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Il fermaglio di perla: La grazia di Raffaello
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Il fermaglio di perla: La grazia di Raffaello
E-book526 pagine7 ore

Il fermaglio di perla: La grazia di Raffaello

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Info su questo ebook

Il secolo dei giganti 3
La grazia di Raffaello
Una grande trilogia: il Rinascimento come nessuno l’ha mai raccontato.

"Forcellino sa stemperare la grande cultura in una scrittura avvincente e pop."
Brunella Schisa, il Venerdì di Repubblica

"Gli intrighi e le avventure di una delle più straordinarie epoche italiane."
La Stampa.it

Febbraio 1519. Raffaello Sanzio passeggia lungo il Tevere, lasciandosi ispirare dai colori che si riflettono nell’acqua e nel cielo. Agostino Chigi, il banchiere più ricco della città, lo ha ingaggiato per dipingere la loggia di villa Farnesina, dove presto convolerà a nozze con Francesca Ordeaschi, la cortigiana che ha conquistato il suo cuore e un posto d’onore tra gli scranni del potere. Eppure non è solo l’arte a occupare la mente di Raffaello, e nemmeno la bellezza di donne come Giulia Farnese, Felicia della Rovere o Vittoria Colonna, che tessono con grazia e abilità gli intrighi del tempo. Ad accendere la sua fantasia oggi è l’umile figlia di un fornaio di Trastevere, la Fornarina, ritratta seminuda e lasciva in una tavola che scandalizza i prelati della Santa Sede. Ma la passione infiamma non solo Roma; divampa attraverso l’Europa fino all’Impero Ottomano: Enrico VIII, Francesco I, il sultano Solimano I e Carlo d’Asburgo si contendono, tra scandali politici, intrighi sessuali e guerre di religione, il potere del mondo.

Il fermaglio di perla, terzo capitolo della saga Il secolo dei giganti, è un affresco indimenticabile che ci trasporta nelle città italiane del Rinascimento, incendiate dalle battaglie e dagli scandali e meravigliosamente ornate dalle più belle opere d’arte di sempre.
LinguaItaliano
Data di uscita23 gen 2020
ISBN9788830502154
Il fermaglio di perla: La grazia di Raffaello
Autore

Antonio Forcellino

Tra i maggiori studiosi europei di arte rinascimentale, ha realizzato restauri di opere di grande valore, come il Mosè di Michelangelo e l’Arco di Traiano. La sua attenzione si rivolge da sempre a tutta la ricchezza del fare arte, ai contesti storici, alle tecniche e ai materiali, alle radici psicologiche e biografiche dei grandi capolavori. È stato eletto membro del Comitato per le celebrazioni dei 500 anni della morte di Leonardo da Vinci, promosso dal Ministero per i beni e le attività culturali.

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    Anteprima del libro

    Il fermaglio di perla - Antonio Forcellino

    PAPA LEONE X

    (9 marzo 1513 – 1° dicembre 1521)

    LA LOGGIA DELL’AMORE

    Il febbraio del 1519 allentava la sua morsa gelida sull’Italia e su Roma, dove i primi mandorli fiorivano negli orti che costeggiavano il Tevere.

    Raffaello camminava lungo il fiume di buon mattino, pieno di gratitudine per quel cielo azzurro che incorniciava i muri dei nuovi edifici di via Giulia con la profondità di un’immensa stoffa di seta colorata e ben tesa. Come sempre, giocava a immaginare i pigmenti che avrebbe mescolato per ottenere quella tonalità. Un fondo bianco, una stesura di smaltino di Venezia e sopra, quando era già quasi asciutto, un’acqua appena carica di lapislazzuli frantumato, con una punta di viola. Ma leggerissima, perché il viola faceva presto a illividire la trasparenza dell’aria. Quello per lui era il cielo perfetto, eppure, nella loggia che stava dipingendo per Agostino Chigi nel palazzo di Trastevere, il banchiere gli aveva chiesto di rinforzarlo con un azzurro ancora più acceso, forse, pensava malignamente, per ostentare la sua ricchezza con uno strato di lapislazzuli che nessun altro poteva permettersi. L’avrebbe accontentato. Anche se aveva l’impressione che quello del Chigi sarebbe diventato il firmamento più ricco d’Italia, ma non il più bello. Avrebbe passato sulla volta della loggia, dove Amore e Psiche volavano per vincere le resistenze di Venere, un nuovo strato di lapislazzuli, disciolto nella colla di guanti e steso con pennelli larghi di martora dalla punta mozzata.

    Arrivato al cancello della villa di Agostino sentì le risate allegre della sua squadra provenire dalle impalcature. Sorrise tra sé, i suoi assistenti erano la sua gioia, lavorare insieme a loro era un piacere, anche se sempre più raro. I suoi numerosi impegni lo costringevano a frequentare la corte del papa e dei banchieri, le feste e i ritrovi di raffinati intellettuali sottraendo tempo al lavoro con gli allievi.

    La voce di Giulio Romano sovrastava quella degli altri, doveva aver fatto una battuta licenziosa perché udì scoppiare una risata fragorosa accompagnata da un battito di mani. Senza fare rumore si avvicinò alla scala a pioli che portava all’impalcatura. I pittori stavano parlando tutti insieme mescolando i dialetti dell’Italia intera. Giovanni da Udine inciampava nella sua zeta veneziana cantilenando con la calma abituale. Polidoro da Caravaggio tentava di inserire la sua veloce parlantina bergamasca che nessuno capiva, a parte il suo grande amico Maturino, mentre Perino del Vaga e Gianfrancesco Penni si scambiavano commenti salaci con tagliente accento toscano.

