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Aspettando l'Egitto
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E-book799 pagine8 ore

Aspettando l'Egitto

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Info su questo ebook

Riuscirà il nipote a portare in Egitto lo zio filosofo e misantropo? A comprendere il senso della vita, della morte, e l’esistenza di Dio? Riusciranno due padri a far sì che il loro figlio e figlia si uniscano? Il tutto avvolto in una storia commovente di altruismo e di amore.

Un libro dai contenuti filosofici profondi, attualizzati nella vita contemporanea, con un finale che non lascia indifferenti.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2016
ISBN9788893780100
Aspettando l'Egitto

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    Anteprima del libro

    Aspettando l'Egitto - Rino Gobbi

    Gobbi

    I

    Il tredici dicembre è il giorno di Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia recita un proverbio popolare; questo giorno rappresenta lo spartiacque dove le giornate cominciano ad allungarsi, che per un ottimista come me significava già assaporare la primavera e poi la stagione calda. Ma non è vero, il giorno più corto cade nel solstizio d’inverno, cioè il 21 dicembre, ed eccezionalmente il 22. Però cosa contava? Il tredici dicembre 2006 sarebbe stato il primo segnale positivo dell’entrata nell’anno nuovo, quello della mia pensione. Una vampata di gioia mi colse e si tramutò subito in dolce aspettativa per il 21 dicembre, forse il giorno più corto dell’anno.

    E arrivò il 21 dicembre. Non successe niente dentro il mio petto perché si insediò quel malevolo, simpatico dubbio che fosse proprio quell’anno in cui il solstizio cadeva il 22 dicembre: cosa costava aspettare ancora 24 ore per essere poi sicuro di essere catapultato nei giorni che si allungavano sempre più? Passai una giornata apatica, di attesa della certezza, per non ingannarmi, per dire che veramente stavo inoltrandomi in quel periodo che avrebbe mutato radicalmente la mia vita.

    Il 22 dicembre, al mattino uscii di casa, alzai gli occhi al cielo, li rivolsi nella direzione dell’argine del fiume Brenta, distante un chilometro: tra poco lo avrei percorso a piedi di mattina, di sera, di notte se fosse stato il caso, non ci sarebbero state costrizioni che me lo avrebbero impedito; mi sarei accovacciato a ridosso dell’acqua e l’avrei osservata rivangando i ricordi, ne avrei avuto tutto il tempo. Mi sarei soffermato nel bosco prima dell’argine, avrei fatto amicizia con gli uccellini e con gli alberi che prima mi vedevano passare troppo in fretta. E i passeri del mio canneto? Prima fuggivano improvvisi e strillanti offesi dal mio apparire, ora si sarebbero stupiti nel vedermi sempre a casa. Mi sarei nascosto tra le canne e avrei aspettato il loro ritorno: si sarebbero dovuti abituare alla mia presenza; ci fu un certo Francesco che parlava con loro, io mi accontenterò della loro compagnia.

    Era un’emozione mai provata, di completa consapevole libertà: i campi, l’argine, il bosco, il canneto, tutto sarebbe diventato mio!

    Ecco il 23 dicembre: ero finalmente entrato nel mio nuovo anno; però mi aveva preso la delusione: non riuscivo ad afferrare il senso di ciò che stavo vivendo, eppure stavo già rotolando sulla discesa e niente più si sarebbe intromesso al benedetto primo aprile 2007, il giorno dell’entrata in pensione. Cercavo di rendermene conto, ma subentrava una reazione maliziosa che mi impediva di gioire, come disapprovasse il mio tentativo annebbiandomi, e se cercavo di essere contento, lo stesso non mi sentivo onesto nei miei confronti e riuscivo solo a pensare che tra poco non avrei più patito il freddo andando in bicicletta al lavoro. Poi, improvvisa, un’altra considerazione: con tutto il tempo che mi sarei trovato davanti avrei fatto del volontariato, e pensai allo zio Silvano.

    Mio zio Silvano era un misantropo; aveva abitato a Este, in provincia di Padova, laureato in filosofia aveva insegnato a Lozzo Atestino, un paesino a ovest dei Colli Euganei, e in altri paesi limitrofi; sei anni fa era ritornato a Campolongo Maggiore, il mio paese. Prima lo avevo visto poche volte; da quegli incontri capii che mi stimava, forse per il mio carattere comprensivo e niente affatto esigente, forse perché tentavo di dialogare con lui chiedendogli della scuola, come si comportassero gli studenti, che paese fosse stato quello in cui insegnava e quello dove lui abitava; dico tentavo perché lui sempre cercava di scantonare dall’argomento, liquidandomi con risposte laconiche e guardandomi con un’espressione di indulgenza e amore che mi abbatteva ancor più perché intuivo il suo disagio nell’essere solo. Infatti non si era mai sposato e quelle rare volte che ritornava in paese per fare visita a mio padre lo faceva di fretta, quasi di nascosto. La sua lontananza è sempre stata un mistero per tutti. Aveva voluto ritornare in paese e aveva acquistato una piccola casetta non lontano dalla mia abitazione, là lui viveva, sempre appartato dagli altri, quasi scontroso

    In sei anni pochissime volte entrai in casa sua, la prima per dargli il benvenuto. Quando vi entrai vidi un’abitazione misera, dove i muri nella parte sottostante erano gonfi di salsedine, i lampadari parevano staccarsi dal soffitto e il pavimento di mattonelle, decisamente fuori moda, mostrava qua e là delle sbrecciature. Pure lo scaffale stipato di libri in entrata era logoro, come il divano che pareva essere stato usato da una famiglia di discoli impenitenti. Alle pareti erano affissi dei quadri dipinti ad acquarello, apparentemente infantili, ma dove si intravedeva un pizzico di talento nascosto dell’artista; in cucina si sentiva un leggero odore di chiuso: comunque tutto era in ordine. Lo vidi imbarazzato, non certo per la mia presenza in quanto nipote, bensì perché un intruso era entrato nella sua abitazione e lui non sapeva come accoglierlo, per questo desiderava restare solo. Infatti mi defilai con una scusa, preoccupandomi per la sua condizione staccata dal mondo degli esseri socievoli, mentre lui forse navigava nell’altro mondo, quello dei filosofi, anche se una volta mi disse che chi insegna filosofia non necessariamente è un filosofo.

