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Una battaglia per l'impero
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Una battaglia per l'impero
E-book634 pagine9 ore

Una battaglia per l'impero

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Info su questo ebook

Autore del bestseller Le aquile della guerra

202 A.C. Dopo sedici sanguinosi anni di guerra, Annibale Barca è sull’orlo della sconfitta. Nelle pianure di Zama, in Africa, Felice e suo fratello Antonio attendono insieme alle formidabili legioni romane, pronti per sferrare l’attacco decisivo. La vittoria è cruciale per ristabilire il predominio di Roma su tutto il mondo. Nel frattempo, il giovane senatore Flaminino intende affermarsi come uno dei più grandi generali della Repubblica. I suoi sogni di grandezza mirano alla conquista della Macedonia e della Grecia, mai soggiogate prima d’ora. Ma nel nord della Grecia, Filippo V di Macedonia non intende perdere il suo regno. Ha bisogno di un esercito abbastanza forte da sconfiggere i Romani e ristabilire l’antica gloria del suo impero. Demetrio, un giovane rematore, sogna di combattere nelle falangi. Affamato, assetato e bruciato dal sole, non sa che un incontro casuale potrebbe cambiare il corso della sua vita. Flaminino non si fermerà davanti a nulla per mettere Filippo V in ginocchio. Quello che non sa è che il sole della Macedonia non tramonterà prima di un ultimo, accecante lampo glorioso.

Bestseller del Sunday Times

Gli eroi, le imprese, le battaglie che portarono Roma alla conquista della Grecia

«Ben Kane è la nuova stella nascente del romanzo storico.»
Wilbur Smith

«Ben Kane è un maestro della storia militare romana.»
The Times

«Ti aggancia dalla prima pagina e non ti lascia più andare.»
Harry Sidebottom

«Uno degli scrittori più bravi e ambiziosi della nostra generazione.»
Manda Scott
Ben Kane
è nato in Kenya e si è poi trasferito con la famiglia in Irlanda. Laureato in Veterinaria, è un grande appassionato di storia. È considerato uno dei massimi autori di romanzi storici contemporanei. La Newton Compton ha già pubblicato la trilogia composta da Le aquile della guerra, Nel nome dell’impero e Aquile nella tempesta. Con Una battaglia per l’impero ha inizio una nuova, entusiasmante serie.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2018
ISBN9788822727220
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    Anteprima del libro

    Una battaglia per l'impero - Ben Kane

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Breve nota sulle città-stato greche

    Prologo

    Parte prima

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Parte seconda

    Capitolo 9

    capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Parte terza

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Parte quarta

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Epilogo

    Nota dell’autore

    Glossario

    en

    2133

    Tutti i personaggi di questo romanzo sono immaginari, e qualunque analogia con persone reali, esistenti o esistite, è puramente casuale.

    Titolo originale: Clash of Empires

    Copyright © Ben Kane, 2018

    Maps copyright © Neil Gower 2018

    The moral right of Ben Kane to be identified as the author of this work has been asserted in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act of 1988.

    Traduzione dall'inglese di Francesca Noto

    Prima edizione ebook: gennaio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2722-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Ben Kane

    Una battaglia per l'impero

    omino

    Newton Compton editori

    A Sam Wood e Dylan Reynolds

    ciclisti, gentiluomini e, dall’Hannibal Trail del 2016, anche buoni amici

    Sarebbe meglio che i Greci non combattessero mai tra loro, ma parlassero con un solo cuore e una sola voce, respingessero insieme i barbari invasori e fossero uniti nel proteggere se stessi e le loro città. Se un’unione del genere non si può ottenere, vi consiglio di prendere tutte le precauzioni necessarie alla vostra sicurezza, riguardo alla grandezza di questa guerra nell’ovest. È evidente che, chiunque vinca tra Romani e Cartaginesi, i vincitori non si accontenteranno di regnare su Italia e Sicilia. Di certo verranno qui, e cercheranno di estendere le proprie ambizioni oltre i confini della giustizia. Perciò, vi imploro di prendere tutti delle precauzioni contro questo pericolo, e mi riferisco in particolar modo al re Filippo.

    Agelao di Etolia, conferenza di Naupatto, 217 a.C.

    Breve nota sulle città-stato greche

    L’antica Grecia conteneva una pletora di regioni e città-stato dai nomi molto simili. La maggior parte dei lettori conosce sicuramente Atene, Sparta e la Macedonia, ma non necessariamente l’Etolia, l’Acaia, l’Atamania e l’Acarnania. Le Termopili e Maratona vi saranno familiari, ma è più improbabile che i lettori moderni conoscano le città dell’Ellesponto e gli insediamenti montani tra la Macedonia e l’Illiria. Mi ci è voluto un po’ di tempo per familiarizzare con queste entità politiche e geopolitiche, perciò, per rendervi più piacevole la lettura di questo romanzo, vi consiglio di passare prima un po’ di tempo a osservarne le mappe.

    Ben Kane

    mappa1mappa2

    Prologo

    Al largo della costa meridionale d’Italia

    Inizio dell’estate, 215 a.C.

    Era una splendida serata, tiepida e senza vento; il mare sembrava una tavola di bronzo battuto. Una dozzina di piccoli pescherecci navigava verso la terraferma, e uno stormo di gabbiani, con le loro tipiche strida, li seguiva. La luce del tramonto si rifletteva sugli elmi dei soldati sulla strada costiera. Nel cielo, a ovest, le montagne del Bruzio erano ombre scure contro la sfera dorata del sole che scendeva lenta, sempre di più. A nord-est, da qualche parte oltre la foschia dovuta al caldo, si trovava la città di Tarentum. Più al largo, uno squadrone di triremi romane passava attraverso la grande baia squadrata che si estendeva all’interno delle coste dell’Italia meridionale.

    Le navi avanzavano in due file da cinque, e il vascello centrale nella prima fila era comandato dall’ammiraglio Publio Valerio Flacco. L’uomo non aveva fretta: la pattuglia di tre giorni, fino alla città di Locri per poi tornare indietro, era trascorsa senza eventi significativi, e avrebbero raggiunto il porto di Tarentum entro sera. Flacco aveva deciso che il suo rapporto e altri compiti simili avrebbero potuto attendere fino al giorno seguente. Dopo un bagno e un cambio di vestiti, non vedeva l’ora di trascorrere la serata in compagnia della sua amante, la vedova di un nobile caduto a Canne.

