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L'alto viaggio
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E-book264 pagine3 ore

L'alto viaggio

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Info su questo ebook

"L'alto viaggio" è un romanzo d'avventura, pubblicato da Giuseppe Fanciulli (in arte Mastro Sapone) nel 1944, in un'epoca in cui non solo i ragazzi avrebbero avuto un gran bisogno di evadere dalla dura realtà della guerra. Ricco di suggestioni esotiche, e coi suoi tratti fortemente salgariani, il romanzo racconta le peripezie di Fernando Colombo (1488-1539), secondogenito di Cristoforo Colombo e, come lui, grande esploratore della prima età moderna. Grandissimo bibliofilo, Fernando fu anche un buon matematico e un instancabile viaggiatore, sempre in cerca di nuovi orizzonti da scoprire. Un'opera concepita per la gioventù, ma che si lascia apprezzare ancora oggi per il suo piglio pungente e per la sempre attuale pulsione alla scoperta dell'ignoto... -
LinguaItaliano
Data di uscita26 ago 2022
ISBN9788728447857
L'alto viaggio

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    Anteprima del libro

    L'alto viaggio - Giuseppe Fanciulli

    L'alto viaggio

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1944, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728447857

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    PREMESSA

    La materia di questo romanzo, rigorosamente storica, deriva dalle fonti prime: Giornale di bordo, Relazioni e lettere di Cristoforo Colombo; Historie della vita e dei fatti di Cristoforo Colombo, scritte da Fernando Colombo; Relazione di Diego Mendez. Tali fonti, seguite secondo l’esame della critica moderna, hanno avuto quella libera estensione, che è sempre consentita alla fantasia nell’interpretazione del. Passato.

    Mi preme avvertire che tutti i personaggi italiani sono storici: poco più che nomi, per la maggior parte, nei testi citati, meritavano un ricordo, a fianco dell’ Ammiraglio e del suo giovane figliuolo, in questo libro, che vuole esaltare l’imperitura gloria della stirpe nostra, gloria di grandi e di umili, pur nei giorni delle più dure prove.

    GIUSEPPE FANCIULLI

    I

    VELE AL VENTO

    L e quattro navi uscirono dal porto quasi inosservate; pochi curiosi sulle tolde e le coffe dei battelli ancorati lungo le banchine; non acclamazioni, non saluti.

    Ben altro era l’aspetto di tutta la marina, quando, un due mesi prima, era partito dalla stessa Cadice il convoglio di trentadue navi, con duemilacinquecento uomini, agli ordini di don Niccolò Ovando, che andava alla Spagnuola per assumere il suo altissimo ufficio di vicerè delle Indie Orientali e di governatore dell’isola. Allora, sì, folla plaudente sui moli, sui bastimenti e le barche, entusiasmata dallo spettacolo grandioso, attestazione della potenza marinara a cui era giunta la Spagna di Isabella e Fernando. Un gran giorno! Il sole sembrava anticipare le sue feste di primavera, e vinte le nebbie mattutine, dava uno spolverío d’oro alla foresta delle alberature, un vivido scintillio agli umidi sartiami di tutte quelle navi in movimento.

    Fra tanta gente, in mezzo al gioioso vociferare, si era aggirato un uomo solo e silenzioso, che aveva sul volto l’impronta di una maschia tristezza. Chi lo riconosceva sussurrava il suo nome ai vicini. Taluno si meravigliava nel vederlo così invecchiato e in apparenza tanto dimessa: è davvero logorante vivere in disgrazia dei Re.

    Ora lo stesso uomo, in questa giornata che sembra una delle innumerevoli destinate a non lasciare traccia — 9 maggio 1502 — ha spiegato le sue insegne di grande ammiraglio del mare Oceano sull’albero della Capitana, che precede le tre all’uscita del porto. E se Cadice non lo saluta mentre parte, nemmeno lui degna di uno sguardo la città: Cristoforo Colombo rimane chiuso nel castello di poppa. Soltanto la sua bandiera palpita al fremere della brezza: rammenta come, pur essendogli contestati i titoli di vicerè e di governatore, egli è sempre el Almirante, ha tuttora il nome che meglio spetta alla sua gloria e più gli piace.

    Lungo le murate si affacciavano marinai e uomini d’arme; chè non a tutti è dato di chiudere gli occhi, quando si lascia la terra per un lungo viaggio; anzi, gli sguardi sono l’ultimo legame, penoso a rompersi; e il cuore rimane sospeso, col presentimento di sventure possibili nell’ignoto che attende.