    Pensavo fosse venuto ad abitare nel suo paese natio per stare assieme con suo fratello, mio padre, ma dal suo primo atteggiamento capii che a nulla serviva la presenza del mio genitore, che dopo poco tempo morì, e lui si era rintanato ancora più in se stesso, avvolgendo la sua vita di una cappa impenetrabile.

    In seguito andai ancora a fargli visita, nonostante la sua riluttanza. Suonai al cancello, lui apparve sulla porta e mi chiese cosa volessi; la voce stavolta pareva addirittura scocciata; io al momento non riuscii a trovare nessuna scusa per giustificare la mia visita, e dissi la verità: ero andato solo per salutarlo, vedere come stava. Si sciolse in un sorriso, disse che stava bene e mi fece il gesto di entrare. Mi venne chissà come in mente l’aiuto che avrei potuto offrirgli con dei lavoretti che ogni casa necessita, specialmente la sua che era quasi decrepita: lui era solo, sopra i settant’anni, certi lavoretti non poteva di sicuro farseli. Fui raggiante della mia trovata, era la scusa che prima o poi mi avrebbe permesso di andarlo a trovare più spesso, così da essergli vicino per parlargli e fargli quella compagnia di cui lui certamente aveva bisogno; allora gli dissi il motivo della mia visita: aiutarlo quando ne avesse avuto bisogno.

    Fu un colloquio non certo tra zio e nipote, ma come tra due persone unite dagli stessi interessi; colloquio che si concluse con un tono brusco quando lui mi fece chiaramente capire che era ora che me ne andassi.

    Da quel giorno temetti di andare a fargli visita. Quando transitavo davanti alla sua abitazione mai lo vedevo fuori. Cosa starà mai facendo sempre dentro? mi chiedevo. Leggeva? Pregava? Perché sapevo che era un cattolico fervente. Avrei voluto che fosse stato fuori casa per salutarlo con la mano alzata, fargli capire che gli volevo bene, che volevo mettermi in contatto con lui. Poi, come una folgorazione, compresi che molto probabilmente sarei riuscito ad avvicinarlo entrando nella sua sfera professionale, stimolandolo a parlare di ciò che lo appassionava: la filosofia. Io, pur conoscendola pochissimo, rimanevo affascinato dai ragionamenti, e quale scusa poteva essere migliore di quella che mi frullava in testa ogni tanto, quella di sapere chi era quel filosofo che viveva in una botte? La giustificazione era ottima e lui sarebbe stato costretto a esaudirmi.

    Il pomeriggio del 23 dicembre andai da lui euforico per la trovata, non soffermandomi a ciò cui potevo andare incontro andando a fare visita a una persona scorbutica. Quando si presentò sulla porta mi guardò con fare faceto: pareva che stavolta avesse piacere di parlare con me.

    «Che vuoi?» chiese; il tono della voce contrastava con il suo viso regolare che denotava ancora qualcosa di infantile, gli occhi abbassati e il fisico asciutto, di chi si senta a suo agio con la dieta.

    «Una domanda, zio…»

    Dopo un attimo di perplessità mi invitò dentro, e fu un evento. Eravamo là, tutti e due in piedi, lui non si sedeva e neanche mi invitava a sedere; allora glielo chiesi io e mi sedetti; lui fece altrettanto. Mi osservò con un sorriso che mi stupì e allo stesso tempo mi disorientò, fu come se fossi entrato nelle sue grazie, un’affinità insperata e improvvisa. Gli chiesi subito chi fosse quel filosofo della botte; lui si morse le labbra, mi guardò serio, si tirò indietro come stesse recependo ciò che gli avevo detto o rivangasse nella sua testa alla ricerca del filosofo.

    «Diogene,» rispose senza enfasi.

    «Perché abitava in una botte?» soggiunsi io.

    «Perché viveva la vita più austera possibile.»

    «Cosa significa?»

    «Che rifiutava ogni comodità.»

    «In che senso?»

    «Pensa che andava in giro con il bastone, la bisaccia e una scodella per mangiare e bere.»

    «Solo queste tre cose?»

    «Sì, solo queste tre cose.»

    Vedendo il luogo dove abitava lui pensai che avesse voluto imitare l’eccentrico personaggio.

    «Poi vedendo che un ragazzo beveva con le mani gettò via la scodella perché capì che non era indispensabile,» continuò.

    «Così rimase solo con il bastone e la bisaccia… Ma perché proprio in una botte?» gli chiesi ancora.

    «Devi sapere che era detto il cinico, perché disprezzava tutto ciò che non riguardava prettamente la vita naturale, così come fanno i cani che, come diceva lui, al pari dei mendicanti e dei bambini vivono la migliore esistenza possibile, infatti il termine cinico deriva da cane.»

    Eravamo seduti uno di fronte all’altro, con la tavola in mezzo, in quel pomeriggio autunnale; nessun cenno che ci facesse ricordare di essere parenti, che io lo ammiravo e che lui pure mi ammirava. Ma non era un colloquio freddo: i suoi sorrisi e le mie espressioni di gratitudine denotavano un rispetto reciproco e la convinzione che ci saremo incontrati ancora, sempre più spesso.