    Raffaello aveva raccolto il meglio dell’Italia sotto la sua protezione e lo aveva fecondato con la sua arte raffinata, riuscendo a ridurre a unità lo stile pittorico di ognuno; ma mentre nei dipinti in cui li impegnava le diverse personalità si sforzavano di mimetizzarsi e fondersi nella maniera del maestro, invece nelle discussioni accese, come quella in corso sull’impalcatura, i diversi dialetti esplodevano in una babilonia di suoni che spesso finiva in urla senza senso.

    Salì la scala, infilò la testa nella botola e li trovò riuniti sul lato settentrionale della loggia a guardare qualcosa che uno di loro aveva dipinto.

    «Posso sapere cosa sta succedendo?» Raffaello si tirò su sull’impalcatura, fingendo un rimprovero a cui nessuno credette.

    Giulio gli andò incontro per abbracciarlo, i suoi occhi nerissimi ridevano e i ricci ribelli erano scappati fuori dalla fascia di lino in cui li raccoglieva durante il lavoro. «Maestro, vieni a vedere cosa ha fatto il tuo Giovanni, il tuo devotissimo friulano! E poi vedremo se avrai ancora il coraggio di accusare me di diffondere disegni scandalosi tra gli stampatori di Roma.»

    Gli altri intanto si erano scostati dal muro per fare largo a Raffaello. C’era un festone di fiori, frutta e verdure, su cui Giovanni aveva dipinto un catalogo di tutte le specie vegetali conosciute al mondo, incluse quelle che arrivavano ogni mese dal continente scoperto quasi trent’anni prima da Colombo e rapidamente colonizzato dagli spagnoli. Ma tra i fiori e gli ortaggi ora spiccava in maniera evidente una melanzana dritta dalla punta leggermente arrotondata e gonfia appoggiata a un fico aperto, che mostrava una striscia di semi rosa che lasciava pochi dubbi sulla natura dell’allusione.

    Raffaello sorrise scuotendo la testa senza troppa convinzione. «Non vi sembra di esagerare?»

    Giulio lo incalzò subito. «Proprio tu ci dici questo, maestro? Proprio tu che ti sei perso per settimane tra le gambe della tua amante, costringendo Agostino Chigi a rapirla per portarti al lavoro a ultimare la loggia?»

    «Non bisogna sempre seguire i maestri quando danno un cattivo esempio. E poi non è vero, sapete bene che è una fandonia. Mi sono solo ammalato.»

    «Di mal di figa» esclamò Penni, al quale usciva sempre il più becero toscano per le sue battutacce.

    Giovanni da Udine per un momento temette davvero di aver passato il segno. «Maestro, se ti sembra troppo, butto subito giù l’intonaco e rifaccio un giglio al posto della melanzana. Pensavamo che siccome stiamo celebrando l’amore di Agostino per la bella Francesca forse un omaggio alla…» Non trovò le parole e Raffaello sollevò la mano per fermarlo. «Va bene, faremo decidere ad Agostino se è il caso di tenere questo sconcio. Però ricordatevi che tra qualche mese sotto questa volta sarà il papa stesso a celebrare le nozze di Chigi e ci sarà tutta Roma presente. Non vorrete che mi accusino di pornografia.»

    Giulio non riusciva proprio a trattenersi, del resto Raffaello gli permetteva ogni cosa. «L’intera corte, a cominciare dal papa, si leccherà i baffi di fronte ai seni della tua Venere, come hanno fatto di fronte alla Galatea. Agostino ha dovuto proibire l’ingresso alla villa per il pellegrinaggio che c’era ai piedi di Galatea. Di certo la melanzana di Giovanni farà meno scalpore dell’uccello svolazzante che Polidoro ha dipinto tra le gambe di Mercurio, non trovi?»

    Tutti si girarono verso il pennacchio al centro della parete, dove un Mercurio molto robusto si librava nell’aria coperto soltanto dal suo elmetto alato e dai calzari. Tra le gambe, ben in vista, il sesso pareva sospinto dal vento.

    «Era importante dare la sensazione del volo…» volle giustificarsi Polidoro.

    Raffaello gli rivolse uno sguardo divertito. «Sì, del volo… Lasciamo perdere adesso, dobbiamo risolvere il problema del cielo.» Si girò verso la volta, dove erano stesi i due finti arazzi con le scene del banchetto degli dèi e della presentazione di Psiche a Giove.

    C’erano voluti mesi per realizzare quelle figure e Raffaello aveva dovuto studiare altrettanto a lungo gli scorci dal basso. Dopo la Cappella Sistina, nessuno a Roma si azzardava a dipingere figure in scorcio, a meno che non fossero più che perfette, e Raffaello sapeva che Michelangelo, invidioso del suo successo, aspettava solo che commettesse un errore per criticarlo con il pontefice e la corte. Per fortuna il lavoro era ben riuscito: c’era naturalezza nelle posture, ma c’era soprattutto la grazia nei volti e negli atteggiamenti, una grazia che Michelangelo non aveva e che invece rendeva lui molto ammirato.

    Naturalmente si vedevano le mani dei diversi assistenti, e questo era inevitabile. Da anni infatti Raffaello era impegnato nella costruzione del nuovo San Pietro, dell’immensa villa per il papa sulle pendici di Monte Mario, nella decorazione delle stanze e delle logge vaticane e in mille altri progetti. Insomma, tutta Roma era sotto i suoi pennelli e lui non aveva tempo di dipingere da solo una volta simile. Tuttavia dovette ammettere che le diverse mani si riconoscevano appena e che era stato bravo a guidare i suoi allievi.