    Su quelle navi, tra quei centocinquanta uomini, molti erano spinti per la prima volta a sfidare il rischio da amore di guadagno e più ancora dal desiderio di avventura; ma non mancavano altri invecchiati sulle oscillanti tavole; alcuni avevano già corso l’Oceano col Genovese nel viaggio della Scoperta; e tutti in quell’ora provavano qualche sgomento, confrontando la certezza del distacco e la nebulosa visione del ritorno. Ognuno si diceva: «Vi sarò io?». Poi questi pensieri dalle ali stanche vennero lasciati indietro; e la rude gente, volte le spalle alla città quasi svanita nel sole, fissò arditamente la foschia dell’orizzonte.

    Sulla Capitana si davano ordini secchi, e i quattro vascelli uno dopo l’altro ampliavano la velatura. Il mare era liscio e bisognava prendere tutto il vento.

    A poppa il contromastro Anton Donato e il piloto Pietro de Ledesma guardavano insieme le navi che seguivano la Capitana, come tratte da una gomena invisibile.

    L’uno accanto all’altro, i due uomini formavano il contrasto più singolare. Anton Donato era piccolino, nero come un chicco di pepe, gambe arcuate e una gran testa sproporzionata a quel corpicciuolo. Pietro de Ledesma aveva corporatura di gigante, mani come pale, una faccia rossa e una chioma color carota, che gli usciva a ciuffi di sotto al berretto; se parlava, la sua voce era di tuono.

    Ora appunto diceva, guardando le navi:

    — Miseria nera! L’avarizia del Re ci perseguita.

    — E l’odio del Fonseca — aggiunse il contromastro con la sua tagliente vocetta.

    — Solamente per il secondo viaggio — riprese il piloto — si fecero le cose alla grande: diciassette navi; e la gente si affollava agli imbarchi. Fame dell’oro! Ora siamo tornati alle angustie della Scoperta: hanno dato all’Ammiraglio tre vecchie barche. Del resto, io credevo che l’avrebbero lasciato a terra per sempre.

    — Ma no! — ribattè il contromastro — In fondo al mare lo vorrebbero.

    — Dio li confonda! — esclamò Pietro de Ledesma con un ruggito. E tornò a guardare le navi.

    Spiccavano i nomi riverniciati di fresco sul fianco della prua: Gallego, Santiago de Palos, Viscayno.

    Il piloto riprese:

    — Guarda il Santiago e dimmi se si può camminare più sconciamente! A ogni passo, con questo mare, tuffa il becco in acqua come un papero.

    Due mozzi italiani, Anton Chavarin savonese e Grigorio genovese, che avevano finito la manovra e oziavano godendosi il sole, udirono il paragone del piloto e risero apertamente. Erano ragazzi pronti al chiasso come alla fatica.

    Giusto in quel momento, Diego Tristan, capitano della nave, usciva dal castello. Guardò da quella parte e corrugò la fronte. Segaligno, alto, bruno, aveva in ogni momento un’aria di comando; mezzo soldato e mezzo marinaio, pensava, agiva, viveva, insomma, soltanto per il servizio.

    — Che cosa hanno? — domandò accennando i mozzi.

    — Forse ammirano come noi la magnificenza dell’Ufficio delle Indie nell’allestire la spedizione; — rispose il piloto — sono cose che non sfuggono nemmeno ai ragazzi.

    — Quattro buone navi, mi pare… — osservò il Tristan.

    — E fra tutte non stazzano trecento botti! ¹ — ribattè il piloto. — Sarebbe già un bel fatto portarle fino alla Spagnuola; ma pare che dovremo andare assai più in là.

    — Anch’io ho udito dire — continuò il contromastro — che all’Ammiraglio è vietato quello sbarco, almeno nel viaggio di andata.

    — Miseria nera! — gridò il piloto, che forse credeva di parlare sottovoce. — Chiudere ora in faccia le porte dell’isola all’uomo che l’ha scoperta, che l’ha governata, consumandovi qualche libbra del suo sangue!

    — E se non andiamo alla Spagnuola, capitano, — chiese il contromastro — dove puntiamo la prua?

    — Tra due settimane, o poco più, saremo alla Gran Canaria, — rispose il capitano — e io non so altro. Ma sembra che stasera l’Ammiraglio terrà rapporto e presenterà il piano del viaggio approvato dai Sovrani.

    Questo per Diego Tristan era un lungo discorso; e non fece meraviglia vedere come dopo un simile sforzo voltasse le spalle e si allontanasse verso l’opposta parte della nave.