    Aveva parlato, a lungo, e ciò mi sbalordì: non lo vedevo più come lo zio riservato, poteva veramente aprirsi a me e tramite me al mondo; si era parzialmente liberato perché ero suo nipote a cui voleva bene o perché lo avevo stuzzicato nella sua materia? Pareva per quest’ultima, infatti lo vedevo soddisfatto mentre parlava, e anch’io lo ero per le sue risposte, e infierire ulteriormente con altre domande, che peraltro non avevo a portata di mano, mi sarebbe parso di comportarmi in modo puerile, ingenuamente entusiasta, così mi accontentai del dialogo intercorso e lo salutai con commozione. Ero soddisfatto, avevo trovato il modo per fargli compagnia dandogli soddisfazione.

    ***

    Era Natale, un giorno che con la sua atmosfera eliminava ogni altra riflessione che non fosse la nascita del Bambinello, per cui la gioia per l’anno nuovo, quello della pensione, cadde per un momento nel dimenticatoio. Ma lo zio Silvano no: la ricorrenza era una scusa buona per andarlo a trovare facendogli gli auguri; così, di pomeriggio mi presentai al cancello. Già stavo suonando quando un impulso contrario mi bloccò, mi sentii improvvisamente colto dall’imbarazzo perché stavo andando a fargli gli auguri il giorno di Natale: era una cosa così ovvia, mancante della benché minima sorpresa, che mi avrebbe reso incapace di comportarmi in modo naturale con lui, anche se sapevo che sotto sotto l’imbarazzo avrebbe dovuto gratificare l’altra persona. Non volevo mi scorgesse, montai di nuovo in bicicletta e ritornai a casa giustificandomi con il proposito di andare a fargli gli auguri il primo dell’anno.

    A casa trovai mia moglie Roberta che stava parlando con Graziella, la nostra vicina di casa, infatti abitavamo nello stesso fabbricato, diviso sul cortile da una rete metallica. Roberta aspettò che facessi gli auguri a Graziella e poi continuò a parlare con lei. La nostra vicina era una donna magrolina, mite, con i capelli ancora neri, le caratteristiche della bellezza giovanile la rendeva piacevole sia per il suo aspetto che per il carattere; pareva sottomessa al marito, quel simpaticone di Marcello che sfoderava battute, ma non era vero. Forse perché mi aveva sentito arrivare uscì fuori proprio lui, il solito Marcello sempre sorridente come avesse ricevuto l’impronta della spensieratezza perpetua. Io e Roberta, con nostro figlio Francesco, eravamo stati fortunati ad avere dei vicini di casa così perbene, con la loro figlia Beatrice, così gentile e affabile, inoltre bella, però di una bellezza di cui lei pareva non accorgersene, con quella frangetta nera che le cadeva sulla fronte come a manifestare la sua ingenuità. Beatrice aveva il carattere di sua madre, per questo la vedevo avvolta da un velo di romanticismo, come fosse stata un oggetto da scoprire continuamente, e continuamente rimanerne affascinato. Marcello arrivò con la mano tesa sopra la rete e ricambiai il suo augurio; poi mi indicò ammiccando le donne che chiacchieravano e uscì con una delle sue battute: «Le donne arrivano fino a là e basta, anzi non arrivano neanche là.»

    Naturalmente si riferiva alla loro scarsa intelligenza, che erano brave solo a parlare; ma loro non lo badarono. Stranamente mi venne da pensare che era lui a essere arrivato solo fino a là con l’ampliamento della casa, eternamente da finire. La sua non era granché come battuta, ne aveva sfoderate di migliori, e continuò: «C’è un detto che dice: L’uomo parli soltanto quando ha qualcosa da dire, e la donna quindi taccia per sempre!»

    Anche questa battuta la proferì ad alta voce, in modo che le donne la sentissero; stavolta Graziella fece un gesto di simpatica disapprovazione con la mano e mia moglie si mise a ridere.

    Mentre lo assecondavo mi chiedevo dove trovasse tanto estro per uscire con queste freddure, talvolta così sagaci da sorprendermi non tanto per l’umorismo, anche se quasi tutte facevano ridere, ma per la profondità che manifestavano. Eppure lui era un semplice operaio che lavorava presso il colorificio del paese, una grossa ditta che commerciava in tutta Italia. Il lavoro di Marcello consisteva nel servire gli imbianchini, caricando nei loro mezzi i fusti di colore, lo smalto, la vernice, e poi sacchi di stucco, di cemento plastico, pennelli eccetera: era un lavoro che svolgeva da parecchi anni, dopo avere fatto l’imbianchino pure lui, servendosi proprio da questo colorificio. Giusto due anni fa acquistò la porzione libera della casa dove io già abitavo, era una piccola porzione lasciata dai miei genitori dopo la loro morte. Fu la scelta migliore per noi parenti, perché il prezzo pattuito venne diviso e nessuno se ne dovette risentire. Io abitavo in questa costruzione da quando mi sono sposato con Roberta, vale a dire ventinove anni fa, e avevo accudito i miei fino alla loro fine.

    Talvolta giudicavo Marcello troppo esuberante, con il suo fisico magro, capelli piuttosto lunghi che scendevano ai lati come fosse stato quello una bizzarria per la sua voglia di divertire con le barzellette. A un tratto sbottò con: «Se le donne muovessero le gambe un decimo di quello che muovono la lingua, farebbero chilometri e chilometri di strada.»

    Più volte gli avevo chiesto dove le avesse apprese quelle battute e lui sempre rispondeva che erano quasi tutte frutto della sua testa, ma questo non mi convinceva.