    «Il fatto è che Agostino lo vuole più azzurro» spiegò, «e dunque bisogna preparare una nuova velatura di lapislazzuli che però non sia troppo scura, altrimenti il cielo si incupisce e il contrasto con il verde del fogliame e il rosa degli incarnati diventa fastidioso.»

    Gli allievi si guardarono spaventati. Con tono lamentoso si fece avanti Giovanni. «Vuoi dire che dobbiamo ripassare tutto il cielo con i lapislazzuli?»

    «Proprio così» rispose Raffaello, senza spostare gli occhi dalla volta. Capiva bene che contornare il fogliame, i profili dei tappeti e dei fiori sarebbe stato arduo, eppure si doveva fare. Non si dice no al banchiere più ricco del mondo.

    «Ma dobbiamo finire la parte inferiore dei pennacchi e mancano pochi mesi alle nozze» replicò l’allievo.

    Raffaello alzò le spalle. «È inutile lamentarsi, Giovanni. Preparate piuttosto la colla di guanti per la tempera. Agostino ha mandato un suo corriere a Ferrara a comprare mille ducati di lapislazzuli dai commercianti ebrei. Arriverà entro due giorni. Dovremo essere pronti. Scioglieremo insieme il colore e io vi guiderò all’inizio, poi dovrete proseguire da soli, perché sto ancora concludendo il progetto per le cornici di San Pietro. Duecento operai sono lì in attesa dei disegni per poter cominciare a lavorare.»

    Un mormorio preoccupato si stava levando dal gruppo quando sentirono delle voci in giardino che si avvicinavano. Raffaello si sporse dall’impalcatura per guardare in basso. Fermi accanto alla fontana di marmo c’erano il cardinale Giulio de’ Medici, il cardinale Wolsey e Agostino Chigi che discutevano animatamente.

    «Come procede la costruzione del vostro palazzo a Londra?» chiese Giulio, che indossava un elegante giubbone di velluto nero operato a fiori viola e cercava di intrattenere la conversazione su un piano di amabile leggerezza. Alto e robusto come un Ercole, aveva la pelle scura perché sua madre era una schiava nordafricana di cui si era invaghito Giuliano, il fratello sfortunato di Lorenzo, poco prima di morire. Era il cugino del papa, nonché il suo più accorto consigliere, per molti era addirittura il vero artefice della politica dei Medici a Roma e a Firenze.

    Wolsey, ambasciatore del re d’Inghilterra Enrico VIII, coperto da una cappa scarlatta lunga fino alle ginocchia, invece voleva andare subito al sodo. «Il mio palazzo procede bene, grazie anche ai vostri suggerimenti, tuttavia non è per parlare di questo che ho attraversato la Manica e le Alpi senza mai fermarmi. Il mio re vuole sapere se Leone appoggerà la sua elezione a imperatore del Sacro Romano Impero.» Poi girandosi verso Agostino, che rimestava il terriccio con il piede calzato in un elegante stivale di cuoio borchiato d’oro, aggiunse: «E vuole sapere da messer Agostino se intende finanziare la sua candidatura. Gli elettori sono avidi e servono parecchi soldi. Il giovane Carlo d’Asburgo può contare su un fiume di denaro messo a disposizione dai Fugger».

    Nel giardino calò un silenzio pesante. Raffaello si girò verso i collaboratori facendo loro segno di tacere e riprendere il lavoro. Era indeciso se scendere a salutare il padrone di casa e i suoi ospiti illustri o rimanere sulle impalcature senza mostrarsi. Si ritrasse leggermente verso l’interno, ma anche da lì si udiva benissimo la conversazione.

    La voce di Agostino era imbarazzata: «I Fugger hanno una potenza economica superiore alla nostra, lo sapete bene. E vogliono a tutti i costi l’elezione di Carlo, la Germania è in grande fermento, quel maledetto monaco agostiniano, quel Lutero, sta incendiando il paese. L’elettore di Sassonia lo protegge con ogni mezzo e i Fugger sono legati a lui».

    «Del resto sua santità li ha resi ancora più ricchi appaltandogli la vendita delle indulgenze in tutta Europa» ribatté Wolsey che, sebbene fosse un uomo molto serio, non rinunciava mai a una franchezza che spesso a Roma era ritenuta impertinenza.

    «Bisognava pur trovare i soldi per costruire il nuovo San Pietro» disse Giulio, senza riuscire a nascondere il rossore che gli infiammò le guance, nonostante il colorito bruno.

    Wolsey non si intimorì. «E dare così a Lutero l’occasione per distruggere la Chiesa, attaccando pubblicamente la vendita delle indulgenze come nel più indecoroso mercato simoniaco. Ho l’impressione che, qui a Roma, il vostro bel cielo azzurro vi trattenga dal comprendere quanto sia grande questo scandalo nelle terre del Nord. Io non sottovaluterei affatto le conseguenze della ribellione di Lutero e di parte della Germania.»

    Giulio si indispettì per quella battuta, ma dentro di sé era consapevole che la questione delle indulgenze rischiava di travolgere la Chiesa e che suo cugino aveva fatto un errore a concederne la riscossione ai Fugger. Aveva commesso un errore perfino a metterle in vendita come fossero ciambelle ben cotte. «Siete dunque venuto a parlare della legittimità delle indulgenze?» domandò poi.

    «No, non sono così ingenuo e lo sapete. Io servo il mio re e la Chiesa, e per il bene di uno e dell’altra vi chiedo di appoggiare la sua candidatura.»

    «Ci sono altri tre elettori oltre al principe di Sassonia. E c’è il vescovo di Magonza che dovrebbe prendere ordini da sua santità» intervenne Agostino Chigi, tentando di smorzare il tono acceso della conversazione.