    Il ponte si spopolava. La gente era scesa sotto coperta per garantirsi e possibilmente scegliere una cuccia, disporre nel miglior modo la poca roba, fare un giro dalla parte della cucina. Tutto, là sotto, era angusto, tra ombre cupe e zone di viva luce. Odore di vecchio legno, di catrame, di grassi si mescolava a quello delle cipolle soffritte, e di tanto in tanto veniva spazzato via da un soffio di aria fresca, salmastra, che si precipitava giù col sole per i boccaporti spalancati.

    Gli uomini si tirarono da parte nello stretto passaggio, all’apparire di un ragazzo e di un vecchio, che emergevano chi sa da quale profondità.

    — Per oggi può bastare, don Fernando, — disse il vecchio, soffermandosi a riprender fiato. — La nomenclatura è il principio della scienza, e perciò noi le dedicheremo ogni giorno la prima lezione mattutina. Oggi abbiamo imparato che cosa è il ponte e che cosa è la stiva; le parti di una nave, però, sono infinite, perchè la nave si può dire un mondo. E dopo aver denominato ciascuna di tali parti, dovremo dare il proprio nome a quanto circonda la nave, nell’acqua e nell’aria, che, come sapete, sono due elementi della natura…

    Il vecchio si lisciava la lunga barba bianca, e pareva compiacersi dell’attenzione stupita che la gente di mare gli mostrava, quasi a compensarlo dell’aria distratta e annoiata del discepolo, al quale rivolgeva sì fluenti parole.

    — Mi comprenderete, non è vero, don Fernando? — disse inchinandosi un poco.

    Questo don Fernando era un ragazzo che poteva avere tredici o quattordici anni. Alto e sottile; elegante nel vestito di velluto amaranto filettato d’oro; bella faccia chiara, in cui i grandi occhi scuri facevano contrasto coi capelli biondi e il bianco incarnato. Teneva una mano sull’elsa dello spadino, e fissava con i bruni occhi impazienti il sole acceso sulla scaletta del più vicino boccaporto.

    — Andiamo, figliuolo, andiamo; — riprese l’autorevole voce — vostro padre probabilmente ci aspetta.

    — Vi seguo, don Ramiro, — disse semplicemente il ragazzo.

    La sua voce aveva un timbro pieno e caldo.

    Si avviarono, uscirono dal boccaporto sul ponte.

    Nell’aria assolata quei biondi capelli splendevano come un’aureola intorno al piccolo tòcco di velluto; brillava anche una medaglia appesa al collo, nella quale si poteva riconoscere l’effigie dell’infante don Giovanni, morto già da quattro anni.

    Don Ramiro Sulis, l’illustre professore di Salamanca, pareva meno imponente in quell’immenso quadro, e la sua voce, mentre riprendeva a parlare, perdeva qualcosa della consueta sonorità.

    — Non mi sembrate sodisfatto, don Fernando, di questa che per molto tempo deve essere la nostra dimora o abitazione, come più comunemente si direbbe. Che cosa vi dispiace?

    — Immaginavo tutto più grande — rispose il ragazzo dopo un momento.

    — Più grande? — ribattè don Ramiro. — Non era granchè maggiore la Santa Maria, con la quale vostro padre scoprì le Nuove Indie, or sono dieci anni.

    — Solamente ora — aggiunse il ragazzo pensoso — misuro tutto l’ardimento dell’Ammiraglio.

    Don Ramiro Sulis alzò ed allargò le braccia, come accennando a una grandezza, che invece non si poteva misurare.

    Il vento rinfrescava e la Capitana prendeva a rollare lentamente. Quel movimento non avrebbe dovuto entrare nella prima lezione di nomenclatura, e non piaceva affatto al professore. Perciò don Ramiro Sulis, abbozzato un saluto, volse le spalle e si avviò verso il castello di poppa, oscillando come un nero pendolo spaesato.

    Fernando Colombo rimase sul ponte, le braccia appoggiate sulla murata.

    Dunque era vero, incredibilmente vero: navigava con suo padre verso l’Oceano. Quell’onde che battevano sotto il bordo si sarebbero prolungate all’infinito. Anche a lui era concessa la vita del marinaio, fuori dalla mollezza e dalla gravità della corte.