    Sul filone della coppia incalzò rivolto a Graziella: «Conosci la differenza che c’è tra noi due?»

    «Su, avanti, dimmela!» rispose lei presentendo la spiritosaggine.

    «Che ci completiamo.»

    «Cioè?»

    «Che io penso senza parlare…»

    «E io?» chiese lei.

    «Tu parli senza pensare.»

    Lei sorrise di gusto.

    «C’è il detto: si ha più soddisfazione nel dare che nel prendere, solo che io lo metterei in pratica con una L in mezzo alle due parole.»

    «Ai due verbi,» lo corressi, quindi: «L’unico modo di trattare una donna è farle la corte se è carina e farla a un’altra se è brutta.»

    Vidi Marcello e Graziella perplessi, mentre Roberta sorrideva. «Oscar Wilde!» soggiunsi.

    Ancora Marcello e Graziella non capivano. «Quello del Posso resistere a tutto tranne che alle tentazioni,» proferii ancora.

    «Sì, l’ho sentita questa frase,» disse Marcello.

    «Aforisma,» corressi ancora io. «Gli aforismi di Oscar Wilde sono famosissimi, come quello che dice: Smettere di fumare è semplicissimo, io, per esempio, ho smesso centinaia di volte

    «Come mai li conosci?» chiese Graziella.

    Stavo per rispondere quando fu Roberta a intervenire: «Si è comprato il libretto a un mercatino dell’usato e non ha smesso finché non li ha letti tutti.»

    «Memorizzati tutti!» corressi.

    Ci salutammo, io entrai in casa con la bella aspettativa del concerto che si sarebbe svolto nella chiesa di Bojon, una frazione di Campolongo, dove tutte le corali delle frazioni del Comune si sarebbero riunite per i canti natalizi.

    In chiesa, mente i cori si alternavano, si ravvivava in me la voglia di essere più buono e mi sforzavo di capire come ciò potesse avvenire: sicuramente con il volontariato, continuando a sostenere ancora di più mio zio. Ecco che lo zio Silvano tornava a interessarmi; lo pensai più arrendevole una volta andato in pensione, quando non avrei sprecato del mio tempo per lui: perché mio zio era buono di carattere e generoso, insomma una persona per la quale valeva la pena prodigarsi per renderla meno sola anche se non fosse stato mio zio.

    Solo una cosa stonò in quel concerto del 25 dicembre del 2006: la modifica da parte di una corale del brano più famoso e più bello della Natività, cioè Bianco Natale. Lo cantarono con un’altra tonalità e ne uscì una cosa obbrobriosa per me; mi chiedevo perché si dovesse modificare un pezzo perfetto quando per anni questo ha profuso emozioni intense, quasi divine. Comunque quella corale si riscattò con altri pezzi cantati magnificamente.

    La notte del 30 dicembre mi svegliai alle quattro e trenta e non presi più sonno: troppo bello pensare all’anno che se ne stava andando e lasciava il posto a quello fatidico. Ricordai che la notte di San Silvestro l’avrei trascorsa a casa mia con Marcello e Graziella, non potevo quindi prendere sonno di fronte a loro: dovevo dormire ora. Inutilmente mi sforzavo di non pensarci: l’emozione si frapponeva continuamente, beffarda ma piacevolissima, addirittura ammaliante. Talvolta per la stanchezza del fantasticare vedevo le piccole vene dei miei occhi: finalmente li vedevo i miei occhi, mi dicevo; poi riflettevo sul fatto che in pensione avrei riposato nel modo più assoluto, non facendo proprio niente; ma allora sarebbe subentrata la noia, allo stesso modo di quando il godere è peccato, per cui sarebbe stato impossibile godere pienamente della nuova situazione.

    Appena fu chiaro mi vestii e mi diressi alla ferrovia per andare sull’argine del Brenta; a volte sceglievo la ferrovia, a volte la strada, dove non dovevo cadenzare i passi sulle traversine annerite o camminare sui sassi. Però erano più le volte che sceglievo la via del treno, dove a destra si estendevano i campi, le poche case e poi mi si presentava il ponticello sul Cornio, una vestigia del tempo andato.

    Mentre mi incamminavo, lasciandomi trasportare dall’emozione dell’evento della fine dell’anno, sentivo qua e là i botti di prova. Ero avvolto nell’estasi, ma non la assaporavo perché il senso sempre mi sfuggiva, forse perché la pensione e la festa dell’ultimo dell’anno si scontravano e non riuscivo a concentrarmi su nessuna delle due circostanze. Riuscivo però a percepire la sensazione che da lì a poco avrei guadagnato quasi tutto il mio stipendio senza lavorare, ed era come lo avessi rubato. Sarei passato dall’altra parte, di quelli che in vari modi guadagnano senza dover faticare; come avrei fatto ad adeguarmi, io, con la rettitudine che mi ritrovavo?

    Mi sentivo come in gestazione: mancavano solo tre mesi alla pensione, quindi ero incinto di sei mesi e dopo altri tre avrei partorito la pensione. Avevo sentito dire che durante i primi quattro mesi di quiescenza, così viene definita burocraticamente la pensione, si è tristi, annoiati, sfiduciati, incapaci di dare un senso alla giornata. Non sarebbe stato il caso mio: con l’orto, le passeggiate sull’argine e il volontariato avrei saputo come passare il tempo. Avevo deciso di andare a trovare lo zio Silvano il giorno dopo, a Capodanno; ma se per qualche motivo non fosse stato a casa? Se non avessi avuto ancora una volta il coraggio di presentarmi a lui? Non sarebbe stato meglio andare l’ultimo dell’anno a fargli gli auguri? Più ci pensavo e più mi convincevo che la cosa era sensata, anzi giusta: sarebbe stata una visita inaspettata, che gli avrebbe evitato la tensione di vedermi il giorno dopo.