    Flacco era un uomo basso e determinato. La pappagorgia e la calvizie incipiente che mostrava non potevano fare nulla per sminuire la sua autorità, accentuata da un paio di vivaci occhi azzurri. Erano stati loro, ne era certo, insieme al suo alto rango e alla sua educazione da cittadino, ad avergli fatto conquistare la vedova. Tarentum non era una città sperduta nel nulla, ma chi veniva da Roma aveva un’aria più acculturata; Flacco sapeva come sfruttare quell’invisibile superiorità fino all’ultima goccia. Aveva funzionato sulla sua futura amante la prima volta che si erano incontrati, a un recente banchetto in onore del suo arrivo in città. Accennò un sorriso divertito. Erano andati a letto quella stessa notte.

    In carne al punto giusto, aveva una pelle morbida e profumata e dei seni deliziosi. E i suoi gusti a letto, ampi e insaziabili, erano una fonte infinita di sorpresa e piacere. Flacco si costrinse a mettere un freno alla fantasia; come i suoi ufficiali, aveva una tunica piuttosto corta, quando era in mare, invece della lunga toga adatta al suo rango.

    Dalla sua posizione accanto al timoniere, poteva osservare tutta la lunghezza della nave. Una passerella centrale collegava la prua alla poppa. Da entrambi i lati, tre file di rematori erano sulle loro panche, i corpi e le braccia tese che si muovevano avanti e indietro in un ritmo perpetuo. Sul davanti, un flautista suonava il suo strumento per dare il ritmo. Gli uomini che controllavano i rematori, posizionati a distanza di una ventina di passi l’uno dall’altro sulla passerella, battevano a tempo i loro bastoni coperti di metallo sulle assi. Al momento, il ritmo richiedeva una velocità costante che i rematori potevano mantenere per ore.

    Flacco si sentiva estasiato all’idea che, con una singola parola, avrebbe potuto far muovere l’intera squadra a una velocità ben maggiore. L’aveva fatto altre volte, nel corso delle esercitazioni, e, per gli dèi, gli scaldava il sangue nelle vene. Sarebbe stato diverso, certo, se l’avesse dovuto fare per avvicinare una flotta nemica: sarebbe stato al tempo stesso eccitante e terrificante. Quanto terrificante, Flacco non ne aveva idea, ma immaginare il rostro di bronzo di una nave nemica piantarsi nello scafo della sua imbarcazione era già sufficiente a stringergli lo stomaco in una morsa. Non aveva alcuna intenzione di terminare la sua esistenza affondando in una tomba d’acqua, né risucchiato sotto a un vascello di passaggio, o infilzato in mare dai nemici. Invece, era un pensiero esaltante quello di far affondare una nave cartaginese, oppure passare a tutta velocità accanto a una trireme nemica, spezzandone i remi, e trasformandola in una massa inutile da abbordare a piacimento.

    «Vela!».

    L’inaspettato avvertimento della vedetta attirò l’attenzione di tutti, compreso Flacco. I pescherecci, numerosi e inoffensivi, non meritavano certo un grido del genere. I mercantili sì, ma era ormai quasi il tramonto, e di sicuro tutte le panciute navi adibite al trasporto di merci dovevano già essere ancorate al sicuro in un porto o vicino alla riva.

    «Un’altra vela!», esclamò la vedetta. «Tre, quattro… ne vedo cinque, davanti a noi!».

    Flacco si affrettò a raggiungere la prua, con il capitano alle calcagna. Uno degli uomini al controllo dei rematori lo guardò, e lui scattò: «Mantieni il ritmo finché non ti ordinerò altrimenti, sciocco!».

    Procedette oltre, mentre le grida delle vedette delle sue altre navi facevano aumentare il suo senso di disagio.

    Sembrava improbabile che fossero cartaginesi. Dalle enormi vittorie navali di Roma nel corso dell’ultima guerra, pensò Flacco, quei gugga avevano evitato in tutti i modi di incrociare le flotte romane. Potevano essere navi da guerra macedoni, ma gli sembrava altrettanto improbabile. Il re Filippo aveva attaccato l’isola di Cefallenia, due anni prima, certo, e si diceva che avesse mire sull’Illiria, ma non avrebbe mai avuto l’ardire di inviare delle navi nelle acque italiane. Flacco scartò dunque quell’ipotesi.

    Raggiunse la vedetta, un ragazzo magro con i capelli scompigliati dal vento. «Dove?».

    Il giovane gli rivolse un saluto nervoso e indicò pochi gradi più a dritta. «Laggiù, signore. A circa due miglia di distanza».

    Flacco si portò una mano agli occhi. In lontananza, stagliati contro il mare scuro, si vedevano tre quadrati bianchi. Vele. Sentì il cuore palpitare. Attese, notandone poco dopo altre due. Le navi stavano puntando verso sud-est, in direzione della penisola che formava il tacco dell’Italia, e considerò che ogni possibilità di inseguirle con successo, una volta che l’avessero aggirata, sarebbe svanita nel nulla.

    «Dobbiamo inseguirle, signore?». Il capitano, un vecchio lupo di mare con le gambe storte che Flacco aveva imparato ad apprezzare, era lì al suo fianco.

    «Sì. Non sono navi romane, questo è certo. Sarebbe meglio scoprire cosa ci fanno in queste acque».

    «Con il sole alle spalle, signore, non si accorgeranno di noi finché non saremo molto vicini». Il sogghigno del capitano rivelò una mezza dozzina di denti anneriti e spezzati. «E avremo un buon vantaggio su di loro, sì».

    Flacco annuì. «Bene».

    Il capitano fece un cenno al flautista. «Aumenta il ritmo!».

    Una melodia più rapida si fece sentire in risposta, e subito gli uomini che davano il ritmo si adeguarono. I rematori piegarono la schiena e tirarono, e nel giro di una decina di battiti, la velocità della trireme raddoppiò. Il rostro tagliò le onde, come se potesse avvertire il sentore di quelle nuove prede.

    L’inseguimento aveva avuto inizio.

    Alla fine, fu una faccenda ravvicinata. Le navi di Flacco erano arrivate a circa tre quarti di miglio dalle imbarcazioni che stavano inseguendo, prima che queste ultime si accorgessero di qualcosa. Restò incerto cosa avesse attirato la loro attenzione, a quel punto: il sole era così basso che se avessero guardato nella loro direzione ne sarebbero rimasti accecati. Tuttavia, di colpo la velocità delle cinque navi aumentò, facendosi simile a quella delle triremi romane.

    La terraferma era vicina, e il mare aperto oltre il promontorio ormai a portata di mano. Flacco prese la decisione e rischiò tutto.

    «A tutta velocità!», urlò.

    Era uno sforzo erculeo quello che stava chiedendo ai suoi rematori, per poter tentare l’inseguimento con la distanza che ancora li separava dalle navi avversarie, ma in fondo non c’era niente da perdere. Nel peggiore dei casi, le navi sarebbero riuscite a fuggire, considerò Flacco, e i suoi uomini avrebbero dovuto affrontare un lungo rientro a Tarentum sotto le stelle. Ma nella migliore delle ipotesi, sarebbero riusciti a catturare le navi inseguite, e lui avrebbe scoperto perché avevano tentato la fuga come cervi spaventati.

