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Storia di un misogino
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E-book215 pagine2 ore

Storia di un misogino

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Info su questo ebook

Ciò che siamo veramente, la nostra essenza più intima, la nostra anima, si reincarna?

Possiamo scegliere di ricominciare per non ripetere all'infinito gli stessi errori?

Cos'è veramente la felicità?

È giusto rinunciare al proprio benessere per qualcun altro?

Tutte queste domande si pongono i singolari protagonisti del romanzo, che sono in sintesi gli stessi quesiti che ognuno di noi si fa nel corso della propria vita.

Ognuno di questi personaggi racconterà a suo modo la propria storia, all'apparenza, una diversa dall'altra, ma in realtà tutte unite da un invisibile filo che si snoda da una parte all'altra dell'oceano solcando le infinite profondità dei nostri animi.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2022
ISBN9791220397049
Storia di un misogino

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    Anteprima del libro

    Storia di un misogino - Federico Boccuzzi

    STORIA DI UN MISOGINO

    Mi accusarono di aver ucciso delle persone, ma io, di primo acchito, non capii neppure quello di cui mi stessero parlando.

    Solo quando mi mostrarono le foto e mi descrissero i fatti, cominciai a intuire le loro assurde insinuazioni.

    Ma ancora non riuscii a comprendere le imputazioni: quelle non erano persone! Ne sono sicuro.

    Non potevo più sopportare di sentirla gridare in quel modo.

    Così, mentre era china sul forno per togliere uno dei suoi straordinari piatti, mi avvicinai rapidamente, l’afferrai per i capelli e le spinsi violentemente la fronte sullo spigolo della cucina.

    Tutto si muoveva al rallentatore, ma io non indugiai affatto.

    Mi sentivo benissimo, pieno di tutta la mia mascolina potenza.

    Finalmente avevo zittito quella strega.

    I capelli neri le ricaddero sul collo, mentre il resto del corpo si accasciò sul pavimento di ceramica bianco che, pian piano, era inesorabilmente occultato da una densa e lenta macchia rossa.

    Per qualche secondo rimase immobile, accasciata sulle piastrelle, con il volto seminascosto dalla chioma oscura.

    Poi si girò e cominciò ad aprire gli occhi increduli, incapace di intendere la situazione.

    Io non le diedi il tempo di comprendere altro.

    La trascinai nel bagno tirandola per la capigliatura scura.

    La rovesciai come un sacco di patate all’interno della vasca: non avevo nessuna intenzione di dover ripulire troppo sangue. Presi le forbici dal ripostiglio sopra al lavandino e, obbligandola a tenere la bocca aperta, cominciai a tagliuzzare quella maledetta lingua che ora sarebbe stata a ragione biforcuta e che odiavo più della persona stessa.

    Il sangue schizzava ovunque. I miei vestiti ne erano pregni. Stentavo a tenere gli occhi aperti, ma non volevo assolutamente perdermi l’impagabile spettacolo della sua meritata sofferenza.

    Cominciò a divincolarsi e feci molta fatica a tenerla immobile.

    Aveva lo sguardo pieno di terrore: che goduria.

    Avevo sopportato abbastanza le sue vessazioni.

    Ero stanco di essere trattato come un incapace.

    Io sono l’uomo e non lei.

    La vista della sua bocca piena di sangue mi regalava un piacere inimmaginabile.

    Stava soffocando, affogandosi nel suo stesso gorgogliante liquido vitale.

    Poi quella cagna di mia moglie mi chiamò dalla cucina e il sogno scaturito dalla mia fervida immaginazione ebbe fine.

    Fui catapultato di nuovo nella vita reale. Ero di nuovo in quella odiosa e opprimente casa.

    Gridava come suo solito.

    Chissà, forse un giorno avrei potuto realizzare quella mia, tanto anelata, fantasia...

    25 anni prima

    Correvo spensierato come dovrebbe farlo ogni bimbo di sette anni.

    Quella era stata una bella giornata.

    Avevo conosciuto un nuovo amico a scuola. Non ricordavo come si chiamasse, ma era simpatico. Gli avevo promesso che il giorno dopo, quando ci fossimo rivisti, gli avrei portato un gioco in regalo.

