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Ti amo da sempre
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E-book349 pagine4 ore

Ti amo da sempre

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Info su questo ebook

Hadley è la mia migliore amica. Ne abbiamo passate tante e conosce i miei segreti... tranne uno. Il mio disperato bisogno di lei è tatuato con l'inchiostro sul mio corpo, ma non riesco a dirle ciò che provo. Anche se Hadley ha atteso a lungo di sentirmi pronunciare le fatidiche parole... 
Siamo cresciuti potendo contare soltanto su noi stessi e lei è l'unica persona ad avermi mai fatto sentire a casa. E io cosa ho fatto? Sono scappato quando aveva più bisogno di me, e ho distrutto la nostra possibilità di stare insieme. Ma ho intenzione di rimediare.

Tyler King
e cresciuta a Orlando, in Florida. Si è laureata in scrittura creativa presso la University of Central Florida. Coltiva la passione per la scrittura lavorando anche come giornalista.
LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2019
ISBN9788822735607
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    Anteprima del libro

    Ti amo da sempre - Tyler King

    EN2405-Ti-amo-da-sempre.jpglogo-EN.jpg

    2405

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi

    e avvenimenti descritti sono il frutto dell’immaginazione dell’autrice.

    Qualunque analogia con fatti, luoghi o persone reali,

    esistenti o esistite, è del tutto casuale.

    Titolo originale: The Debt

    Copyright © Tyler King 2016

    All rights reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Stefano Michetti

    Prima edizione ebook: ottobre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3560-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Indice

    Prologo

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo venti

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    Capitolo ventisette

    Capitolo ventotto

    Capitolo ventinove

    Capitolo trenta

    Capitolo trentuno

    Capitolo trentadue

    Capitolo trentatré

    Capitolo trentaquattro

    Capitolo trentacinque

    Capitolo trentasei

    Capitolo trentasette

    Ringraziamenti

    Tyler King

    Ti amo da sempre

    marchiofront.tif
    Newton Compton editori

    Per Hadley

    Per mio marito, il mio migliore amico.

    Adesso tocca a te

    Per voi.

    Avete proprio ottimi gusti

    Per me.

    Bel lavoro

    Prologo

    Sessione 3

    Le nostre conversazioni iniziavano sempre allo stesso modo. Questa donna era interessata soltanto alle parti peggiori di me. Al lato brutto. Vergogna e contrizione, e a tutti i modi che avevo trovato per mortificarmi da…

    «Perché sei qui?».

    Queste stanze mi rendevano ansioso. La claustrofobia provocata dall’attenzione totale di una donna. Aveva ancora l’odore del vialetto dell’università: jeans umidi ed erba bagnata tra i lacci delle scarpe. Mi osservava il ginocchio. Mi osservava mentre infilavo un coltello di plastica nel gesso che avevo alla mano destra. Con le dita toccava lo schermo dell’iPad seguendo il ritmo della mia lingua che batteva sui denti. E aspettava, paziente, una risposta. Una pazienza calma e silenziosa che non faceva altro che irritarmi ancora di più. Era una cazzo di statua di cera di perfetta pazienza del cazzo.

    «Perché sei qui?»

    «Perché ho rotto la mascella a un tizio». E mi sono rotto la mano per il disturbo.

    «Perché sei qui?»

    «Non è stata una mia scelta».

    «Ma perché sei qui, Josh?».

    Perché diciotto anni fa una donna di cui ricordo solo la nuca mi ha abbandonato su un autobus. Qualunque fosse la mia risposta, non importava. Non era abbastanza buona. Abbastanza umiliante. Non era interessata al mio rimorso. Non ne avevo affatto. Questa donna voleva solo aprirmi e guardarmi contorcere sul pavimento.

    «Perché sei qui?»

    «Ha intenzione di cominciare ogni conversazione con la stessa domanda?». La punta del coltello di plastica si ruppe dentro il gesso. Porca puttana.

    «Josh».

    «Ho già risposto alla domanda».

    Voleva sospirare. Glielo leggevo negli occhi. La noia di questa stanza era contagiosa.

    «Uno scoppio di rabbia ti ha portato su quella sedia, ma voglio sapere come ci sei arrivato». Posò l’iPad e accavallò le gambe, incrociando le dita in grembo. «Che effetto fanno?»

    «Cosa?»

    «Gli attacchi di panico. Cosa si prova?».