    In realtà, quell’inseguimento a rotta di collo fu breve. Due delle navi inseguite fuggirono, ma gli equipaggi delle altre non erano all’altezza dei rematori di Flacco. Vedendo la situazione critica dei compagni, le prime due navi si fermarono sulle onde. Per quanto fossero pesanti, e in inferiorità numerica rispetto alle sue triremi, Flacco non volle correre rischi. Inviò quattro navi a circondare le prime due, e con le cinque che gli rimanevano e il suo stesso vascello, circondò le più lente.

    Qualche comando urlato, e le tre navi mercantili tirarono a bordo i remi. Non si vedevano uomini armati sui loro ponti, e la preoccupazione iniziale di Flacco lasciò il posto a una calma spavalderia. Il suo piano era andato a buon fine; era improbabile che quelle navi opponessero resistenza. Aveva tutto il tempo di scoprire cosa ci facessero lì e di trattarle di conseguenza, multando i capitani o confiscando le navi, e di raggiungere comunque Tarentum prima del sorgere della luna. La sua serata con l’amante non era a rischio, e per lui questa era un’immensa soddisfazione.

    Sempre più carico di aspettativa, Flacco osservò i rematori che affiancavano la nave al mercantile più grande, un vascello panciuto dalla vela di tela squadrata. I remi a babordo tremarono gocciolanti, mentre venivano tirati dentro. Le navi si sfiorarono, con le fiancate che strusciavano appena; dei grappini furono lanciati sul ponte e legati. I marinai del vascello abbordato si agitarono, tesi e spaventati. Vicino all’albero maestro, un piccolo gruppo di uomini riccamente vestiti si stava scambiando sussurri nervosi.

    «Inviate un gruppo di uomini a bordo della nave», ordinò Flacco. «Scoprite chi è al comando e portatelo da me».

    La passerella fu abbassata con un tonfo, e un gruppo di soldati della marina la superò, con in testa un optio.

    Quattro di loro tornarono poco dopo, conducendo con loro un uomo basso e tozzo. «Dice di essere il comandante, signore», dichiarò l’optio. Con una spinta non molto gentile, fece avvicinare il prigioniero a Flacco. Era un uomo di mezza età, con la barba curata, e aveva uno sguardo intelligente. L’himation ricamato che indossava, gli anelli d’oro e l’atteggiamento sicuro lo identificavano come un uomo ricco. Si inchinò di fronte a Flacco.

    «Senofane di Atene, al tuo servizio, signore». Parlava un buon latino, sebbene con un forte accento greco. «Posso sapere il tuo nome?»

    «Publio Valerio Flacco, ammiraglio». Flacco studiò il volto di Senofane, alla ricerca di qualche traccia di astuzia, ma non ne trovò. Non che significasse qualcosa. In tempi di guerra, pensò, un uomo non poteva fidarsi di nessuno tranne di chi si era dimostrato degno della sua fiducia. E l’ateniese non era partito con il piede giusto. «Sei scappato dalle mie navi. Perché?».

    Senofane agitò le dita. «Le mie scuse, ammiraglio. Pensavamo che foste pirati. Venendo voi da ovest, e con il sole alle spalle, abbiamo pensato che voleste attaccarci. C’è qualche arma, sulle nostre navi, ma non si tratta certo di imbarcazioni da guerra. La fuga era la mia unica opzione». Fece un sorriso nervoso. «Non che poi siamo fuggiti così lontani. I tuoi rematori sono degni di lode».

    Flacco ignorò il complimento. «Cosa ci fate in queste acque?».

    L’espressione di Senofane si fece più sicura. Si avvicinò a Flacco, ma l’optio, guardingo, lo afferrò per una spalla. Senofane alzò le mani. «Non voglio fare alcun male all’ammiraglio».

    «E allora stagli lontano, selvaggio», ringhiò l’optio.

    Un lampo di rabbia passò sul viso dell’uomo, che tuttavia offrì a Flacco un sorriso sicuro. «Vorrei parlarti in privato, senza orecchie indiscrete in ascolto».

    «Di’ quello che devi dire», ribatté Flacco, già stanco del gioco che Senofane stava tentando di portare avanti, quale che fosse. A Tarentum, la sua amante lo stava aspettando.

    Con un’occhiata cupa all’optio, Senofane borbottò: «Sono un emissario di Filippo di Macedonia». Notando lo stupore di Flacco, soggiunse in fretta: «Essendo io neutrale, il re ha pensato che mi sarebbe stato più semplice farmi ascoltare dai consoli e dal Senato; il mio scopo è far stipulare un patto di amicizia tra lui e il popolo romano».

    Quella era una risposta che Flacco non si era aspettato. «Una strana notizia, la tua. Filippo non è mai stato amico della Repubblica, negli ultimi anni».

    «Si tratta soltanto di un malinteso, niente di più». Il tono di Senofane sembrava sincero.

    Ma era difficile considerare l’invasione di Cefallenia un malinteso, pensò Flacco. «Non sapevo di un’ambasciata macedone in viaggio verso Roma».

    «Non sai nulla della mia missione, ammiraglio, perché non siamo riusciti a raggiungere Roma. Dopo essere sbarcati al tempio di Giunone presso Crotone, abbiamo viaggiato via terra verso Capua. Abbiamo incontrato delle truppe romane e abbiamo parlato con il pretore Levino. È stato un ospite generoso, e ci ha fornito una scorta che ci guidasse lungo le strade più sicure, per proteggerci dall’esercito di Annibale».

    Flacco cercò di nascondere la sorpresa. Levino era davvero un pretore che agiva in Campania. Era improbabile che Senofane sapesse di lui, a meno che non l’avesse davvero incontrato, ma questo non spiegava perché lui stesso non fosse a conoscenza di un’ambasciata macedone e della sua strana missione. Un’eventuale notizia di una possibile alleanza con Filippo, che sarebbe stata la benvenuta, dopo il disastro di Canne dell’anno precedente, si sarebbe diffusa in fretta, pensò Flacco. Eppure, la storia di Senofane non era del tutto impossibile.

    «Siete stati attaccati dai Cartaginesi, immagino. È per questo che non siete riusciti ad arrivare a Roma?».

    Senofane sembrò teso. «Sì. La cavalleria numidica è letale come raccontano. Diversi uomini della nostra scorta sono rimasti uccisi, e il comandante ha deciso che non era sicuro proseguire. Quando siamo tornati all’accampamento di Levino, ho chiesto altro aiuto, ma invano. Tutte le truppe erano necessarie per combattere il nemico, o così diceva. E senza protezione militare, non avevamo alcuna possibilità di raggiungere Roma; sono stato costretto ad abbandonare la missione. Stiamo tornando in Macedonia».

