Il tempo delle rose
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Anteprima del libro
Il tempo delle rose - Giuseppe Fanciulli
Il tempo delle rose
Copyright © 1924, 2022 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728436080
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
I
LA PRATELLINA
Credo di aver avuto qualche somiglianza, una volta, con questo piccolo fiore.
Da bimba, portavo quasi sempre dei grembiulini bianchi. I miei capelli scuri, tirati e lisci, erano annodati in due trecce dure, e fermati con due fiocchi neri, piatti, che parevano di ferro battuto.
Tutte le mattine era una lotta per pettinarmi. La forza non valeva, perché mia zia aveva il polso robusto, e per la coda avrebbe potuto trattenere anche un cavallo; ma con certi colpettini avveduti, talvolta riuscivo a far sì che i capelli mi tirassero un po’ meno sulle tempie, e ne ero beata. Scendevo dalla sedia e me ne andavo saltellando; le due trecce si alzavano e ricadevano insieme, e i due fiocchi di ferro battuto mi picchiavano a tempo sulle spalle. Bellissimo.
Non avevo invidia per nessuno, ma guardavo con una simpatia un po’ accorata le bambine che portavano i capelli sciolti. Ce n’erano due nella mia scuoletta, due sorelle, coi capelli tutti ondulati, biondi, lunghi fino alla vita; io le chiamavo Maddalene; e siccome portavano vestiti cortissimi e senza maniche, parevano davvero, come la Maddalena, coperte solamente coi loro capelli. Pensavo che il più bello di tutto, a avere la mamma, fosse il poter portare i capelli in quel modo.
Del resto, i miei pensieri, sotto ai capelli, erano lisci e stretti: e io non me ne accorgevo quasi mai. Qualche volta, però, sentivo in confuso che a gettarsi fra le braccia di una mamma, della mia mamma, con la nuca sul seno e gli occhi al cielo, anche i pensieri tanto strettamente annodati si sarebbero sciolti, si sarebbero riempiti d’aria e di sole, così come erano i capelli delle due Maddalene.
— Sai, zia, mi hanno detto che io dovrei essere bionda (questa fu una delle pochissime idee fantastiche, di quel tempo).
— Perché?
— Perché Laura era bionda.
— Laura, chi? —
La mia zia era una donna alta, grossa, con una testa piccina. Io mi vergognai a dirle che Laura era la donna amata dal Petrarca. Ma quello stesso imbarazzo mi fece sembrare anche più cara « la cosa che sapevo soltanto io ».
Non ricordo altre idee fantastiche. I miei componimenti erano semplici come figure geometriche. Non pensavo mai al tema da svolgere; non sapevo bene, nemmeno, che cosa volesse dire « svolgere ». Però, avevo una calligrafia tonda e chiara, e sui miei cómpiti non si vedeva mai una macchiolina. Scrivevo: Tema…. E sotto: Svolgimento. Poi cinque righe sensate e rapide, e la firma: Laura Gandi. Guardavo la firma, un po’ di traverso, ed ero soddisfatta.
La maestra invece era trasecolata.
— Ma non ti vengono altre idee, altre riflessioni?
— Nossignora.
— Pare impossibile! Senti il lavoro di una delle tue compagne…. —
Stavo a sentire, tranquillissima. Ce n’erano di quelle, fra le mie compagne, che scrivevano anche quattro pagine fitte. Io non avevo né idee, né riflessioni, e non me ne importava nulla.
Parlo, s’intende, di idee e di riflessioni da scrivere; e siccome proprio queste si vedono meglio, tutti in quel tempo mi ritenevano una bambina piuttosto corta. Qualche volta si parlava liberamente dinanzi a me di questa mia ottusità.
— Meglio così, meglio così, — diceva mia zia — piuttosto che una testa come quella di suo padre. —
Io non sapevo che testa avesse avuto mio padre. Ma quel « meglio così » non mi piaceva. No, avrei voluto somigliarlo! Lo ricordavo appena, come una delle figure sbiadite che erano dipinte su un muro della chiesa. Era alto alto, e mi teneva sollevata sulla sua testa; io — così piccina! — vedevo il suo viso rosso riverso, con due vivi occhi azzurri, e appoggiavo i miei piedini nudi sulla sua bocca, sui baffi ruvidi. Così, mio padre? Forse, e forse tutt’altro, perché non l’avevo riveduto più. In casa non c’erano ritratti di lui, e lo zio, mi dicevano, non lo somigliava affatto.