    Chiusi gli occhi e mossi il polso sull’asta recisa del coltello. «È come svegliarsi con le mani legate dietro la schiena e un sacchetto di plastica in testa. È come morire di terrore».

    «Cominciamo da qui…».

    Capitolo uno

    Ero nella doccia, con le luci spente e la fronte appoggiata alle piastrelle. Il palmo della mano era aperto, e i polpastrelli appoggiati alle fughe di gesso in cerca di supporto. Un getto bollente mi colpiva la schiena, ma non riusciva a eliminare il gelo che mi pompava nelle vene. Tenevo in mano il cazzo semiflaccido, e tremavo mentre i polmoni dolevano a ogni respiro che facevo per scacciare il groppo in gola. Il mio corpo si rannicchiò, si contrasse. La gravità mi schiacciò. Premeva e spingeva finché il peso non fu troppo, il dolore insopportabile e collassai nella vasca, nudo e tremante. La stanza si muoveva. Serrai i denti, strinsi i pugni. Una scarica elettrica mi colpì la testa e mi intorpidì la faccia. Il veleno nero e ripugnante della nausea si fece strada nel mio stomaco. Gorgogliando. Ribollendo. Mi voltai, vomitando acido e whiskey, diventando un ammasso di agonia tremolante in una putrida zuppa di sudore e bile che se ne andava nello scarico ai miei piedi.

    L’acqua diventò fredda prima che riuscissi a muovermi. Dal mio petto fuoriuscì un pianto silenzioso. Tossendo, mi soffocai con l’aria che mi riempiva i polmoni. Lo sfinimento era un sollievo.

    Quando l’attacco di panico svanì, cercai il sapone e lo strofinai su entrambe le mani, poi detersi e risciacquai il mio corpo da cima a fondo. Lo odiavo. Odiavo toccarmi la pelle con le dita increspate mentre avevo ancora i nervi tesi.

    Appassito, appoggiai le mani a terra e mi arrampicai sul muro per mettermi in piedi, con le gambe tremolanti. I miei muscoli erano di fango. Traballando uscii dalla doccia e presi un asciugamano.

    In camera mia una donna nuda dormiva nel mio letto. Lasciai cadere l’asciugamano e mi infilai sotto le coperte.

    Ma il sonno non sarebbe arrivato.

    Ore dopo, poco più tardi delle otto del mattino, ero ancora sveglio quando la donna accanto a me si stiracchiò e cercò il cellulare sul comodino. Appoggiato alla lettiera osservai la sagoma di una bionda dalle gambe lunghe che si vestiva ai piedi del letto. Infilò le tette in un reggiseno push-up e poi indossò un abito nero aderente.

    «È stato divertente», disse. «Ci vediamo in giro, MacKay».

    «Ci vediamo».

    Zompettò via con le scarpe in mano e chiuse la porta dietro di sé. Sapevo che non avrei dovuto portarmi a casa Kate, ma non avevo la lucidità per fare altrimenti. Le donne erano sempre state di passaggio nella mia vita. Questa non era differente.

    Mi tolsi le coperte di dosso e attraversai la stanza fino a raggiungere lo specchio a muro accanto all’armadio per ispezionare il nuovo tatuaggio intorno alla parte destra della gabbia toracica. La pelle era ancora morbida e gonfia, il risultato di sei ore sotto gli aghi per continuare il disegno che mi decorava la schiena. Bear era un artista con lo strumento del dolore.

    Gli occhi mi caddero sulla foto incorniciata a faccia in giù su una mensola: un giovane me con lo smoking, sul palco insieme ai miei genitori adottivi accanto a un pianoforte prima del mio concerto da tutto esaurito. Era uno dei giorni più belli della mia vita, e non riuscivo più a guardarlo.

    A quel tempo ero più magro, e allampanato. Il mio corpo non si era ancora formato. Accanto ai miei genitori pallidi e lentigginosi risaltavo come uno di quei bambini esotici adottati da celebrità yuppie. Pelle scura. Capelli neri. Occhi verdi. La gente mi diceva che ero interessante da guardare, da ammirare a bocca aperta. Così a poco a poco ho ricoperto tutta la mia bella carne di tatuaggi.