    «Hai le prove delle intenzioni di Filippo?»

    «Certamente. I documenti sono in uno scrigno nella mia cabina. Non hai che da dirmelo, e li farò portare qui».

    Flacco si massaggiò il mento. Le precedenti ostilità tra Roma e la Macedonia non avrebbero certo impedito a Filippo di cercare comunque un’alleanza. Consapevole che l’arrivo ormai rapido della notte avrebbe ritardato di parecchio il suo ritorno a Tarentum, e alle braccia aperte della sua amante, Flacco prese una decisione. Se i documenti di Senofane fossero sembrati autentici e una perquisizione della sua nave non avesse portato altro alla luce, non avrebbe avuto motivo di trattenere ancora l’ateniese.

    «Fammi dare un’occhiata».

    Soddisfatto, Senofane annuì. Portando una mano alla bocca, chiamò il più vicino dei suoi marinai e gli diede un ordine.

    Flacco sentì tornare il buonumore. «Del vino?», domandò.

    «Ne sarei onorato, ammiraglio». L’inchino di Senofane fu molto più profondo del precedente.

    Avevano già brindato e bevuto, quando i documenti arrivarono. Flacco lanciò un’occhiata critica alle due pergamene, una delle quali era in cartaginese e l’altra in greco. Le parole della seconda sembravano attestare quanto affermato da Senofane; immaginò che la prima dicesse le stesse cose. C’era un sigillo macedone con una firma decisa di Filippo in persona, ed entrambi sembravano autentici. Confermando la propria decisione, Flacco fece cenno di portare altro vino. Sorridendo, Senofane accettò di farsi riempire la coppa.

    «Speriamo che il vostro prossimo tentativo di raggiungere Roma vada a buon fine», commentò Flacco, salutando Senofane con un cenno della propria coppa. «A una lunga e duratura amicizia tra la Repubblica e la Macedonia».

    «Che gli dèi lo permettano», replicò Senofane, replicando il gesto.

    Una volta vuotate le coppe, Flacco lanciò uno sguardo all’optio. «Scorta questo gentiluomo alla sua nave. Controlla che i nostri non abbiano trovato nulla di importante e falli tornare ai loro posti».

    «Grazie per la tua ospitalità», intervenne Senofane.

    «Che Nettuno protegga le vostre navi», replicò Flacco.

    «E che Poseidone protegga le vostre».

    «Capitano, sta’ pronto a muoverti», ordinò Flacco.

    Senofane aveva appena messo un piede sulla passerella quando sulla sua nave qualcuno prese ad agitarsi. Delle voci si levarono da sottocoperta. Due soldati corsero sul ponte.

    «Abbiamo trovato qualcosa, signore!», gridarono, rivolti all’optio. «O meglio, qualcuno», soggiunse il più alto dei due.

    Flacco corse al parapetto. «Che succede?»

    «Abbiamo scoperto tre uomini in fondo alla stiva, signore», replicò il soldato più vicino. «Dietro a un mucchio di anfore, era lì che si nascondevano. Se uno di loro non avesse starnutito, non li avremmo mai trovati».

    Flacco spostò lo sguardo su Senofane. Il Greco era già a metà della passerella, e si stava muovendo molto più rapido.

    «Fermati, Senofane!», sbottò Flacco. «Riportalo qui, optio». E poi, ai soldati: «Portateli su. Subito!».

    Ben presto, tre uomini dalla pelle scura, che continuavano a sbattere le palpebre, confusi, si ritrovarono sul ponte di fronte a Flacco. Con un’espressione di cupa soddisfazione, l’optio spinse Senofane lì accanto. L’ateniese ignorò i nuovi arrivati, e i sospetti di Flacco tornarono più di prima. Con quella pelle scura, i ricci unti e le lunghe tuniche, ricordavano molto tutti i Cartaginesi che aveva avuto modo di incrociare. «Ebbene, Senofane?».

    Si fissarono in silenzio.

    «Sono passeggeri paganti», ammise il Greco. Un notevole rossore gli imporporava gli zigomi. «Sapevo che non avrebbe dato una buona impressione avere a bordo tipi del genere, se fossimo stati fermati da navi romane».

    «E di che tipi stiamo parlando?», domandò Flacco, sbuffando con disprezzo.

    Silenzio.

    «Allora?»

    «Cartaginesi».

    Mentre Senofane rispondeva, Flacco di colpo capì. «Perquisite quei gugga».

    Nel giro di una ventina di battiti, si ritrovò con altri documenti in mano, trovati sotto alla tunica del più anziano dei Cartaginesi, un uomo dall’aria fiera e dallo sguardo da falco. Ma ben presto perse la sua compostezza sotto una gragnuola di colpi da parte dell’optio e dei suoi uomini; Senofane cominciò a strillare come un bambino sculacciato quando anche lui fu picchiato. Flacco, che con un cenno aveva dato inizio a quell’aggressione, non se ne curò. Cominciò a leggere faticosamente i documenti in greco, con la punta della lingua che sporgeva dalle labbra. Più sconvolto di quanto credesse possibile, rilesse tre volte la lettera, prima di cercare di comprenderne appieno il significato.

    Flacco cercò lo sguardo del capitano. «Cambia rotta. Andiamo a Roma».

    Il vecchio lupo di mare sembrò sorpreso. «A Roma, signore?»

    «Mi hai sentito bene. Fai mandare un messaggio alle altre navi. Tre di loro verranno con noi. Le altre dovranno tornare a Tarentum con i mercanti».

    «Sì, signore». Il capitano urlò qualcosa ai guardiani dei rematori, che a loro volta fecero risuonare i loro ordini. I rematori da un lato della nave sollevarono all’istante i remi dall’acqua, mentre quelli dall’altro li affondarono, facendo girare l’imbarcazione verso ovest.

    Flacco restò a guardare, impaziente. Avrebbe voluto ordinare di procedere alla massima velocità, ma non aveva alcun senso sfiancare i rematori. Nonostante l’urgenza, la capitale era ad almeno due giorni di distanza.

    «Stiamo andando a Roma, signore?», domandò l’optio, affiancandolo.

    «Sì».

    «Posso chiedere perché, signore?»

    Non c’era nessun’altra autorità con cui l’optio potesse parlare, a bordo della nave, decise Flacco, e poi quella notizia si sarebbe diffusa in lungo e in largo per l’Italia prima della fine del mese. «Devi tenere per te queste informazioni».

    «Sì, signore. Lo giuro sulla mia vita», rispose l’optio.

    «Filippo vuole allearsi con Annibale».

    L’optio sembrò confuso.