    «Enrico ha quasi trent’anni ed è un alleato affidabile per la Chiesa, gli altri contendenti non hanno neppure vent’anni e sono manovrati dai loro consiglieri, oltre a essere invasati da suggestioni cavalleresche che potrebbero rivelarsi fatali per l’Italia» rispose Wolsey con la voce ragionevole del fine diplomatico.

    Raffaello, anche se aveva preso in mano un pennello e una ciotola di calce disciolta in acqua per lumeggiare la figura di Venere in volo sul carro trainato da quattro colombe, non riusciva a non tendere l’orecchio, e si stupì di comprendere perfettamente il punto di vista di Wolsey. Difatti la sua amicizia con Bembo, Castiglione, Navagero e con gli altri intellettuali che gravitavano intorno alla corte del papa gli aveva permesso di farsi un quadro chiaro della situazione politica europea, mentre a Roma si mormorava che Francesco I avesse fatto proposte generosissime alla casa Medici per ottenere l’appoggio di Leone X.

    Gli amici di Raffaello invece propendevano per un appoggio, seppure segreto, al giovane Carlo, però sapevano anche che l’ambizione dei Medici li avrebbe spinti nelle braccia di Francesco I, il quale aveva addirittura promesso a sua santità di dare il suo secondogenito in sposo alla prima nipote del papa che fosse venuta alla luce. Tuttavia anche appoggiare la candidatura del re inglese poteva essere una buona mossa: sarebbe stato difficile per quel sovrano usurpare i territori della lontana Italia.

    I tre uomini fermi quasi sotto l’impalcatura non rinunziavano a giocare la loro partita. Un gioco che avrebbe deciso le sorti del mondo futuro.

    Giulio pensò che a volte il suo ruolo diplomatico era davvero difficile, in ogni caso decise che doveva difendere l’ambiguità di suo cugino e le ambizioni di famiglia, nonostante fosse ben consapevole di trovarsi di fronte a un abile stratega che sapeva leggere le vere intenzioni dei suoi interlocutori al di là delle molto ipocrite formule rituali di cortesia che si usavano a Roma. «Sua santità è il padre di tutti i cristiani d’Europa e di tutti i principi cristiani. Non può prendere posizione per nessuno di loro, come un genitore non può mostrare di amare un figlio più di un altro. Leone non interverrà nell’elezione dell’imperatore, manterrà un atteggiamento imparziale pregando lo Spirito Santo affinché illumini la mente degli elettori e suggerisca la scelta migliore. Il pontefice prega affinché il nuovo imperatore possa finalmente unirsi a lui nella guerra contro i turchi che rappresentano la minaccia peggiore per i cristiani.»

    Agostino guardò verso l’impalcatura come cercando aiuto tra le assi di legno, dove sentiva muovere i pittori di Raffaello. Immaginava che la risposta del cardinale Medici avrebbe irritato enormemente Wolsey perché era una bugia madornale. Leone infatti si era già schierato con il re di Francia scegliendo gli interessi della famiglia contro quelli dell’intera cristianità e di questo tutti erano al corrente. Ma Agostino non era protetto dalla santità della cotta cardinalizia né dalla vicinanza al papa, perciò la sua replica doveva essere meno ipocrita di quella del cardinale, anche perché Wolsey lo fissava, rosso in viso come il colore della sua cappa. «Potete dire a sua maestà Enrico VIII che i miei banchi in Inghilterra sono a sua disposizione per un prestito fino a trecentomila ducati. Il tasso d’interesse sarà il più basso possibile. Persino per me non è facile trovare liquidità in questo momento.»

    Wolsey scandì bene le parole cercando di trattenere la rabbia. «Siamo contenti che sua santità abbia deciso di mantenersi imparziale in questa contesa. Allo stesso tempo siamo certi che sia perfettamente consapevole del fatto che nel caso violasse la sua neutralità a favore di uno o dell’altro candidato, la collera di Enrico VIII e del popolo inglese non sarà facile da arginare. E questa collera potrebbe essere fatale alla Chiesa e alla casa Medici.»

    «È una minaccia?» domandò Giulio, di nuovo arrossito.

    «No. È solo la verità. Qualche volta fa bene dirla, anche sotto il cielo azzurro di Roma.»

    LA FERITA

    I rumori che provenivano dalla cucina poco prima dell’alba erano un’àncora di salvezza a cui si aggrappava da molti giorni, da mesi ormai. La ferita provocata dall’incidente alle cave di Seravezza era quasi guarita, ma Michelangelo non usciva di casa né quasi scendeva dal letto. Il dolore che portava nell’anima era più difficile da sopportare di quello di un femore rotto. Non riusciva più a dormire. Ogni notte gli tornavano in mente gli istanti terribili in cui si era consumata la tragedia. La lunga fila di uomini che tratteneva con i canapi il blocco gigantesco che avevano staccato dalla parete della cava; il silenzio e il ritmo cantato degli uomini che poco per volta, passo dopo passo, lo facevano scivolare sopra i pali di castagno insaponati lungo il pendio ripido; le donne a valle che guardavano il lavoro dei loro uomini trattenendo il respiro, e poi, quando gli era sembrato di raggiungere il poggio dove i buoi aspettavano per trasportare il masso lungo il sentiero sicuro, c’era stato quel rumore: lo scoppio del canapo sfuggito all’ulivella rotta, maledetto il fabbro che aveva risparmiato sul ferro! Le grida, il blocco che vibrava e che nessuno riusciva a tenere. Uno dopo l’altro si erano rotti anche gli altri canapi – perfino quelli che si era fatto prestare dai priori di Santa Maria del Fiore e che erano serviti un secolo prima a Brunelleschi per issare sulla cupola i blocchi della lanterna – e quella che doveva diventare una delle colonne della facciata di San Lorenzo aveva preso a correre lungo il pendio travolgendo arbusti e uomini. Uno era morto sul colpo. Altri, compreso lui, erano rimasti feriti. Sentiva ancora nelle orecchie le urla del fratello e del padre del ragazzo e poi della madre, delle sorelle. Avevano incolpato lui, giustamente, di aver voluto tentare un’impresa troppo temeraria. Ed era stato punito. Dio aveva punito la sua superbia.

