecchio e di disordine totale.
La prima cosa che pensai fu quella di sperare di non essere mai trasferito lì. La settimana dopo, invece, come in un brutto sogno, accadde proprio questo: fui trasferito come incaricato dell’Oratorio a Gaeta. Un mese dopo avrei compiuto ventinove anni. Ero molto triste e per giunta anche arrabbiato e deluso!
Per circa tre mesi non feci assolutamente nulla. Tanti pensieri si accavallavano nella mia mente…
Osservavo la monotonia di quell’ambiente, ragazzini che dopo la messa giocavano a calcio e qualche ex allievo affezionato, tutto così diverso per me che arrivavo da Case Salesiane del Piemonte, con riscaldamento e i principali comfort di una casa! Lì non c’era nulla.
Fu così, che per combattere la noia, che certo non sarebbe passata presto, mi rimboccai le maniche e iniziai a rendere l’ambiente più accogliente prima di invitare i ragazzi della città a frequentare.
Incominciai così, dalla mattina fino al tardo pomeriggio, a riparare i biliardini della sala giochi, comprai un calciobalilla. Pensai di sostituire gli interruttori rotti o mancanti della corrente, riparare porte e serrature, mettere vetri, lampadine, pulire e togliere erbacce all’ingresso esterno dell’Oratorio e nei cortili e a potare gli alberi che chiedevano pietà.
Nella Casa, oltre a don Buglione, personaggio simpatico e benvoluto da tutti, ma purtroppo di salute delicata, con il quale avevo un ottimo rapporto, c’era anche don Mario Mauri Responsabile dell’Aspirantato, il Prefetto (economo) don Augusto Trivellato, l’indimenticabile don Antonio Morelli e altri confratelli impegnati nella scuola del collegio.
A fine estate 1967, don Buglione fu trasferito nella Casa Salesiana di Civitavecchia e a me fu affidato l’incarico di direttore dell’Oratorio.
Il campo di calcio fu costruito dopo la fondazione della Casa Salesiana, nel 1929, anno della beatificazione di Don Bosco, sul terreno superiore dell’orto che in parte era roccioso, soprattutto nel versante del fabbricato dell’Istituto. Quando i ragazzi cadevano durante le partite spesso si sbucciavano le ginocchia e a volte anche seriamente. Fu così che pensai di migliorare per quanto possibile la situazione. Era la fine del 1967.
Avevo saputo che il papà di una ragazza dell’Oratorio, Fermina, era un esperto artificiere e mi rivolsi a lui, il sig. Di Biase (Chioppetella), per vedere cosa si potesse fare.
Con lui e Giovanni, marito della signora Mici, (prima mamma dell’Oratorio) facemmo brillare sulle rocce del campo circa duecento mine, quasi mezzo candelotto. Un secondo intervento, sempre con le mine, lo ripetemmo nel 1970 per cercare di eliminare ancora rocce sporgenti.
Con carriole piene di pietre e terra riempimmo lo spazio che si era creato tra