    «Eccone la prova!», esclamò Flacco, brandendo la lettera.

    Alla luce del sole ormai al tramonto, le parole scritte sulla pergamena assunsero una tonalità rosso sangue.

    Un presagio peggiore di quanto Flacco potesse immaginare.

    parte prima

    Capitolo 1

    Tredici anni dopo…

    Nei pressi della città di Calcedonia, sulle rive della Propontide, tarda estate del 202 a.C.

    A Demetrio non piaceva nascondersi tra gli alberi, ma vicino alle tende era facile essere visti. Il furto era un’occupazione pericolosa. Era stato colto sul fatto e picchiato con violenza un paio di volte; adesso controllava sempre la situazione, prima di rischiare la pelle. Lì, sul limitare dell’accampamento del re Filippo, in mezzo ai cespugli di sempreverdi e alle querce da sughero, avrebbe potuto scegliere il momento giusto. Le uniche persone in vista erano soldati in cerca di un posto tranquillo per svuotarsi le viscere, e degli uomini con quel pensiero in mente avrebbero prestato ben poca attenzione a un giovane vagabondo con un chitone logoro addosso. L’avrebbero considerato uno dei tanti opportunisti che seguivano la flotta macedone lungo la Propontide.

    Demetrio non era uno sciacallo, ma un rematore su una delle navi di Filippo. Non una gloriosa trireme, con tanto di rostro scintillante e vela dipinta, né uno degli agili lembi. La sua casa galleggiante era un vascello da trasporto panciuto e basso sulla superficie dell’acqua. Non era certo la sua carriera ideale, dèi, no. Fin da bambino, Demetrio aveva desiderato diventare un soldato che combatteva nella possente falange. Ora, quella prospettiva gli sembrava più difficile da raggiungere della cima dell’Olimpo nel cuore dell’inverno. Sarebbe potuto accadere, pensava, se Ares non gli avesse voltato le spalle, e se gli altri dèi non avessero cospirato contro di lui.

    Suo padre, un pastore, era stato povero, ma aveva servito con orgoglio nell’esercito come fromboliere, da giovane. Aveva insegnato al figlio l’arte della caccia e l’aveva mandato a imparare il pancrazio e la lotta con i più ricchi figli degli agricoltori. Snello e nervoso, forte per il duro lavoro con le greggi, aveva imparato in fretta, il che era stato un bene, perché i ragazzi più ricchi non mancavano occasione di prenderlo in giro. Testardo, aveva perseverato, pensando sempre alle parole di suo padre: con le giuste raccomandazioni, una volta che fosse cresciuto, sarebbe potuto diventare un falangista.

    Se solo suo padre non fosse morto, pensò Demetrio, mentre il dolore di quella perdita gli affondava dentro come la lama di un coltello. Ma era così: era stato ucciso da alcuni ladri di bestiame in una maledetta notte d’autunno di due anni prima. Rimasto orfano, poiché sua madre era morta quando lui aveva cinque anni, e senza niente in seguito al furto dell’intero gregge, era passato da figlio di un pastore a popolano senza terra in un attimo. L’inverno era vicino, e perfino i vicini più generosi non sarebbero stati in grado di sostentarlo per più di qualche giorno. Ben presto, era stato costretto a raggiungere Pella, la capitale della Macedonia, nonché la città più grande nei dintorni. Senza amici e del tutto solo, la sua vita in strada era stata orribile; era riuscito a sopravvivere lavorando al mercato e al porto.

    Nella primavera appena trascorsa, quando si era saputo che il re voleva muovere guerra in Propontide, sui vascelli mercantili c’era stato un improvviso bisogno di nuova manovalanza; i soldati di Filippo avevano bisogno di vaste quantità di provviste, per quella campagna, e di navi che le trasportassero. Stanco di vivere alla giornata e deciso a farsi strada nell’esercito, Demetrio aveva accettato di lavorare per il primo capitano che l’aveva preso a bordo, ed era per questo che ora si trovava ai margini dell’accampamento macedone, a migliaia di stadi da casa.

    Il suo sogno di diventare un falangista non era del tutto svanito, ma le sue fatiche giornaliere gli permettevano di pensarci molto poco. La fatica fisica, per un rematore, era immensa, e i guardiani non si risparmiavano dall’usare pugni e pedate. I rematori faticavano dall’alba al tramonto sotto i raggi roventi del sole. L’acqua era offerta in abbondanza, ma i periodi di riposo piuttosto rari. Dopo aver divorato il suo pasto ogni sera, Demetrio riusciva spesso ad avere appena la forza di sdraiarsi e avvolgersi nella sua coperta. Tuttavia, il sonno stentava ad arrivare, a causa di quei compagni che giravano per il ponte in cerca dei piaceri della carne. Dopo aver evitato per un soffio un’aggressione, subito dopo la partenza, aveva formato un’alleanza non ufficiale con un paio dei rematori più giovani. Non erano veri amici, e Demetrio lo sapeva perché entrambi gli avevano rubato del cibo, ma la notte dormivano vicini e avevano stabilito dei turni di guardia. In questo modo, poteva riposare un po’ di più di prima, ma si svegliava spesso, e teneva sempre un pugnale stretto in mano.

    Una promozione dalle panche dei rematori gli sembrava improbabile; le sue speranze di tornare a essere un pastore, un giorno, potevano essere più realistiche, ma gli ci sarebbe voluto almeno un anno, per mettere da parte il denaro necessario a procurarsi un nuovo gregge. Demetrio era concentrato, quindi, sul sopravvivere di giorno in giorno, riempiendosi lo stomaco tutte le volte che poteva. Aveva diciotto anni e stava ancora crescendo, e perciò aveva sempre fame. A bordo della nave, le razioni dei rematori erano di scarsa qualità e in porzioni misere. Rubare dalle provviste dell’esercito era necessario, e andava fatto ogni giorno. La mattina non si poteva fare, e Demetrio si era ormai abituato a tenersi lo stomaco vuoto e brontolante, in quelle ore, ma alla fine della giornata, al tramonto del sole, quando soldati e marinai erano stanchi, le opportunità si moltiplicavano. Aveva imparato a scegliere le tende in cui non c’era quasi nessuno, a parte i soldati di turno in cucina.

    Una di quelle si trovava a una cinquantina di passi di distanza, ed era la più vicina al punto in cui era nascosto tra gli alberi. Un treppiede di ferro era sistemato sopra un piccolo focolare, e dalla sua catena pendeva un paiolo. Demetrio si sentì riempire la bocca di saliva, al pensiero dello stufato che vi sobbolliva dentro. Nonostante fosse così invitante, però, era troppo rischioso. Correre con un contenitore pieno di liquido bollente era quasi impossibile, e sarebbe andata a finire male. Meno gustose, ma più facili da rubare, erano invece le focacce piatte posate a cuocere sulle pietre calde intorno al fuoco. Due o tre sarebbero bastate a saziarlo. E avrebbe potuto anche barattarne una con un compagno, in cambio di un pezzetto di carne o di una manciata di olive.