Nel salotto buono, su un tavolino ingombro di ninnoli, c’era invece il ritratto della mamma. La fotografia impallidita era chiusa in una cornice fatta di tante conchiglie. Si vedeva bene un merletto scuro fra due grandi maniche a sboffi; ma il viso era quasi scomparso; appena qualche tratto fine sotto una torre di capelli. A quel ritratto erano congiunti i miei ricordi più antichi. « Guarda la mamma, guarda la mamma! », qualcuno mi diceva tenendomi in braccio, non so bene se la zia o mio padre. « Dàlle un bacino! ». E ancora risento l’impressione del vetro freddo e polveroso sulle labbra. Distraevo la faccia, o mi ostinavo a staccare con due dita una conchigliuzza dalla cornice.
Più tardi, quando incominciai a conoscere un po’ di gente, mi fece maraviglia che certe bambine avessero una mamma come io avevo una zia, ma più giovane e più bella; e curiosamente guardavo il ritratto vecchio. A volte entravo nel salotto sola sola, e andavo a mettermi dinanzi alla cornice di conchiglie, con le mani appoggiate sul bordo del tavolino. Mi pareva che, preso così all’improvviso, il ritratto avrebbe potuto dirmi qualche cosa di più; ma sotto la gran torre di capelli, v’erano sempre quei pochi tratti quasi cancellati. Restavo lì zitta e ferma per un po’ di tempo che mi pareva tanto, e me ne andavo via con un sospiro. Rimpiangevo la mamma; non la mia; quella delle bambine che conoscevo; una, insomma.
Del resto, io ero tranquilla. Mangiavo con grande appetito, dormivo benissimo, quasi senza sogni. A scuola imparavo facilmente, se pure non ero la prima della classe. Dopo la scuola, purché non piovesse, mi conducevano al giardino pubblico, a scavallare per un’ora. In tempo di vacanze, andavo spesso al nostro podere, e passavo le giornate intere sotto il sole, aiutando i contadini nelle faccende. Crescevo sana e forte, con qualcosa di maschio in quella mia testa liscia, nella faccia un po’ dura, nel passo lungo e sicuro.
Nessuno si accorgeva, in quegli anni, che se io potevo parere ottusa — affatto priva di « idee e di riflessioni », — chiudevo in me un desiderio quasi inconsapevole, da quanto era costante, di conoscere da vicino le persone. Il sentirmi assai diversa da quella che apparivo, mi indusse a credere che ognuno fosse nascosto in se medesimo, come un prigioniero o un fuggiasco da visitare o raggiungere.
Una volta mio zio disse, non so più a che proposito: « Questa bambina ha un grande spirito di osservazione ».
« Fammi ridere! » ribatté la zia. « Un’oca come questa non si è mai veduta ».
Invece mio zio aveva ragione. Certo, qualche volta si era sentito penetrare dai miei tondi occhi silenziosi. Perché, naturalmente, più di tutti studiavo quei due che mi erano vicini, e che dovevano servire a farmi conoscere quelle che non c’erano più. Presto, molto presto, mi ero fatta la convinzione che la zia e lo zio non andassero d’accordo; e qualche cosa di simile doveva essere successo fra la mamma e mio padre; soltanto, la mamma era morta, e mio padre era andato per il mondo.
Quei due stavano insieme da trent’anni almeno.
Lo zio Siro era fratello maggiore di mio padre. Apparteneva a una famiglia nobile, di pochi denari. Spesso, quando passavamo dal Corso, arrivati dinanzi a un palazzone nero e scortecciato, la zia diceva: «Vedi, tuo zio è nato qui. Il palazzo era del tuo nonno. A terreno, dove ora ci sono le botteghe, c’erano le scuderie