    Cominciai a rovistare fra i miei oggetti e trovai una vecchia macchinina rossa che a me piaceva tanto.

    Quello era sicuramente un ottimo oggetto per uno scambio.

    L’avrei portata a scuola e l’avrei data a quel nuovo amico a cambio del suo presente.

    Mia madre stava trafficando in cucina come faceva ogni giorno, pulendo e ripulendo quasi ossessivamente ogni scaffale, ogni più recondito angolo del lavabo, strofinando i fornelli perché luccicassero e brillassero.

    Amavo mia madre, come ogni bimbo di sette anni. Era il mio punto fermo, il mio rifugio, la mia ancora, la mia culla.

    L’ingenuità della mia giovane vita non mi permetteva di pensare ad altra cosa che non fosse quella: mia madre era la perfezione assoluta, l’esempio da seguire, il paradigma con cui essere programmato. In quel momento, potevo perdonare ogni errore a quella benedetta donna.

    Le mie gambette mingherline, sgusciando dai pantaloni corti rossi, sgambettavano veloci attraverso le stanze della nostra casa in periferia.

    Mi avvicinai a lei, felice e sorridente. Ero entusiasta della mia nuova amicizia e volevo raccontarla alla persona che per me era la più preziosa.

    «Mamma, mamma. Posso regalare questa macchinina a un mio amico?»

    «Perché?»

    «Lui ha detto che domani a scuola mi porterà un gioco e faremo a cambio.»

    «E come si chiama questo nuovo amico?»

    «Boh. Non lo so. Però è mio amico. La maestra ha detto che la sua famiglia è venuta a vivere qui da poco. Adesso lui è il mio compagno di banco. Domani può venire a giocare qua a casa con me?»

    «Non lo so, domani ne parliamo. Adesso vai subito a ordinare la tua stanza. Non voglio vedere niente per terra. Ti ho già spiegato che per terra è pieno di batteri che ti fanno venire le malattie.»

    «Ma non posso farlo dopo? Non posso uscire un po’ a giocare? Ti prometto che dopo metto tutto in ordine.»

    Il freddo e schioccante schiaffone arrivò all’improvviso, come sempre.

    Cercai affannosamente dentro di me una giustificazione a quell’insensata violenza.

    Perché mia madre mi picchiava? A me non sembrava che quel mio semplice desiderio, quella mia logica richiesta si meritasse una reazione tanto dolorosa per l’anima e per il fisico.

    Volevo solo giocare un po’, poi avrei messo in ordine tutto. Fuori c’era ancora luce.

    «Conosco perfettamente le tue promesse. Il tuo dopo equivale a mai. Ti ho detto di andare a ordinare la tua stanza prima che torni tuo padre. Vai subito!»

    Ora sì che era tutto chiaro! La mamma non voleva che papà, tornando a casa, trovasse qualcosa fuori posto. Lei sapeva che questo a lui non piaceva.

    Mi afferrò per il braccio, mi voltò violentemente in direzione della porta della mia stanza e mi diede un secondo umiliante scappellotto.

    «Muoviti ti ho detto! Vai e metti tutto in ordine.»

    In effetti, la mamma aveva ragione. Era necessario sbrigarsi e mettere ogni cosa al suo posto. Prima che tornasse papà.

    Ora era chiaro, ma non era necessario che continuasse a picchiarmi in quel modo. Avevo capito.

    Rimisi la macchinina nella tasca dei pantaloni e lentamente m’incamminai verso la mia stanza.

    Comprendevo perfettamente la preoccupazione della mamma, ma quella perenne atmosfera tetra m’infastidiva moltissimo.

    Ordinai scrupolosamente ogni cosa.

    Mio padre e soprattutto mia madre sarebbero stati contenti.

    Mi piaceva quando loro erano contenti, quando un sorriso di uno dei due illuminava tutta la casa, squarciando le tenebre quasi costanti in cui vedevo avvolta la nostra vita.

    Quando ormai avevo terminato il mio compito, sentii che la porta d’entrata si apriva.

    Sapevo perfettamente chi fosse.

    A quell’età non ero sicuro di cosa facesse esattamente mio padre, ma una volta, quando vennero a visitarlo dei colleghi, li sentii parlare di ricerche sui pesticidi; erano impegnati nell’ultimare la formula di un nuovo prodotto per il mercato agricolo.