    La sua speranza che il soldato lì vicino potesse essere distratto da qualcuno era stata fino a quel momento disattesa, così, quando l’uomo mescolò con cura lo stufato e puntò a passo rapido verso la boscaglia, Demetrio sogghignò. Dèi, fate che debba cacare e non solo pisciare, pregò. Attese che l’uomo, un peltasta piuttosto robusto, si avvicinasse, prima di uscire dalla macchia d’alberi, fingendo di aggiustarsi il chitone come qualcuno che fosse appena stato alle latrine. Evitando il contatto visivo, Demetrio si incamminò tenendosi lontano dal fuoco e dalle focacce. Una volta vicino alle tende, si guardò con cautela alle spalle e vide che il peltasta era sparito tra gli alberi.

    Il ragazzo cambiò direzione. Venti passi, ed era accanto al treppiede. Il ricco aroma di carne di maiale ed erbe aromatiche gli fece venire l’acquolina in bocca. Afferrando il mestolo del cuoco, se ne riempì la bocca. Era il cibo più gustoso che avesse assaggiato da giorni. Lo stomaco ne avrebbe preteso ancora, ma il tempo non era dalla sua parte. Afferrò tre focacce, e poi, senza riuscire a fermarsi, anche un pezzo di formaggio. Infilò tutto sotto al chitone, e lasciò che fosse la cintura a trattenere il cibo. Lanciò uno sguardo agli alberi e notò con sollievo che non c’era ancora traccia del peltasta. Quando si fosse accorto del suo furto, pensò Demetrio, lui sarebbe già sparito da un pezzo.

    Fischiettando la musica preferita di suo padre, si allontanò tra le tende. Quella notte, avrebbe dormito a stomaco pieno.

    Non ci furono conseguenze, per quel suo crimine così ben eseguito. Il successo lo rese spavaldo. Invece di mangiare nella relativa sicurezza della nave, fece l’errore di fermarsi a circa uno stadio dal focolare del peltasta. Dopo aver divorato una focaccia, e ancora affamato, decise di assaggiare il formaggio.

    Una voce borbottò: «Cosa abbiamo qui?».

    Il fatto che avesse tirato fuori del cibo dai vestiti non lo metteva di certo in buona luce. Demetrio decise di fingere noncuranza. Si strinse nelle spalle, guardando il gruppetto di giovani frombolieri comparsi in mezzo alle tende alla sua sinistra e dichiarò: «Rubare dai propri compagni non è un crimine. Loro rubano da noi e viceversa. Sapete come va. Domani quei bastardi se ne andranno in giro a cercare di ricambiare il favore».

    Il giovane che aveva parlato per primo, un individuo dal petto ampio, con i capelli neri legati da un laccio di cuoio, scoppiò in una risata antipatica.

    «Solo che non mi sembra ci siano tuoi compagni, qui in giro, ratto di fogna. Noi ci accampiamo sempre nello stesso punto, ogni sera; e un uomo impara a riconoscere i suoi vicini. Non ti ho mai visto da queste parti, prima d’ora, il che significa che sei soltanto un ladro, ecco cosa». I suoi amici borbottarono, d’accordo con lui.

    Demetrio si tenne a freno a stento. «E a te che importa?»

    «Ma sentitelo! Questa è una confessione bella e buona, per quel che mi riguarda», commentò il fromboliere, con un sogghigno sarcastico.

    Demetrio non avrebbe saputo dire perché a quel fromboliere importasse che aveva rubato, visto che non l’aveva fatto dal suo focolare, ma una cosa era certa: stava per prenderle. Il suo accusatore aveva quattro compagni, non tutti molto grossi, ma comunque robusti. Si allargarono a ventaglio e avanzarono verso Demetrio, con sguardi che non lasciavano presagire nulla di buono.

    I frombolieri erano agili, considerò il ragazzo, e anche quelli lo sembravano. Anche se fosse riuscito a correre fino alla nave, dubitava che gli altri rematori l’avrebbero aiutato. Nella catena alimentare di quella categoria, Demetrio era vicino al fondo. Tentò quindi un’altra strategia.

    «Vi va un po’ di formaggio? Ho anche del pane».

    Quel tentativo non provocò altro che risate e parole di scherno.

    «Ce li prenderemo dopo averti dato una lezione», dichiarò il capo.

    Demetrio non aveva considerato di opporre resistenza, ma l’arroganza di quel giovane era insopportabile. «Fottiti, tu e tua madre!», sbottò, e si lanciò verso il fromboliere più vicino. Erano ad appena quattro passi di distanza, perciò il bersaglio ebbe appena il tempo di spalancare la bocca, sorpreso, prima che Demetrio gli piantasse la spalla destra nello stomaco. Senza fiato, il giovane piombò giù come un sasso in un pozzo. Demetrio si girò e colpì con un gancio sotto il mento l’uomo più vicino. Il dolore gli afferrò la mano, ma il fromboliere cadde in ginocchio. Demetrio scappò, seguito da urla oltraggiate: «Ladro! Ladro!».

    Scattò e si inoltrò tra le tende, saltando oltre tiranti e, in un’occasione, un falò. Continuando a correre, cominciò a sperare che avrebbe raggiunto la relativa sicurezza delle navi ancorate. I frombolieri non avrebbero osato inseguirlo su una di esse: sebbene la flotta facesse parte dell’esercito di Filippo, c’era una notevole ostilità tra soldati e marinai.

    Demetrio non riuscì a vedere il piede che lo fece inciampare. L’attimo prima stava puntando verso lo spazio tra due tende, e quello dopo si ritrovò a fissare il terreno che gli veniva incontro. Allungò le mani e riuscì a rendere meno violento l’impatto, ma comunque si ritrovò senza fiato nei polmoni. Rotolò di lato, nel tentativo disperato di rimettersi in piedi, ma l’uomo che l’aveva atterrato lo colpì con un violento calcio allo stomaco che lo fece ricadere a terra. Demetrio ebbe un conato di vomito e, un attimo dopo, buttò fuori il pane che aveva inghiottito. Mentre cercava di risollevarsi sui gomiti, un colpo alle costole lo rimandò disteso. Inspirò a fatica, domandandosi cosa avrebbe potuto fare adesso, in nome del Tartaro.

    Sentì dei passi in avvicinamento, e delle voci.

    «È lui che state inseguendo?», domandò qualcuno.

    «Sì, così sembra», ribatté il fromboliere che aveva sfidato Demetrio.

    «È un ladro?»