    Sì, don Giovanni era stato buon compagno dei suoi paggi, e quando se ne era andato così giovane, la Regina Isabella aveva avuto per lui e per il fratello Diego, aggregati allora alla sua casa, schietta benevolenza. Ma il Re, se raramente li avvicinava, non nascondeva di tenerli in uggia, con occhi beffardi e gelide parole; ma ogni giorno essi dovevano avvertire la trama dell’invidia, dell’avarizia, dell’odio, che si tesseva intorno al padre loro e ne minacciava la gloria. Il cielo azzurro di Granata, le meraviglie dell’Alhambra, coi verdi aranceti e le fresche fontane tra i merlati archi moreschi, non bastavano a placare o a distrarre l’ansietà.

    Tre anni prima, nel ’499, i nodi della trama si erano fatti serrati. Giungevano brutte notizie dalla Spagnuola, che allora Colombo, di ritorno da un viaggio lungo la terraferma, faticosamente governava con suo fratello Bartolomeo: complotti di coloni, sedizioni di indigeni, ruberie e spargimento di sangue. Molti erano venuti via dalla Spagnuola senza avere avuto il pagamento del loro soldo; non per malvolere delle autorità dell’isola, ma perchè le casse del governatore erano sprovviste, o perchè essi se ne erano andati clandestinamente, come fuggiaschi. Facevano ressa a Granata, e quando il Re usciva dall’Alhambra, lo circondavano gridando: «Paga! Paga!». Peggio, se vedevano fuori della corte Fernando e il suo fratello Diego: erano allora dileggi e insulti; li seguivano ostinatamente e urlavano: «Ecco i figliuoli dell’Ammiraglio dei moscerini, di colui che ha trovato terre di vanità e d’inganno, per miseria e sepoltura dei gentiluomini castigliani!». I due paggi cercavano scampo oltre le porte della reggia.

    Poi era venuta l’estate della disgrazia, in quell’ultimo anno del secolo. Il partito avverso a Colombo, di cui era anima il vescovo de Fonseca, potente capo dell’Ufficio delle Indie, aveva avuto il sopravvento: un messo reale, Francesco de Bovadilla, commendatore dell’Ordine di Calatrava, era stato mandato alla Spagnuola con l’incarico di inquisire su tutto. Non si seppe bene quanto questo giudice avesse fatto. Si sparse la voce che l’Ammiraglio e i suoi due fratelli, Bartolomeo e Diego, fossero stati a lungo carcerati e tornassero in catene. Era vero: Colombo sbarcava prigioniero a Cadice verso la fine del novembre 1500, e soltanto un mese dopo i Sovrani ne ordinavano la scarcerazione.

    Pochi giorni prima di Natale, il padre era giunto a Granata, per una udienza reale, e riabbracciava i suoi figli. Quanto mutato! Un vecchio, sebbene non avesse ancora cinquant’anni: solo nell’alta fronte rimaneva intatta la luce della fede. Fu un lungo discorrere, narrare, confidarsi.

    Granata suscitava in Colombo i ricordi più ardenti della sua vita avventurosa. Lì era stato deciso il viaggio verso le terre ignote, dopo dieci anni di attesa. Quelle ultime trattative erano incominciate nel campo militare di Santa Fé antistante alla città assediata, fino dall’agosto del 1491. Il 2 gennaio 1492 cadde Granata, estremo baluardo della potenza saracena in Spagna, e si ripresero le discussioni tra quelle mura dominate dagli stendardi di Aragona e di Castiglia; alla fine, il progetto veniva accolto, ma si respingevano le richieste di Colombo, giudicate esorbitanti. Pareva che non vi fosse più niente da fare o da tentare. Il Genovese, congedato dai Re, era un’altra volta solo, solo con la sua idea. Lasciava Granata per recarsi a Córdova, dove si proponeva di salutare i figli prima di passare in Francia, a cercare l’aiuto del re Francesco. Ed ecco il meraviglioso mutamento preparato dalla Provvidenza. Il viandante era appena alla Porta dei Pini, fuori di Granata, che un messo della Regina lo raggiunse e volle ricondurlo al Campo di Santa Fé: là il suo piano e tutto quanto aveva chiesto ricevevano completa accettazione. Da quel punto, da quell’ora incominciò il viaggio della Scoperta.

    I ragazzi ascoltavano sospesi. Dinanzi ai loro occhi si svelavano poi le meraviglie dell’ultima navigazione oceanica: l’esplorazione della costa di Paria, favoloso paese delle perle, sull’orlo di un nuovo continente. La malvagità, il tradimento degli uomini restavano in ombra, mentre Colombo magnificava le opere di Dio.