    Ma non era soltanto quello l’incubo che gli toglieva il sonno. Appena provava a ordinare i pensieri compariva il volto severo di Giulio II, che scuoteva la testa in segno di disapprovazione. Lo accusava di aver lasciato il lavoro della sua tomba dopo aver intascato i soldi. Giulio che aveva fatto la sua grandezza. Che era stato come un padre. Aveva ragione, era stato un ingrato. Un ladro, come gli aveva sbraitato in faccia il duca di Urbino il giorno in cui era venuto a Firenze a pretendere indietro i soldi. Certo, i Medici lo avevano protetto, avevano detto che poteva lavorare alla tomba di Giulio II una volta conclusa la facciata della chiesa di San Lorenzo. Ma l’avrebbe mai finita? Ora che non poteva più sperare di avere colonne così grandi, come le aveva immaginate per la facciata, quel disegno non aveva più senso. Doveva cambiare il suo progetto. E i Medici lo avrebbero ancora sostenuto?

    Vide la prima luce filtrare dall’impannata. La primavera accorciava il tempo della notte. Per fortuna, quell’inverno stava per terminare. L’inverno più brutto della sua vita. Sentì la porta aprirsi piano. Sua zia Cassandra veniva come ogni mattina a portargli del pane e una tazza di brodo e a chiedergli di alzarsi.

    «Come stai oggi, Michelangelo? Sarà una giornata piena di sole. Non vuoi uscire? Ti farebbe bene. Bugiardini e Granacci passano tutti i giorni a chiedere di te. Almeno loro potresti vederli, ti sono così affezionati.»

    Michelangelo non rispose.

    La zia posò la tazza di brodo accanto al letto, sullo sgabello, e tornò in cucina rassegnata. Mandare avanti una casa con sei uomini era un’impresa faticosa. E ora anche il nipote più attivo, il perno della famiglia, era allettato a rimuginare sulle sue disgrazie. Che fine avrebbero fatto? Scese in cortile a prendere l’acqua al pozzo, voleva fare una minestra con i piselli nuovi di cui suo nipote era ghiotto. Almeno quelli li avrebbe mangiati con gusto. Ne approfittò, curiosa, per aprire il portone di casa e vedere chi passava per la via, e salutare una vicina se era il caso.

    La strada era deserta, fatta eccezione per un uomo che si avvicinava dalla parte di Santa Croce. Era vestito in modo piuttosto elegante, almeno così le sembrava da quella distanza. Stava per rientrare quando le parve che la sagoma scura le rivolgesse un cenno con la mano. Aspettò che fosse più vicino e riconobbe ser Niccolò Machiavelli, molto dimagrito dall’ultima volta che l’aveva visto, ma sempre distinto nel suo portamento e affabile.

    «Buongiorno Cassandra, che fortuna incrociarvi a quest’ora. Volevo appunto parlare con vostro nipote, il nostro genio scontroso. So che è a Firenze e che non se la passa granché bene. Come me del resto. Non volete chiedergli di ricevermi? Gli ruberò solo qualche minuto.»

    Cassandra lasciò subito il secchio che aveva in mano e cercò di contenere l’agitazione che l’aveva assalita. «Ma che dite ser Niccolò, certamente Michelangelo vi vorrà vedere! La nostra casa è sempre aperta per voi. Non so se è ancora a letto, però vado subito a chiamarlo. Intanto entrate, non state qui fuori. Sedetevi sulla panca del cortile. Ci metterò un minuto.»

    Sorridendo, ser Niccolò attraversò l’andito e si accomodò sulla panca addossata alla scala che portava alle stanze del piano superiore.

    Michelangelo vide la zia entrare in camera come una furia. «Alzati, Michelangelo, c’è giù ser Machiavelli che ti vuole parlare. Per l’amor del cielo non far attendere un uomo così importante. Non inguaiarci proprio tu.» Avrebbe voluto aggiungere altro, ma non c’era tempo. Intanto si era lanciata sul pancone accanto alla finestra, dove erano sistemati i vestiti del nipote, e aveva tirato fuori una camicia bianca di lino mai messa e il giubbone di velluto scuro che Michelangelo aveva indossato di rado perché lo considerava troppo elegante. «Puoi tenere quelle brache là e infila gli stivali di pelle. Non sta bene scendere con quegli zoccoli miserabili.»

    Per un attimo Michelangelo provò il desiderio di cacciarla fuori e rimettersi a letto. Non aveva intenzione di vedere nessuno, però ser Niccolò era un uomo speciale. Non solo era stato buono con lui quando era segretario della Repubblica di Pier Soderini ma, per essere un fiero repubblicano, aveva anch’egli subito l’ostilità dei Medici dopo l’elezione di Leone. Ora i Medici, che non riuscivano a piegare la città alle loro mire tiranniche, lo avevano richiamato per chiedergli consiglio. Era pur sempre il politico più intelligente della Penisola. Michelangelo non poteva negarsi a un uomo del genere. Indossò quindi la camicia pulita e il giubbone, calzò gli stivali che la zia gli porgeva e scese nel piccolo andito al piano terra.