    «Già. Grazie tante, compagno».

    I piedi calzati di sandali del fromboliere si fermarono davanti al viso di Demetrio. Uno lo colpì con forza.

    «In piedi, figlio di puttana».

    Demetrio era alla mercé dei frombolieri, ma non era ancora pronto ad arrendersi. Scattando avanti, affondò i denti nella caviglia dell’avversario. Un urlo di dolore, e la sua vittima barcollò indietro. In qualche modo, lui riuscì a sollevarsi in ginocchio. Un peltasta dall’espressione scioccata – doveva essere quello che l’aveva fatto inciampare – evitò al fromboliere di cadere. Alle spalle dei due, Demetrio riuscì a scorgere dei volti infuriati, quelli degli altri frombolieri. A quel punto, colpì il peltasta all’inguine con un pugno, e, mentre l’uomo si piegava in due gemendo, si alzò in piedi.

    Gli altri avrebbero potuto anche ucciderlo, ma a Demetrio non importava. Tutto il dolore e la rabbia che provava ancora per la morte del padre, e per l’esistenza grama che aveva dovuto condurre da allora, salirono ribollendo in superficie. Se le cose fossero andate come previsto, sarebbe stato un falangista, ormai, e non sarebbe stato costretto a rubare del cibo. Invece, era soltanto un povero rematore, che sarebbe morto per mano di quei frombolieri assassini.

    Demetrio si mise con le spalle alla tenda, sua unica difesa, e serrò i pugni. «Quanti di voi ci vogliono per battere un uomo solo?».

    Quell’insulto fu troppo, per loro. I frombolieri e il peltasta gli si gettarono addosso. Demetrio riuscì a mettere a segno un paio di pugni e una testata, prima che una pioggia di colpi lo facesse cadere a terra. Iniziò a vedere le stelle, mentre ondate di dolore gli si espandevano in ogni parte del corpo. Fece del suo meglio per raggomitolarsi su se stesso. Se si fosse protetto la testa, forse sarebbe riuscito a sopravvivere.

    Perse conoscenza quando cominciarono a pestarlo.

    Demetrio sentì il freddo dell’acqua che gli veniva gettata in faccia e riprese i sensi sputacchiando. Era disteso su un fianco. Non c’era una singola parte di lui che non fosse avvolta dal dolore. Aveva la bocca piena di grumi di sangue; tastando in giro con la lingua, sentì un dente che dondolava, e, con una certa difficoltà, riuscì a sputarlo.

    «È vivo». La voce era divertita. «Sorprendente, considerando in quanti l’avete aggredito».

    Qualcuno mosse i piedi. Demetrio non capì perché nessuno rispondesse. Un gelido terrore gli serrò le viscere. Un ufficiale era intervenuto sulla scena. E se avesse saputo perché lo avevano aggredito, il suo destino sarebbe stato segnato. Provò una profonda rassegnazione. Il Fato era davvero contro di lui, quel giorno.

    «Riesci a muoverti?», gli domandò la voce.

    Demetrio ci provò, e scoprì che ci riusciva. Asciugandosi la saliva mista a sangue che gli macchiava le labbra livide, lottò per rimettersi seduto. Un dolore pulsante sul lato destro del petto gli fece capire che aveva delle costole rotte; ed era il dolore peggiore tra quelli che provava. Alzò lo sguardo verso l’uomo che aveva parlato. Era avvolto in un semplice mantello, magro, con occhi scintillanti e la barba. Gli ricordava qualcuno.

    Osservò l’espressione nervosa di frombolieri e peltasta, e, più indietro, un gruppo di soldati dall’aria ammirata. Di colpo, capì. Aveva sentito dire che Filippo girava per l’accampamento in abiti semplici, per parlare con i soldati; e a quanto pareva, le voci erano veritiere. Demetrio si sentì stringere lo stomaco. Qualsiasi punizione potesse ricevere, adesso sarebbe stata peggiore: il re ne avrebbe fatto un esempio per tutti.

    Si sollevò su un ginocchio, con una smorfia. «Maestà».

    «Questi uomini affermano di averti visto rubare del pane». Filippo accennò con un pollice ai frombolieri.

    Demetrio esitò. Negare l’accusa avrebbe fatto sembrare che stesse mentendo per salvarsi la pelle. Lanciò uno sguardo ai suoi inseguitori, che adesso stavano gongolando apertamente, e sentì la rabbia afferrarlo. «Non è andata così, maestà».

    Il capo dei frombolieri sbottò in una risata sdegnosa.

    «Quindi non hai rubato niente?». Il tono di Filippo era duro. Pericoloso.

    «Sì, maestà, ho rubato». Demetrio tirò fuori dal chitone una focaccia deformata: nella lotta, il suo sfortunato bottino era andato in pezzi. «Ma non mi hanno visto farlo. Nessuno mi ha visto».

    Un lampo di quello che poteva essere divertimento attraversò il volto di Filippo. «E come mai ti hanno aggredito?»

    «Stavo morendo di fame, maestà, perciò mi sono fermato a mangiare un po’ di quel cibo che avevo preso. I frombolieri mi hanno visto, e non riconoscendomi, hanno pensato che l’avessi rubato».

    «Le tende dei frombolieri sono a una buona distanza da qui», commentò Filippo. «Tu sei scappato, e loro ti hanno inseguito?»

    «Non prima di averne messi a terra due, maestà».

    «Quanti erano in tutto?»

    «Cinque, maestà».

    Filippo inarcò le sopracciglia. «Cinque. Contro te soltanto».

    «Sì, maestà».

    «Sei un soldato?»

    «Un rematore, maestà».

    «Su una delle mie navi da guerra?»

    «No, maestà. Su uno dei vascelli mercantili».

    Il capo dei frombolieri arrossì per la vergogna. I suoi compagni sembravano imbarazzati e furiosi. Filippo, d’altro canto, aveva un’espressione interessata. «E come hanno fatto a prenderti?», volle sapere.

    «Quel peltasta», indicò Demetrio, «li ha sentiti urlare, maestà, e mi ha fatto inciampare».

    «Agli uomini non piacciono i ladri», sentenziò Filippo. «Ed è stato lì che ti hanno picchiato fino a farti perdere i sensi».

    «Sì, maestà!», sbottò il capo dei frombolieri.

    «Però, ti ho lasciato un ricordo», ritorse Demetrio. «La caviglia ti farà male per giorni. E al peltasta ho mollato un pugno nelle palle». Qualcuno cominciò a ridacchiare; ci volle un attimo, a Demetrio, per capire che si trattava del re. Certo che fosse il presagio di una morte orribile, il ragazzo chinò il capo.

    «I miei frombolieri sono tra i migliori del mondo, o così dicono loro. Dico bene?», esclamò Filippo.