    Durante quei racconti, Fernando aveva sentito avvampare il desiderio che si maturava da tempo: seguire il padre sull’Oceano, nel vero campo della sua gloria, fuori, lontano dagli opprimenti intrighi della corte! Che importava se era un ragazzo? Sui vascelli reali navigavano mozzi poco maggiori di lui. Il padre stesso aveva sentito la sua vocazione, mentre era ancora quasi un fanciullo. È vero, amava i libri, massimamente quelli che narrano le belle favole dell’antichità; amava anche la silenziosa ombra delle chiese e la serena pace dei chiostri. Sapeva che il maggiorasco avrebbe garantito al fratello la successione nei titoli di vicerè, governatore, ammiraglio, e la massima parte delle rendite ricavate dalle Indie secondo le capitolazioni stipulate dai Sovrani; e a lui era sembrata desiderabile anche una sorte minore: vivere nella pace di una biblioteca, con la compagnia di grandi anime, o tra le mura sicure di un convento, fortezza contro gli assalti del mondo; ma ora le parole del padre suscitavano la smania di vivere una favola nuova, che i poeti avrebbero cantato un giorno, l’idea di conquistare la santità, portando la Croce nelle terre sconosciute e nelle anime ignare.

    Ma il giro dei mesi non aveva recato un sollecito avverarsi delle speranze. Il padre si dibatteva per ottenere il riconoscimento dei suoi diritti. La Regina, fino dalla prima udienza, era stata verso di lui oltremodo benigna; vedendolo così affranto, in ginocchio dinanzi a lei, l’aveva risollevato con le sue mani, e dai fieri occhi erano scese le lagrime. I Sovrani dicevano che il Bovadilla aveva oltrepassato le loro intenzioni; Ferdinando affermava che Co lombo sarebbe reintegrato nel suo grado. Ma intanto il commendatore di Calatrava era ancora vicerè e governatore; e quando poi bisognò rimuoverlo per la sua pessima amministrazione, non si pensò già a restituire all’Ammiraglio gli usurpati uffici e invece si compì la sostituzione con Niccolò Ovando.

    Allora il padre, pur senza rinunziare ai suoi diritti, chè gli sarebbe sembrato di cedere alle pretese del demonio, si era rifugiato più in alto, dove le miserie degli uomini non potevano seguirlo. Meditava un nuovo viaggio, che sarebbe stato il più ardito; e intanto, ad avvalorare la sua missione come voluta da Dio, aveva ripreso le note raccolte in quegli anni, citazioni e interpretazioni delle Sacre Scritture, che documentavano la necessità provvidenziale della Scoperta per la diffusione della vera fede; un dotto amico, il novarese Gaspare Gorricio, monaco di Las Cuevas in Siviglia, le riordinava e completava, per formare quell’opera singolare che fu il Libro delle profezie.

    Finalmente, nell’ottobre del 1501, Colombo aveva presentato ai Sovrani il piano del nuovo viaggio, ottenendone l’approvazione. La sua anima, prima ancora della nave, si disancorava, ritrovava la libertà nelle solitudini dell’oceano.

    Padre e figlio in quei giorni si intesero. Al navigatore glorioso non sembrò folle il giovanile desiderio, nel quale pareva rinverdire la sua antica speranza. Prima si era compiaciuto, con qualche vanità, che i suoi figli, i nipoti del povero cardatore di lana, fossero paggi dell’Infante e della Regina di Spagna; ora si rallegrava nel riconoscere come uno di loro volesse di cortigiano farsi marinaio.

    In quello stesso ottobre, Colombo era partito da Granata per Siviglia, dove la spedizione doveva essere allestita, a traverso le avverse lungaggini dell’Ufficio delle Indie. Fernando l’avrebbe raggiunto nel grande porto alla vigilia del levar l’àncora, accompagnato dal suo precettore don Ramiro Sulis.

    Ora la Capitana correva a piena velatura; Fernando guardava il fremente rompersi delle onde e l’aprirsi di quella ribollente strada che conduceva verso l’ignoto.

    II

    «PER SEGUIR VIRTUTE E CONOSCENZA»

    L ’Ammiraglio, uscito allora dalla sua camera, disse:

    — Sedete, signori.

    Tutti presero posto intorno alla lunga tavola, rischiarata dalla luce sospesa e oscillante. Fernando rimase in piedi, a fianco di suo padre.

    La saletta era cosi angusta, che dodici persone vi formavano una folla. Si sedeva gomito a gomito; scintillío di occhi e di armi, pennellate di colori vivi sovrapposti all’ombra. Gli uomini, diversi di età e di aspetto, formavano un blocco e davano l’idea di una forza rinchiusa

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