    Machiavelli si alzò e lo abbracciò con un affetto sincero. «Michelangelo, carissimo. Che piacere vederti.»

    Buonarroti si sforzò di essere gentile anche se non ce la faceva a risultare caloroso. «Anche per me è un piacere, ser Nicolò. Come ve la passate?»

    Gli occhi piccoli e neri del vecchio segretario repubblicano avevano conservato l’acutezza della volpe e ora erano puntati dentro i suoi. Sapeva che si riferiva alle sue disgrazie con i Medici e proprio quelle disgrazie li affratellavano. «Come volete che me la cavi? I Medici mi hanno bandito quando hanno ripreso il controllo della città, ma adesso mi hanno richiamato dal mio esilio agreste. Governare Firenze non è cosa semplice e non ci sono più né un Lorenzo né un Cosimo in quella famiglia. Leone non è un granché e suo cugino, il cardinale Giulio, è troppo occupato a rimediare ai guai che procura al Trono di Pietro per poter controllare anche Firenze.» Ser Niccolò si accomodò di nuovo sul pancone di pietra e lanciò un’occhiata distratta al secchio di metallo che Cassandra aveva abbandonato nel cortile. «Giuliano, il duca di Nemours, è morto, e il giovane Lorenzo… che dire di Lorenzo? Che oltre a essere stupido e codardo è pure vanesio, e che si aggira per la città con una scorta armata che manda in bestia tutti i cittadini perbene? Gli hanno affiancato un consigliere, il vecchio Silvio Passerini, un uomo per tutte le stagioni, che però non ha la stoffa per imporre i cambiamenti costituzionali pretesi dai Medici. D’altronde non possono forzare troppo la mano senza provocare un’altra rivoluzione. Così hanno chiamato me, sperando che possa aiutarli nel mutare lo stato senza danno per loro e per Firenze.»

    Michelangelo si guardò intorno timoroso che quelle parole così dirette potessero essere udite da qualcun altro. Machiavelli colse immediatamente il suo disagio. «Non ti preoccupare, Michelangelo, non sono venuto a comprometterti. Sono una persona prudente, lo sai. Quello che ti ho appena raccontato l’ho detto anche al cardinale Giulio. È al corrente che numerose famiglie patrizie di Firenze non sopportano l’arroganza di Lorenzo e l’incapacità del suo consigliere. Devono stare ben attenti a come governano. La ricchezza di Firenze può causare la loro rovina. Ci sono parecchi uomini influenti che stanno cercando di trovare una soluzione accettabile a questa situazione: si riuniscono, anzi ci riuniamo spesso nel giardino dei Rucellai.»

    Sentendo quel nome, Michelangelo ebbe un nuovo sussulto. A Firenze si mormorava che in quel giardino si riunissero dei cospiratori antimedicei. Ancora una volta il segretario comprese i suoi timori e lo rassicurò ponendogli una mano sul braccio. «Ci sono dei sinceri repubblicani che non sopportano la tirannia dei Medici e stanno cercando di frenare la loro ingordigia. Ma il pericolo è che salga al potere il partito popolare, e allora sarebbe un disastro anche peggiore per l’economia della città. Potresti venire a trovarci di tanto in tanto. So bene che la tua passione per la Repubblica è forte almeno quanto la mia.»

    «Siete venuto a chiedermi di tradire i miei padroni, ser Niccolò?» domandò Michelangelo storcendo la bocca in un ghigno amaro.

    «Me ne guarderei bene, dal momento che li servo anch’io. Però non è detto che non riusciamo a cavare qualcosa di buono dalla stupidità di questo duchino che è scappato con la coda tra le gambe davanti al vero duca di Urbino.» Tacque qualche istante per dare modo a Michelangelo di riprendersi da quel discorso allarmante. «Ma non sono venuto per parlarti di politica. Sono venuto perché in cambio del mio servizio al cardinale Giulio ho chiesto di poter erigere un monumento funerario per la mia famiglia in una cappella in Santa Croce e il permesso di servirmi di te in nome della nostra antica amicizia.»

    Michelangelo aggrottò le sopracciglia. Se il cardinale Giulio aveva dato a Machiavelli il suo consenso, questo significava che riteneva di non aver più bisogno di lui. I suoi sospetti dunque erano fondati. Dopo la tragedia delle colonne, i Medici non volevano più affidargli niente. La notizia avrebbe dovuto fargli piacere, perché era vero che soffriva come Machiavelli per l’usurpazione del potere repubblicano e odiava stare al loro servizio, ma era molto più doloroso sentirsi privato della gloria di un grande lavoro e del ricco compenso che lo accompagnava.

    Gli occhi di ser Niccolò lo scrutavano, gli leggevano dentro, valutavano le contraddizioni che lo agitavano. Doveva sottrarsi a quella situazione che lo tormentava, rifletteva intanto Michelangelo, doveva smetterla di crogiolarsi con pensieri cupi. In fondo poteva sempre riprendere a lavorare per il duca di Urbino. L’idea gli accese il viso. In quei pochi minuti era di nuovo il fiero nemico dei Medici e avrebbe trovato la maniera di umiliarli. I Medici lo stavano scaricando e lui avrebbe ripreso a lavorare per il nipote di papa Giulio, quello stesso duca di Urbino che si era ribellato al pontefice e lo aveva mortificato riconquistando il suo piccolo regno e sconfiggendo l’esercito del nipote del papa Medici. Avrebbe cominciato subito a scolpire i Prigioni per la tomba dei della Rovere e forse Giulio II non gli sarebbe più apparso in sogno a rimproverarlo.