    I suoi compagni di lavoro lo accusavano di aver creato una sostanza troppo pericolosa per la salute umana, ma lui insisteva dicendo che le risorse della terra, prima o poi, si sarebbero esaurite e che era necessario salvaguardare il poco che restava. A nulla valsero le insistenze dei colleghi convinti che fosse urgente un ritorno alla tecnica della rotazione delle colture.

    Ma Karl, mio padre, era irremovibile nelle sue convinzioni e sosteneva che quell’antica pratica agricola non gli avrebbe riempito le tasche di soldi, il pesticida sì. Era la prima volta che lo vedevo tanto arrabbiato.

    Con un po’ di timore, ma con tanta speranza, m’incamminai verso la sala da pranzo da dove udivo giungere le voci dei miei genitori.

    Automaticamente cercai di assumere un’espressione sorridente, nell’illusoria fiducia che questa mia semplice posa fosse sufficiente a contagiare anche gli adulti della casa.

    Con tutte le mie forze volevo che fosse una serata, se non felice, quantomeno serena.

    Nasceva in me spontaneamente il desiderio di creare in tutti i modi quell’armonia che a un certo punto era venuta a mancare nella famiglia. Probabilmente, non c’era mai stata.

    Oltrepassai l’entrata del soggiorno. La scena era quella a me ormai nota.

    Rebecca, mia madre, a testa bassa preparava la cena, in silenzio.

    Mio padre, Karl, frugava nel frigo cercando qualcosa da bere.

    «Ciao papà.»

    Accelerai il passo allungando le braccia col fermo proposito di abbracciarlo.

    Karl troncò il mio tentativo quasi sul nascere.

    Senza nemmeno toccarmi, mi fermò prima che mi avvicinassi troppo.

    «Stephan, ti sei lavato le mani?»

    «Sì papà, me le sono lavate.»

    Ormai, anche per quella volta, il gelo e la delusione avevano occupato il breve spazio che ci separava.

    Rebecca sollevò lievemente lo sguardo, sbirciando la scena di sottecchi. Quell’uomo non era più lo stesso di cui si era innamorata più di dieci anni prima. Il dolce, gentile, premuroso e divertente Karl aveva lasciato il posto a una copia sbiadita di mio nonno.

    A volte aveva l’impressione di non essere sposata con suo marito, ma con la reincarnazione di suo suocero. Quel vecchio ipocondriaco aveva lasciato un segno così profondo nella vita di Karl da trasformarlo in un suo duplicato.

    A lei non era mai piaciuta quella famiglia, ma Karl invece l’aveva incantata.

    Odiava far visita ai genitori di mio padre. Quando era con loro lui si trasformava. Diventava serio e perdeva quell’aura tanto dolce che lo aveva caratterizzato nei primi anni della loro relazione.

    Non conobbi mai in profondità mio nonno, ma i ricordi e i commenti di mia madre dipingevano una persona dominatrice, presuntuosa, legata a dettami religiosi troppo stretti anche per Rebecca che frequentava regolarmente la chiesa. Mia nonna è stata per me una figura quasi assente, invisibile. Neppure ricordo il giorno in cui morì.

    Dopo la scomparsa del nonno, Karl aveva avuto una sorta di recesso nel suo stato d’animo. L’allegria e il brio che avevano affascinato mia madre erano sfumati per sempre.

    Anche il lavoro era diventato un mero mezzo per aumentare il conto in banca e null’altro, e bisogna ammettere che in quello era molto bravo.

    Il desiderio e l’entusiasmo per migliorare il mondo, che avevano contraddistinto l’inizio della sua carriera, in breve soccomberono alla fredda avidità di denaro.

    Rebecca si sentiva morire in vita, ogni giorno di più.

    E non solo l’assurda ossessione per la pulizia, ma anche quella latente e minacciosa violenza erano un’eredità del nonno.

    Più volte Karl l’aveva schiaffeggiata e ultimamente tutto era diventato più difficile.

    Temeva che cominciasse a infierire anche su di me. SUO figlio.