    Il pomeriggio suonai al cancello; quando mi vide ebbe solo un attimo di esitazione, immaginai si fosse aspettato la mia visita e ne fosse stato compiaciuto. Entrò in casa e io lo seguii, quindi si girò e gli feci gli auguri di Buon Anno, anche se era il 31 dicembre. Pensai non fosse stato corretto baciarlo: non c’era ancora la confidenza necessaria, e poi ero sicuro che lui avrebbe disapprovato quelle smancerie, come io del resto. Seguì un attimo di imbarazzo, allora gli chiesi chi fosse quel filosofo che andava in giro con la lanterna in cerca dell’Uomo. Era Diogene, ne ero quasi sicuro, quello della botte, ma perché non me ne aveva parlato quando si era nell’argomento? Era una domanda che, a parte gli auguri, giustificava la mia visita. Lui per tutta risposta mi invitò a sedere e mi chiese se volevo un caffè. Risposi di sì. Davanti alla bevanda, seduti come due amici, cominciò con il dirmi che sì, la mia supposizione era giusta: era proprio Diogene quello che andava in giro con la lanterna a cercare l’Uomo. L’Uomo che lui cercava doveva essere l’Uomo saggio, ma non sapevo perché Diogene lo cercasse con la lanterna. E glielo chiesi.

    «Perché l’Uomo saggio è quello che vive in simbiosi con la natura, che per quanto possibile si rende indipendente dalla società, e quest’Uomo è difficile da trovare nel caos della vita sociale, come se il mondo si fosse dimenticato della natura e brancolasse nel buio.»

    «Per questo lui viveva in una botte... Ma dimmi zio, sono vere queste notizie? Io penso proprio di no.»

    «Tanti studiosi affermano che ciò può essere stato vero, dato il personaggio. Visto che siamo in tema, posso raccontarti anche un altro aneddoto, se lo desideri.»

    «Di Diogene?»

    «Sì, di lui.»

    «Certo, come vedi mi interessa molto questo argomento.»

    «La filosofia?»

    «Sì, la filosofia.» Avevo buttato la risposta di riflesso, ma quello che avevo detto era vero: la filosofia mi interessava veramente, mi avevano sempre affascinato i personaggi storici, le loro biografie, le gesta. Il pensiero di quello che poteva essere la filosofia creava in me una voglia di conoscere, di addentrarmi in questa materia e magari metterla in pratica.

    «Alessandro il Grande…» aggiunse lo zio.

    «Alessandro Magno?» replicai d’acchito con una punta di orgoglio.

    «Sì, lui, una volta si pose davanti a Diogene per chiedergli cosa desiderasse.»

    Scostati ché mi fai ombra! pensai subito alla famosa frase rivolta al condottiero; ma non sapevo chi fosse stato a proferirla. Sempre lui dunque, questo bizzarro filosofo, doveva avere un bel carattere per comportarsi e vivere in quel modo. Sentii lo zio continuare.

    «Diogene per tutta risposta gli intimò di spostarsi perché Alessandro si frapponeva tra lui e il sole.»

    Fu una risposta deludente: quella che conoscevo io era più d’effetto. Restammo muti per alcuni secondi, previdi fosse giunto il momento di andarmene, già stavo alzandomi quando lui, sforzandosi perché rimanessi là, continuò: «Se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene, rispose Alessandro il Grande. Devi sapere che Diogene aveva anche altri comportamenti, conformi al suo pensiero, non certo alla decenza.»

    «Cioè?» Lo indussi a esprimersi perché avevo visto in lui un lieve imbarazzo, di qualcosa che non voleva dirmi, che tuttavia doveva riferire per non sentirsi in colpa per averla sottaciuta.

    «Diogene defecava in qualsiasi posto si trovasse, anche nell’anfiteatro, perché il cane faceva così e per lui il cane era da imitare dato che viveva la migliore vita possibile, come ti ho detto l’altra volta.»

    «Era un pazzo allora.»

    «Infatti Platone lo definì un Socrate impazzito, ma secondo me era l’essenza di ciò che dovrebbe essere l’Uomo; solo che lui ha avuto il coraggio e la spudoratezza di dimostrarlo.»

    Mi venne in mente un altro personaggio, che non sapevo greco o romano o addirittura del Medio Evo, si trattava di Pigmalione; gli chiesi chi fosse stato.

    «Come mai vuoi saperlo?» mi chiese lo zio.

    «Come tanti altri sono nomi che mi porto dietro, ma di cui so gran poco, e di questo Pigmalione proprio niente.»

    «Bravo, conoscere è molto importante e soddisfacente. Devi sapere che Pigmalione era il re di Cipro, che essendo anche scultore aveva realizzato una statua a cui aveva dato il nome di Galatea, della quale si era innamorato. Ma era una statua, allora durante le feste in onore di Afrodite si recò al tempio di questa dea per pregarla di farla vivere; la dea acconsentì e la statua divenne donna, che lui sposò ed ebbe da lei anche un figlio.»

    Un figlio da una statua? pensai. «Però ho sentito dire dell’effetto Pigmalione.»

    «Se devo dire la verità, so cosa significa, ma non la relazione con la sua statua.»

    «Cosa significa?»

    «In parole povere: se io penso che tu sia così, va a finire che tu sia veramente così.»

    «Perché questo?»

    «Perché il mio giudizio condiziona inconsciamente il tuo comportamento, e tu sarai come ti avevo giudicato.»

    «Ho capito.» Improvvisamente mi venne in mente l’assunto conosciuto fin dall’adolescenza, che recitava così: Io non sono come sono, io sono come penso che tu pensi che io sia. E glielo riferii.