    Il primo è stato un corvo con le ali aperte che mi sono fatto disegnare sul petto. La punta di entrambe le ali era rivolta verso il basso. All’epoca avevo diciassette anni. Dopo la prima seduta capii perché le persone dicevano che i tatuaggi erano una droga. Suppongo che diventai ghiotto di dolore, perché quando la moglie di Bear mi propose di aprirmi un buco nelle labbra lasciai che mi infilasse un ago nella faccia. Per divertimento. All’età di ventuno anni avevo le braccia completamente colorate. Mio padre mi disse solo di non spingermi oltre un certo limite con le modifiche. Presi quella definizione non proprio alla lettera.

    Dal cassetto più in alto presi un tubetto di unguento antibatterico e ne spalmai un bel po’ sul nuovo tatuaggio. Sentii lo stomaco brontolare. Era vuoto e arrabbiato per la sera prima. Poi scavai tra i cumuli di vestiti sparsi sul pavimento e presi una camicia nera e un paio di jeans scuri, passabili dal punto di vista della pulizia.

    Quando arrivai in fondo alle scale sentii un paio di occhi castani che mi scrutavano dal salotto. Dal rituale del mattino dopo non era mai scaturito niente di buono. Tuttavia, non riuscii a evitare di guardare la mia coinquilina sul divano di pelle con il portatile aperto e le cuffie nascoste dai lunghi capelli scuri. Teneva sette dita in alto sulla testa. Hadley tornò a guardare lo schermo invece di aspettare la mia reazione. Come se non gliene fregasse un cazzo.

    «Non hai niente di meglio da fare che farmi vergognare?»

    «E tu non hai un appuntamento per farti analizzare il cazzo alla ricerca di malattie veneree?»

    «Vaffanculo».

    «Vacci tu».

    Questa era la normalità della domenica mattina. Alzai il dito medio e andai in cucina. È stato divertente. Facciamolo ancora la settimana prossima, ti va? Dovevo ancora decifrare il suo metodo di punteggio. Chiedere un chiarimento avrebbe solo confermato la sua partecipazione alla mia vita sessuale.

    A nessuno di noi piaceva vivere insieme. La casa dei miei, sperduta nel bel mezzo del nulla, era troppo grande per due persone ma troppo piccola per noi due. Da quando mio padre si era trasferito per lavoro a New York durante il nostro primo anno di università, ogni giorno era una tortura diversa. Ma Hadley aveva bisogno di me. E sebbene non riuscissi proprio a starle vicino non l’avrei abbandonata di nuovo.

    E inoltre, sapeva cucinare. Entrai in cucina e tolsi la stagnola dal cibo che Hadley mi aveva lasciato sui fornelli. Dopo essermi versato un bicchiere di succo d’arancia e riempito un piatto mi sedetti al bancone di granito che incorniciava la cucina gourmet. Le sue uova strapazzate, il bacon e i toast alla cannella erano una ragione sufficiente per alzarsi al mattino.

    Hadley non era cattiva. Sapevo bene di potermi comportare da bastardo irrispettoso e burbero. I nostri battibecchi non erano solo colpa sua. Ci eravamo rassegnati a fare buon viso a cattivo gioco per i successivi due anni, fino alla laurea. Hadley poi si sarebbe trasferita a Boston per la specializzazione. Io sarei andato a New York nel momento esatto in cui avrei mantenuto la promessa fatta a papà e avuto la laurea in mano. Nessuno di noi aveva la malsana idea che questa situazione sarebbe durata per sempre.

    «Sei uno stronzo». Hadley entrò in cucina e si appoggiò al mobile accanto ai fornelli. Indossava la mia felpa nera dei Tool con le maniche arrotolate, che le cadeva sulle gambe fino all’inizio delle cosce. E poi quegli shorts neri che mi facevano drizzare il cazzo ogni volta che si piegava. Quegli shorts da paura.

    Avvicinandosi a me prese un toast dal mio piatto, ignorando gli altri tre che erano sul vassoio. Faceva sempre così, e mi mandava in bestia. Dato che lei era l’unica a cucinare, avevo smesso di cercare di interrompere questa sua abitudine e di insegnarle a non allungare le mani da ladra.

    Invece di rispondere scrollai le spalle e mi infilai un’altra forchettata in bocca.

    «Stephanie Slater mi ha mandato tre messaggi in cui mi chiedeva di chiederti di chiamarla». I suoi occhi scuri guardavano dietro di me o sul pavimento, dappertutto tranne che nei miei occhi. «Fatti da solo il lavoro sporco. Ho già ripulito fin troppo i tuoi casini».