    Nel presente

    «Stephan. Puoi venire qui, per favore? Avevi detto che avresti steso i vestiti. Sono ancora nella lavatrice. Se non lo puoi fare me lo dici prima, così mi evito la fatica di contare su di te.»

    «Mi spiace, ma non ho fatto in tempo. Sono tornato solo venti minuti fa dal lavoro.»

    «Sempre scuse. Così ora ci vorrà del tempo prima di poter cenare. La verità è che non si può mai contare su di te. Per fortuna non abbiamo figli. Non saresti stato sicuramente un padre esemplare.»

    «Bastarda. Ti odio, non ti sopporto. ...se non lo puoi fare, me lo dici prima. Come se fossi un incapace. Lei, invece, è brava a fare tutto.

    Ma chi si crede di essere? Con che diritto mi parla in questo modo? Arriverà il giorno in cui si presenterà l’occasione buona per farti tacere per sempre.

    Ma chi me l’ha fatto fare di sposarmi con questa. È sempre stato tutto falso. Non l’ho mai amata. Sinceramente non penso nemmeno di aver mai provato qualcosa come l’amore.»

    Ero indignato. Anni di sopportazione silenziosa.

    Fino a quel momento avevo obbedito alle silenziose e ferree regole che mio padre e mia madre mi avevano impartito.

    Ma tutta la struttura cominciava a vacillare. Non mi dava più quella sicurezza che avevo avuto fino ad allora.

    La certezza che mi induceva a pensare che le cose sarebbero migliorate e che mia moglie avrebbe finalmente rispettato l’uomo che, generosamente, l’aveva accettata al suo fianco, si faceva sempre più fioca.

    Sentivo che quella lieve speranza, ormai, non aveva più senso.

    Avevo la sensazione di essere un vulcano pronto per esplodere.

    «Allora? Mi hai sentito o no?»

    «Allora cosa, scusa?»

    «Puoi svuotare la lavatrice? Non ho voglia di aspettare due ore per cenare. Anch’io ho lavorato tutta la giornata sai. E anch’io sono stanca. Se tu aiutassi un po’ di più, tutto sarebbe molto più facile per me.»

    «Sì certo! La svuoto immediatamente.»

    Ripetevo a me stesso di restare calmo.

    Aspettare! Sì, dovevo aspettare. Ma una parte di me sussurrava costantemente, e a ragione, che non sarebbe mai cambiato niente.

    La sua sola presenza era diventata quasi insopportabile. Tutto di lei mi provocava nausea.

    Non avevo molte scelte. O esplodere in una decisiva e mortale eruzione o spegnermi completamente in una decisa e letale rassegnazione.

    Ancora non sapevo cosa avrei fatto. Per ora dovevo solo restare calmo.

    Una sola cosa era certa: odiavo mia moglie.

    D’altronde, cosa avrei potuto aspettarmi da una donna?

    Attaccano per mascherare la propria inferiorità.

    Perché ormai, mi sembrava assolutamente chiaro che le donne fossero esseri inferiori. Non servono ad altro che a soddisfare le voglie sessuali, e spesso con scarsi risultati.

    Pensano ai sentimenti. Certo, ai loro sentimenti, sicuramente non ai miei, di cui non hanno la minima considerazione. Nessuna donna ha mai pensato alle mie esigenze. Nessuna. E a pensarci bene non ne ho mai avuto bisogno.

    Ma l’importante, in quel momento, era mantenere un atteggiamento neutro in modo che non trasparisse nulla della rabbia che sempre più si stava impadronendo di me.

    «Ecco fatto! Ho steso tutti i vestiti. Sei contenta?»

    «Guarda che ci sono anche i tuoi di vestiti, non solo i miei. L’hai fatto anche per te. Non è un favore che hai fatto a me.»

    «Ok. Comunque sia l’ho fatto, quindi se possiamo cenare, così poi vado a fare quattro passi.»

    «Fra dieci minuti è pronto. Vai a lavarti le mani.»

    Quell’ultimo ordine ebbe l’identico effetto di una scintilla in un covone di fieno. Sapevo che, anche se molto gradualmente, tutto sarebbe scomparso in un’enorme fiammata.

    Ma mantenere la calma era prioritario.

    22 anni prima

    «Forza Stephan! Vai a lavarti le mani. Ormai la cena

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