    «Questo non l’ho mai sentito, ma calza perfettamente con l’effetto Pigmalione.»

    «E la Spada di Damocle?» chiesi ancora.

    «Sai cosa significa, no?»

    «Sì, però non so da dove derivi.»

    «Damocle era un principe, adulatore di Dionigi, il tiranno di Siracusa,» spiegò mio zio, «che ricordava continuamente al suo signore la fortuna in quanto godeva di un grande potere, tanto che questi gli offrì di invertire i ruoli per un giorno. Così Damocle si trovò ad assaporare i piaceri del comando, delle belle ragazze e dei lauti pasti. Solo alla sera si accorse di una spada sospesa sopra la sua testa, sostenuta solo da un crine di cavallo: era stato Dionigi a fargliela mettere, in modo che Damocle capisse che il ruolo di tiranno godeva sì delle agiatezze, ma era pure soggetto alle continue minacce e al pericolo per la sua incolumità. Damocle capì e chiese a Dionigi di ritornare il principe che era prima.»

    Stavolta la visita si poteva dire veramente conclusa, con mia soddisfazione perché sapevo quella specie di filastrocca filosofica che lo zio non conosceva. Ero più contento che mai: il nostro era stato un vero dialogo, e anche se ora lui sembrava stanco o pentito per quanto aveva parlato o per quello che aveva detto, ancora una volta ero convinto che la mia presenza in seguito non gli sarebbe dispiaciuta.

    ***

    La sera dell’ultimo dell’anno con Marcello e Graziella cenavamo a casa nostra. Non si avvertiva ancora quella atmosfera spensierata che avrebbe dovuto rallegrare una tale festa, per cui cercavo il momento di sfoderare il mio sapere appena acquisito dallo zio per intrattenere piacevolmente gli ospiti.

    «Oggi sono stato da mio zio Silvano,» dissi.

    «Ah, come sta?» chiese Marcello.

    «Bene. Abbiamo parlato di cose strane.» Ero sicuro di quello che avevo da dire e potevo recitare la scena incuriosendoli. «Abbiamo parlato di Diogene.»

    Roberta mi fissò meravigliata; Graziella fece una faccia apatica e Marcello esclamò: «Diogene?... Ne ho sentito parlare.»

    «Ma su, non sapete chi era Diogene? Quello che viveva in una botte,» li ragguagliai faceto.

    «Adesso ricordo,» replicò Marcello, sicuramente rinvangando nella memoria la botte. «Ma non deve aver vissuto tanto, visto che è stato fatto rotolare giù dalla montagna e qualche chiodo si sarà pure conficcato nelle sue carni,» soggiunse.

    «Quella non è la botte di Diogene, quella è la botte di Attilio Regolo. Sai tu chi era Attilio Regolo?» Se non conoscevo la filosofia, qualche episodio eclatante della storia studiata a scuola me lo ricordavo.

    «Ah, è Attilio Regolo che è stato messo dentro la botte piena di chiodi e che poi è stata fatta rotolare giù dalla montagna. Ma perché è stato fatto morire in quel modo?»

    «Marcello, Marcello!» esclamai, e raccontai quel poco che sapevo di questo martire: un generale romano che nel terzo secolo avanti Cristo fu preso dai cartaginesi e poi mandato a Roma perché contrattasse uno scambio di prigionieri. Ma lui invece esortò il senato a continuare la guerra. Avrebbe potuto rimanere a Roma, ma la sua lealtà lo portò ancora a Cartagine e qui fu messo a morte in quel modo.

    Roberta con fare risoluto mi chiese di cambiare argomento perché stavamo mangiando. Mi accorsi del mio discorrere forbito, l’adrenalina stava prendendomi e quasi quasi, ritornando a Diogene, avrei voluto rivelare addirittura che defecava in pubblico, cosa che avrebbe sorpreso tutti e tre. Dissi invece come viveva, cioè con il solo bastone, bisaccia e scodella, scodella che eliminò vedendo il ragazzo bere con le mani.

    Vedevo Marcello fremere: non era nel suo carattere rimanere passivo, cercava affannosamente un collegamento con il tema per raccontare qualche barzelletta o freddura, perché finora di barzellette non ne aveva raccontate. Fu a fine cena, quando ci si liberò dell’ingombro del mangiare, che ritornai a Diogene: dovevo raccontare l’aneddoto di Alessandro Magno e del modo in cui defecava. Con quello di Alessandro Magno i tre non rimasero stupiti quanto avrei immaginato, però quando spiegai che Diogene aveva di quei comportamenti indecenti, allora gli altri provarono ripugnanza. Ma fu anche l’aggancio per Marcello, che saltò fuori dicendo: «La conoscete quella dei due che andando nel bosco avevano trovato una cacca?»

    Naturalmente noi rispondemmo di no.

    «Ebbene, uno diceva che doveva essere quella di un animale, l’altro che aveva la forma tipica di quella umana; il primo diceva che sapeva di odore selvatico, il secondo che sapeva di cacca umana; alla fine, visto che il primo non si arrendeva, il secondo proruppe con: Non ho mai visto un cervo pulirsi dopo averla fatta! Infatti c’era della carta sopra la cacca.»

    Lui le sapeva raccontare le battute, tanto meglio di come vengono scritte dato che oltre al testo è indispensabile la mimica giusta.

    Stavo per uscire anch’io con una mia spiritosaggine quando lui, maldestramente, continuò: Marcello era fatto così, tanto semplice e simpatico da soprassedere a certe sottigliezze comportamentali. «Esiste il geometra contrario, io ho la moglie contraria. È da quando siamo sposati che non la sopporto, penso che prima o poi mi lascerà.»