    Il capo dei frombolieri ritrovò la voce. «Sì, maestà».

    «Eppure, cinque di voi sono stati ridotti a tre da un rematore. Un rematore. L’avete ripreso solo perché un altro è intervenuto. E a quel punto, è riuscito a colpire altri due di voi, prima che aveste la meglio su di lui».

    Silenzio.

    «Parla, idiota!», sbottò Filippo, furioso.

    «Hai ragione, maestà», borbottò il capo dei frombolieri.

    «Toglietevi dalla mia vista», scattò Filippo.

    Demetrio guardò, incredulo, i frombolieri allontanarsi. Se fossero stati dei cani, pensò, avrebbero avuto la coda tra le zampe posteriori. La sua soddisfazione fu breve, tuttavia: il re avrebbe punito anche lui. Un furto era un furto; e Demetrio aveva visto uccidere un uomo, una volta, per quel crimine. Come minimo, poteva aspettarsi di vedersi amputare la mano destra. Si sentì prendere dal panico. Se fosse stato mutilato, non avrebbe più potuto remare. E quando la flotta fosse ripartita, l’avrebbero lasciato indietro a morire di fame.

    «Tu». Filippo si rivolse al peltasta.

    «Maestà». L’uomo mantenne lo sguardo fisso sul terreno.

    «Hai fatto ciò che ritenevi giusto, e non posso biasimarti per questo. Ma farti cogliere di sorpresa da questo ragazzo…». Filippo fece una pausa, e il peltasta alzò lo sguardo, con un’espressione di ovvio terrore in faccia. Il re scoppiò a ridere. «Considera il dolore che ti ha procurato all’inguine una punizione sufficiente per te. Va’ pure».

    Balbettando parole di ringraziamento, il peltasta sparì nella sua tenda.

    Demetrio chiuse gli occhi. Ora sarebbe stato il suo turno, pensò. Fa’ che la mia fine sia rapida, grande Zeus.

    «Alzati».

    «Maestà».

    Filippo l’avrebbe fatto giustiziare in piedi, pensò Demetrio. Serrando i denti per non esternare il dolore, si alzò.

    «Sei orgoglioso. E combatti come un soldato».

    Demetrio sembrò confuso. «Io… sì, maestà».

    «Hai rubato per fame?»

    «Sì, maestà. Non ci danno mai cibo a sufficienza».

    Filippo si incupì. «I capitani dei mercantili vengono pagati abbastanza da sfamare ogni uomo dei loro equipaggi due volte al giorno. Come si chiama la tua nave?»

    «Stella del mare, maestà».

    Filippo annuì. «Va’ pure».

    Demetrio lo guardò a bocca aperta. «Maestà?»

    «Sei libero di andare»

    «Non mi farai giustiziare, maestà?»

    Le labbra di Filippo si arricciarono per il divertimento. «No».

    Demetrio gli rivolse l’inchino più profondo che gli riuscì. Incapace di credere alla propria fortuna, arretrò dei dieci passi previsti dal protocollo prima di girarsi e procedere zoppicando verso la costa.

    A metà strada verso le navi, una bassa risata gli sfuggì dalle labbra. Aveva ancora del pane e del formaggio, sotto al chitone.

    Capitolo 2

    Foro romano, Roma

    Tito Quinzio Flaminino era ancora a una certa distanza dal Comizio, l’area dedicata alle assemblee pubbliche, quando fece un cenno ai suoi littori; quelli si spostarono subito verso uno spazio tranquillo accanto a un tempio sul lato est del foro. Era impossibile tenere un basso profilo, a causa della sua scorta, ma il grande spazio aperto del foro era abbastanza affollato da non essere notato subito. Gli altri politici si stavano radunando fuori dalla Curia, l’edificio del Senato, in attesa degli ambasciatori provenienti dall’Etolia, in Grecia. Erano venuti a chiedere aiuto a Roma, come tutti sapevano, contro Filippo, il bellicoso re della Macedonia, contro il quale la Repubblica aveva combattuto qualche anno prima una guerra senza esiti certi.

    Flaminino non aveva intenzione di perdere quell’importante incontro, ma prima di unirsi alla folla, voleva scoprire chi stesse bisbigliando all’orecchio di chi, e chi stesse ignorando chi altro. Aveva delle spie, a Roma, ma molto si poteva capire anche con la semplice osservazione. Le informazioni equivalevano al potere, e per un uomo ambizioso come Flaminino, valevano oro sonante. La politica romana era dominata da diverse fazioni; l’equilibrio tendeva a muoversi tra forse una dozzina di famiglie. Troppo impegnato a combattere contro Annibale per andare a Roma, Publio Cornelio Scipione restava il più amato dalla Repubblica; la sua fazione era la più vasta e superava la seconda di un buon margine. Nessuno dei due gruppi aveva gli stessi numeri delle famiglie senatorie, le cui alleanze cambiavano di continuo, comunque. Quelli erano i senatori il cui supporto era fondamentale per chiunque desiderasse una carica di potere; e tra quelli c’era Flaminino. Negli ultimi anni, la sua famiglia era stata dalla parte di Scipione, ma in quell’occasione non era questo lo scopo di Flaminino. Le alleanze, per lui, erano come mantelli, da usare e cambiare a seconda delle necessità.

    Quel giorno era accompagnato dal fratello maggiore Lucio, un uomo atletico il cui volto aveva una somiglianza visibile con il suo. Invece di restare con il gruppo, aveva deciso di salire i gradini del tempio per osservare meglio gli eventi. Flaminino fece per richiamarlo, ma poi ci ripensò. Lucio non poteva causare guai, lì, e con il poco tempo che restava, lui era ansioso di scoprire quanto più possibile.

    Non ancora trentenne, era piuttosto basso, con i capelli castani tagliati corti alla maniera dei soldati e la barba ben curata. Non era un Adone, con quegli occhi quasi sporgenti, un lungo naso appuntito e le labbra carnose, ma sopperiva alla mancanza di fascino con una sicurezza in se stesso senza pari. Quando aveva provato a montare il cavallo di suo padre, a quattro anni, quella sicurezza l’aveva sostenuto, così come quando aveva deciso di indossare la toga due anni prima del quindicesimo compleanno. Le botte che aveva preso in entrambe le occasioni non avevano fatto che rafforzare quel tratto del suo carattere, e questo gli faceva credere che fosse un dono degli dèi.

    Rampollo di una famiglia patrizia decaduta, e amareggiato dalla sfortuna che aveva avuto lui stesso nella vita, il padre di Flaminino era stato un vero tiranno, facile all’ira e difficile da soddisfare. Costretta in un matrimonio infelice, sua madre era sempre stata una vera megera. Fin da piccolo, Flaminino aveva desiderato abbandonare la casa

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