    «Farò un progetto degno della vostra grandezza, ser Niccolò. Statene certo» disse con entusiasmo, per la possibilità di vendicarsi che gli stava offrendo il segretario. «Comincerò oggi stesso a buttare giù qualche schizzo. Fatemi soltanto sapere quanto volete spendere per i marmi.»

    L’altro sorrise soddisfatto. Come al solito aveva capito tutto quello che era passato per la testa di Michelangelo. Gli porse la mano e si alzò per uscire dal cortile aiutato premurosamente da Buonarroti. Quando stava per varcare la soglia si girò. «Vieni qualche volta a trovarmi. Il pomeriggio, se il tempo lo permette, sono negli Orti Oricellari, proprio dietro Santa Maria Novella. Vedrai che incontrerai persone di tuo gradimento.»

    Sì, aveva proprio capito tutto.

    IL FURTO

    «Torneremo a Firenze. Il cardinale Giulio amava Leonardo, ci aiuterà a pubblicare i suoi scritti. Tu continuerai a sistemare i trattati e io finirò i dipinti che lui aveva cominciato. C’è un san Giovanni che il maestro aveva promesso al cardinal Bibbiena, manca poco per finirlo. I Medici ci aiuteranno, hanno sempre amato Leonardo» disse Zoroastro.

    «Se l’avessero davvero amato, non l’avrebbero lasciato andare via, venire a morire qui, in questa landa desolata» ribatté Francesco Melzi, continuando a fissare la lapide che copriva la tomba del maestro, ancora splendente grazie alla lustratura degli artigiani. Rivolse poi uno sguardo alla piccola chiesa in cui avevano sepolto Leonardo, a metà strada tra il castello di Amboise e le rive della Loira. Era piccola e luminosa, aveva una sola navata con le volte ad arco acuto e gli altari di pietra rivestiti da retabli di legno. Francesco non poteva sopportare di lasciare in quella piccola chiesa di contadini le spoglie del maestro che aveva cambiato il destino di città magnifiche come Milano, Firenze e un po’ anche Roma. Non era giusto.

    Zoroastro, che era più vecchio di lui e aveva passato gli ultimi quarant’anni con Leonardo, amandolo come un padre, aveva senso pratico e pensava fosse inutile lasciarsi travolgere dallo sconforto; avevano pianto per una settimana, adesso era giunto il momento di agire. Bisognava riprendere la vita e fare il possibile per onorare Leonardo proteggendo e divulgando la sua eredità come il vecchio aveva sognato. Si girò verso l’uscita. «Ma dov’è Salai?» chiese.

    Francesco seguì il suo sguardo. «Era con noi fino all’inizio della messa, poi non l’ho più visto. È scomparso. Starà tramando qualcosa. L’unico vantaggio di questa tragedia è che non lo vedrò più. Vivere con lui è stato un inferno. Vedere come si approfittava del maestro, come gli rovinava la vita giorno dopo giorno è stato insopportabile.»

    «Hai ragione, eppure anche gli uomini più grandi come il nostro Leonardo hanno debolezze contro cui è impossibile combattere. Torniamo a casa, lo troveremo là.»

    Percorsero a passo svelto la strada che attraversava il piccolo villaggio di Clos-Lucé e che si arrampicava sulla collina, dove sorgeva la loro casa. Piovigginava e una nebbiolina sottile avvolgeva le cime degli alberi dando all’edificio un aspetto tetro, o forse era il loro cuore a essere tetro.

    Trovarono Salai nella stalla. Aveva caricato un mulo con un basto da cui sporgevano le sagome rettangolari di quadri di diverse dimensioni e stava assicurando sul suo cavallo due sacchi di iuta grandi come barili. Dalla cintura gli pendeva una piccola borsa di cuoio gonfia fino all’impossibile. Francesco e Zoroastro si scambiarono un’occhiata. Non c’era molto da capire. Salai stava partendo, o meglio stava scappando dopo aver rubato tutto ciò che poteva arraffare in casa.

    Vedendoli entrare nella stalla, aveva afferrato un pugnale dalla sella e adesso lo brandiva contro di loro.

    «Dove stai andando, cosa hai rubato?» domandò Zoroastro, che non sembrava spaventato.

    «Sto partendo. Non sono forse libero di andarmene?»

    «Cos’hai lì dentro?»

    «Soltanto ciò che è mio.»

    «E cioè?»

    «Quello che mi ha donato Leonardo.»

    Francesco si era avvicinato ai sacchi e stava per aprirne uno. Salai gli si avventò contro minaccioso, ma Zoroastro aveva afferrato la pala con cui lo stalliere rimuoveva lo sterco dei cavalli e, con un colpo sul braccio, gli aveva fatto cadere l’arma dalle mani. Salai gridò per il dolore. «Assassino, ti denunzierò alle guardie del re. Mi state derubando.»

    Melzi nel frattempo aveva tirato fuori dal sacco un giubbone di damasco rosso con rombi neri contornati da un filo d’oro. Era quello che Francesco I aveva regalato l’anno precedente al maestro e che Leonardo indossava con orgoglio alle feste nel castello. Ammassati all’interno c’erano tutti i costosi vestiti di Leonardo. L’amore per le stoffe preziose era una sua debolezza, un’altra di cui si era approfittato Salai.