    Graziella lo fissò e lui rincarò la dose: «Non è vero che sei sempre contraria a quel che faccio?»

    Graziella negò sorridendo maliziosamente alla sua battuta, e lui ingiunse: «Tu hai il senso della contraddizione.»

    «Ma no…» rispose lei.

    «Vedi?» soggiunse lui soddisfatto rivolto a me.

    «Sto pensando…» lo rimbrottò Graziella.

    «Strano…» la bloccò lui.

    Io e Roberta ce la godevamo un mondo sentendo Marcello scatenato: quando partiva con le sue freddure era una serie ininterrotta di risate.

    «Sto pensando che l’uomo è una macchina perfetta, come si dice…» ribatté Graziella.

    «La donna meno,» incalzò Marcello.

    «L’uomo è una macchina perfetta per dire stronzate, questo intendevo!» concluse lei con inaspettato coraggio.

    Marcello accettò la controbattuta con un sorriso di meraviglia e di comprensione allo stesso tempo.

    Il discorso si indirizzò poi sui figli, su Beatrice che era andata a festeggiare l’ultimo dell’anno con Celestino, il suo fidanzato; e di Francesco che era andato a festeggiarlo con i suoi amici. Sicché si parlò dei problemi dei figli anche se già adulti, dell’ansia che Graziella provava quando Beatrice tornava a casa tardi, per cui non riusciva a prendere sonno, mentre Marcello era più tranquillo. Io dissi che non ci si deve preoccupare del ritardo dei figli, ma di quando è l’ora che tornino, perché è in quel momento che ci avvisano se succede un incidente.

    «Bisognerebbe sgridare i figli quando fanno tardi, anche se sono grandi,» rimproverò Graziella a Marcello, «invece per lui pare che Beatrice non esista come figlia.»

    «Sei tu che ti preoccupi per qualcosa che non è ancora accaduta. Sei tu che sei troppo ansiosa,» rispose lui.

    «È vero,» subentrai io, «bisogna essere forti e lasciare che i fatti accadano senza che ci intromettiamo, tanto, quello che deve essere sarà. Lo so, non è facile, ma questa sarebbe la giusta via da seguire.» Con questa mia dichiarazione vi vidi la correlazione con l’invadente che si intromette in ogni cosa, al quale bisognerebbe dire anche a lui di lasciare che i fatti accadano senza il suo intervento.

    Eravamo alla festa dell’ultimo dell’anno e il discorso si era fatto serioso, conveniva continuare con le battute di Marcello. Non senza fatica riuscii a riportare il dialogo sui figli, ma non certo ritornando sull’apprensione per la loro sorte, bensì sulla loro educazione, attestando che sia Francesco che Beatrice per fortuna erano coscienziosi e onesti, che Marcello e Graziella avevano maggior merito in quanto era più difficile educare le figlie che i maschi, quindi pronunciai questa massima: «Se fai un complimento a tuo figlio significa che di buono fa solo quello, se lo sgridi significa che di male fa solo quello, quindi è meglio sgridarlo.» Gli altri rimasero stupiti dal mio parlare. Non mi vergognai della mia sagacità, tanto loro mi conoscevano e sapevano che in certe occasioni potevo mettere da parte il mio carattere introverso.

    «Alla televisione ho sentito dire: È più facile essere figli che genitori.» Era Roberta che si era intromessa: i capelli tirati da una parte, abbastanza lunghi da arrivare alle spalle, possedeva una bellezza nordica, di quelle che non sai decifrare. Un po’ somigliava a mia madre, questo si adattava al detto che i figli inconsciamente tendono a prendersi le fidanzate somiglianti alle madri. Non so se sia stato per questo che ho scelto Roberta, se poi l’ho scelta visto che dobbiamo ancora farci la dichiarazione d’amore. Andiamo molto d’accordo e dopo tanti anni di matrimonio i difetti di entrambi pare abbiano esaurito la loro efficacia per cui viviamo una vita tranquilla, con Francesco che non ci dà nessuna preoccupazione, specialmente avendo due vicini di casa così.

    «Ai figli non si può dare tutto, perché li si vizia e pretendono sempre di più,» continuò Roberta.

    «Sì, dare tutto ai figli, specialmente ai bambini, è come se uno ti rivelasse la soluzione del quiz prima che tu la trovi,» soggiunsi dilettandomi con queste sentenze.

    «A proposito di figli,» si intromise Marcello, «quando è nato mio nipote…»

    «Quale nipote?» chiese Graziella.

    «Un nipote… Come al solito ognuno diceva a chi assomigliava il neonato: c’era chi diceva che assomigliava al padre, chi al nonno, chi allo zio eccetera, e solo perché io dissi che assomigliava al compare tutti mi hanno guardato male.»

    Graziella lo colpì sul braccio. «Sei sempre il solito!» esclamò.

    Infatti Marcello aveva anche questa peculiarità: far credere le sue battute fatti veri.

    «Io e Graziella ci siamo sposati nonostante avessimo avuto gusti diversi: a lei piacevano gli uomini e a me piacevano le donne!» soggiunse.

    «Come fai a sopportare un tipo così?» sbottò Roberta a Graziella.

    «E me lo chiedi? È lo stesso anche in casa, d’altronde siamo fortunati: tutto ci va bene, comunque sa fare anche il serio, se vuole.»

    «È male quando tutto va bene, volete sapere il perché? Perché non c’è il referente,» mi inserii io, «mentre se hai un malanno il referente c’è, e puoi sfogarti con lui; vi porto un esempio: quando il neonato non piange ci preoccupiamo perché non sappiamo perché non piange, mentre se piange sappiamo perché piange.»

    «Sicché è meglio soffrire che godere,» concluse Marcello.

    «No, meglio non pensare a cosa ci potrebbe accadere, se non abbiamo problemi gravi si deve essere tranquilli e scacciare i dubbi, perché quando si è nel dubbio ci si aggrappa quasi sempre alla ipotesi peggiore.»

    Mi ero prolungato forse troppo, ero stato trasportato dalla foga delle riflessioni che volevano essere spiritose, invece non seppi sostenerle fino in fondo. Dovevo richiamare l’ilarità; ma non fu necessario perché fui interrotto dal solito Marcello, che pronunciò: «Mi fai venire in mente quella volta in cui i familiari non si decidevano dove seppellire il morto, allora uno di loro esclamò: Se non ci mettiamo d’accordo se metterlo nel loculo o per terra non sarà mica questione di vita o di morte?. E quando sono andato in Comune per rinnovare la carta d’identità mi hanno detto di portare tre fotografie e la vecchia, allora sono tornato a casa, ho portato tre fotografie e mia moglie.»

    «Cretino, non è vero! Vedete come mi prende in giro?» ribatté Graziella stando al gioco. Poi ancora lui: «A proposito del Comune, chi è stato il primo raccomandato della storia?»

    Pensai, ma non mi venne in mente nessuno.

    «La Madonna, che è stata Assunta senza fare il concorso.» Quindi: «Un’altra volta all’anagrafe l’impiegato mi ha chiesto: Data di nascita? Professione? Condanne? Sì, mia moglie!»

    Graziella si alzò per picchiarlo ancora; e lui: «Quella volta, sempre all’anagrafe: Capelli? Castani. Occhi? Marrone. Sesso? Mi piace.»

    Questa volta Graziella si scagliò con più veemenza contro il marito. Eppure quando la vedevo seria andare a fare la spesa in bicicletta sembrava l’ombra di com’era ora, che contribuiva in modo egregio ad allietare la serata condotta da suo marito.

    Mancavano una decina di minuti a mezzanotte, decidemmo di accendere il televisore e là constatammo la solita euforia di questo evento, un po’ spontanea un po’ forzata, tanto per non sentirsi al di fuori dal gruppo. Ora non si parlava più, fui colto dalla dolce sensazione che qualcosa di grande stesse avvenendo in me, come se l’anno vecchio stesse gettandomi al di là della barricata. Ancora una volta non riuscivo a rendermi conto della felicità che provavo per la pensione: sembrava, la libertà acquisita, non così importante come l’avevo giudicata. Mi ero dunque illuso? Sarei rimasto a casa come fossero stati giorni di festa o ferie? Che differenza c’era? Solo che queste erano di molto prolungate. Mi rammaricavo di questo mio scetticismo e sperai, una volta passata la mezzanotte, di rendermi conto che dopo tre mesi non sarei più dovuto andare a lavorare.

    La mezzanotte venne: ci furono brindisi a iosa alla televisione e tra noi quattro, quasi fosse un’evenienza che si doveva soddisfare per accontentare non so quale entità, o la sola consuetudine, per attenersi alle buone norme e convincersi che con la baldoria si è felici.

    Nel trambusto che c’era riuscii a pensare che mi trovavo già nell’anno nuovo. Tentavo inutilmente di afferrare il significato della circostanza e davo la colpa all’allegria della festa alla televisione, per cui mi lasciai trasportare dall’atmosfera gioiosa, e alla pensione non ci pensai più. Uscimmo tutti e quattro per sentire i botti e ammirare i fuochi d’artificio che si scorgevano in vari punti del paese; era veramente una festa e pregai Dio che il mondo rispecchiasse sempre quel momento di pace e felicità.

    A letto, solo per un momento ebbi un barlume di coscienza di quel che mi stava capitando: pensavo alla giornata dopo, forse la più importante della mia vita. Così pensando mi ricordai ancora dello zio Silvano: con lui avrei impegnato non una giornata, ma tutte le giornate, fino alla morte di uno dei due; l’avrei convinto a unirsi a me, con i suoi aneddoti filosofici e io con le mie riflessioni. Poi l’avrei accompagnato là dove di solito andava in auto a fare non so che. Se non mi avesse accettato avrei fatto di tutto per rendermi umile come un cane, come Diogene, l’avrei costretto a fargli compagnia, convincendolo che allo stesso modo anche lui avrebbe fatto compagnia a me. L’avrei portato fuori di casa per fargli ammirare il mondo fisico, o sensibile, come lo definiva lui. E d’inverno? Quando il tempo non lo avrebbe permesso? Avremmo dialogato, avremmo mangiato assieme, da lui o a casa mia, con Roberta, che lui tanto ammirava.

    II

    Al mattino uscii nel cortile per assaporare il nuovo anno, provare la gioia della pensione in arrivo. Ancora non ci riuscivo, sentivo solo gli ultimi botti come fossero state le reminiscenze dell’anno vecchio che tristemente mi salutava; non riuscivo a concepire di avere superato lo sbarramento e che ora stavo discendendo.

    Durante quel giorno ebbi due soli sprazzi di gioia: il primo dalla suocera, dove eravamo stati invitati a cena io e Roberta, in cui fui pervaso da una improvvisa ondata di euforia indefinibile, ma che doveva riguardare la pensione; e il secondo sprazzo quando già mi trovavo a letto e mi aggredì una sfrenata voglia di fare, di creare, addirittura di gridare o ballare, perché quei comportamenti erano gli unici che potevano farmi comprendere l’entusiasmo di cui ero investito. Però era notte, e non avevo la voglia di alzarmi per fare qualcosa e tanto meno ero il tipo che raccontava simili esperienze agli altri, sicché non svegliai Roberta.

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