    «E questi sono i quadri che erano a studio. Stai portando via i quadri del maestro. Ladro e miserabile. Lo hai sfruttato e offeso per tutta la vita e ora stai rubando le sue cose!» urlò Francesco e si scagliò contro Salai per prenderlo a pugni, ma era un giovane di lettere, troppo ben educato per poter affrontare un uomo che aveva passato la vita a sfidare assassini nelle bettole di mezza Europa. Infatti Salai, nonostante il polso dolorante, schivò il colpo scartando di lato come un lupo. Poi stese la gamba tra quelle di Francesco e con la mano libera gli allungò un gancio che mandò a terra Melzi.

    Zoroastro lasciò la pala e gli fu addosso stringendogli la gola. «Pezzo di merda secca. Ti viene facile aggredire Francesco, vero? Prova ad atterrare me con i tuoi trucchetti da brigante.» Così dicendo gli diede una ginocchiata tra le cosce che lo piegò in due.

    Salai cadde e il sacchetto di cuoio che aveva al fianco si slacciò dalla cintura rivelando il suo contenuto.

    «Le pietre preziose. Hai rubato le pietre che Leonardo raccoglieva da sempre. Cos’altro hai preso, eh? Maledetta sanguisuga!» esclamò Melzi che, rialzatosi, tentava ancora di colpirlo ma senza successo. Salai cominciò a invocare soccorso, come se davvero dei ladri stessero per sopraffarlo. Nel giro di un attimo arrivò lo stalliere con in mano il forcone per rimestare il fieno. Poi la serva Maturine, che iniziò anche lei a gridare e infine i due contadini che stavano curando l’orto dietro casa. Tutti sgranarono gli occhi davanti a quella scena: Salai giaceva per terra con sopra Francesco Melzi che lo tempestava di pugni, mentre Zoroastro in piedi li osservava con in mano la pala.

    I francesi non capivano il significato delle urla, ma rimasero allibiti nel vedere quella rissa tra i discepoli del maestro appena seppellito. Zoroastro capì che stavano offrendo uno spettacolo indegno e immaginò cosa avrebbe pensato il re quando glielo avrebbero raccontato. Stavano litigando per la roba di Leonardo, come i più meschini dei parenti, come avrebbero fatto i fratellastri tanto odiati del loro maestro. No, Leonardo non meritava questo. Zoroastro allora prese per le spalle Melzi che aveva il viso rigato di lacrime. «Basta, Francesco, alzati adesso, la Francia intera saprà di questa zuffa disgustosa. Lascialo stare. Lascialo andare via, che vada a fottersi lui e i suoi denari. Se li giocherà a dadi e li consumerà con le puttane. Non è degno neppure del nostro disprezzo. Noi abbiamo la vera ricchezza di Leonardo, abbiamo i suoi manoscritti. E quei quadri non sarà mai in grado di finirli in maniera decente, li dovrà vendere come legna per il fuoco. In trent’anni non è stato capace di imparare a poggiare un pennello su una tavola.»

    Salai si asciugò con il dorso della mano il rivolo di sangue che gli colava dal naso. Poi con un gesto rabbioso rimise dentro il sacchetto di cuoio i balasci e i lapislazzuli, le agate e i granati che erano caduti per terra controllando che non ne rimanesse nessuno tra la paglia. Poi guardò Francesco con il viso stravolto dall’odio. «Certo, io sono il prostituto, la puttana di Leonardo, il delinquente buono solo a truffare, fare risse e giocare a dadi. Eppure è me che amava, ero io a farlo godere, e sapeste come godeva quando…»

    Il calcio di Zoroastro gli arrivò dritto sulla guancia atterrandolo di nuovo. «Ora basta. Ancora una parola e ti uccido. Sai che posso.» La pala era levata in alto con il taglio pronto a staccargli la testa. «Vattene via, non una parola di più, raccatta la tua roba e sparisci, e fai che non ti incontri mai da solo, lontano da testimoni. Perché quanto è vero Iddio non ti risparmierò un’altra volta. Vai a morire all’inferno, e ti avverto: non voglio che tu dica una parola a nessuno di quanto c’è stato tra te e Leonardo. Se mi arriva all’orecchio anche un unico pettegolezzo verrò a cercarti fino all’inferno per ucciderti.» Poi si girò verso i francesi che continuavano ad assistere stupefatti senza sapere bene cosa fare. «Allez, allez, torniamo a casa. Salai ci sta lasciando. Andiamo a festeggiare.»

    L’ULTIMA FESTA

    Raffaello, Giulio Romano e Gianfrancesco Penni erano arrivati all’alba alla villa di Agostino per controllare che tutto fosse a posto.

    A Roma l’estate trionfava e i profumi del giardino, vivificati dalla brezza umida che saliva dal Tevere, avvolgevano la villa in un’atmosfera incantata, resa ancora più stupefacente dalle decorazioni e dall’oro che scintillava dentro e fuori dell’edificio.

    Sulle facciate, le gentili lesene disposte in tre ordini inquadravano dipinti che narravano le storie antiche e che terminavano in alto con un monumentale fregio con putti che reggevano festoni di fiori e frutta, arricchiti da foglie d’oro. Dalle logge aperte si vedevano le coloratissime pitture realizzate da Raffaello e da Sebastiano del Piombo, anch’esse rifinite con foglie d’oro, che facevano sembrare la villa un prezioso gioiello, un reliquiario, come quelli che custodivano i frammenti dei santi nelle chiese di tutta Europa. Solo che in riva al Tevere non si celebravano martiri e santi, ma ninfe e dèi pagani.

    Raffaello, fermatosi ad ammirare quella gioia per gli occhi, notò decine di sagome muoversi furtivamente tra i portici e il giardino: camerieri e artigiani intenti a disporre ghirlande di fiori tra gli archi, nastri colorati tra i rami degli alberi e sotto le spalliere di rose in pieno sboccio. Quel luogo di Roma era pronto

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