    «Sai quanto detesti il confronto».

    «Questa è nuova, anche per te. Se ti scopi la sorella di un tuo amico potresti almeno rispondere alle sue chiamate».

    «Lo terrò in mente».

    «E smettila di scoparti le psicopatiche. Lei ha tutta l’aria di essere una stalker».

    «C’è altro?»

    «Se Scott si presenta con un’accetta non ti coprirò». Un angolo delle sue labbra si increspò in un sorriso diabolico.

    Le feci l’occhiolino. Hadley rise, roteò gli occhi e se ne andò insieme alla mia ultima fetta di bacon.

    Non avevo mai fatto arrabbiare Hadley di proposito, ma non mi ero neanche sforzato troppo per tenerla buona. Quella nave era salpata, aveva colpito un iceberg, imbarcato acqua, si era spezzata a metà e aveva trascinato a fondo tutte le anime a bordo molto tempo fa.

    Metà del tempo avrei voluto strangolare quella ragazza. Durante l’altra metà l’avrei avvolta tra le coperte e le avrei giurato fedeltà eterna se avesse sorriso ancora. Tenevo molto ai rari momenti in cui Hadley era rilassata, allegra, e simile alla vecchia sé stessa. Avevo un debito con lei, e avrei passato tutta la vita a cercare di ripagarlo. Le dovevo la mia testa. E se si fosse presentata la possibilità, mi sarei preso un proiettile al posto suo.

    Dopo colazione Hadley era seduta sul letto con il suo album da disegno in grembo. Le schegge di carboncino tra le dita sfregavano sulle pagine, facendo un lieve rumore nel silenzio dell’ambiente. Mi piaceva guardarla al lavoro. L’espressione di estrema concentrazione sul suo viso. La testa che si muoveva al ritmo della musica che aveva nelle cuffie.

    Mi sedetti sul bordo del letto. Hadley nascose l’album quando cercai di sbirciare. Allungai una mano e le tolsi una cuffia. La voce di Fiona Apple risuonò dal minuscolo altoparlante.

    «Devo portare la Les Paul al negozio di chitarre. Ti va di venire?»

    «In che condizioni è?»

    «Il manico si è allentato. Suona di merda. Vaughn dovrà smontarlo e risistemarlo da capo».

    «Che stronzo».

    Non Vaughn. Lo stronzo era il bastardo ubriaco al mio concerto della settimana prima che era salito sul palco per mostrarci la sua imitazione di Slash. Aveva preso la mia Gibson Les Paul, così lo avevo spinto per terra ma era riuscito a portare giù con sé la mia chitarra.

    «Possiamo passare dal campus a prendere i libri e poi al supermercato sulla via del ritorno».

    «Andrai a lezione questo semestre?», disse, sollevando un sopracciglio in modo impertinente.

    «Ci andrò quando sarà necessario».

    «Certo. Cosa mai potrà insegnare un istituto di istruzione superiore al prolifico Josh MacKay?»

    «Sto ancora aspettando di scoprirlo».

    Hadley roteò gli occhi e mi colpì con l’album da disegno. «Portami al negozio di arte e siamo d’accordo».

    Davvero, Hadley non pretendeva mai troppo da me.

    «Certo. Vuoi che ti aspetti fuori?». Scesi dal letto e mi infilai le mani nelle tasche posteriori.

    «No». Si alzò e posò l’album sul comodino. Si legò i capelli in una coda e si cinse il collo con i cavi delle cuffie. «Sono pronta».

    Procedette meccanicamente verso le finestre della camera che davano sul bosco dietro la casa. Nello stesso ordine, con la stessa routine, Hadley aprì e chiuse le serrature cinque volte. La sua mano rimase immobile per qualche secondo. Serrò le dita per ripetere il gesto. Poi fece un respiro profondo e girò tutte le stanze.

    Seguii Hadley mentre compiva il suo rituale a ogni porta e finestra. Non le mettevo mai fretta, non ero impaziente che finisse il suo programma. Lo facevo per lei. Era mio compito rassicurarla in seguito, quando arrivava sull’orlo di un attacco d’ansia perché non era sicura di aver chiuso tutti i punti di accesso.

    Quel giorno si era comportata bene, e le sorrisi quando arrivammo al tastierino dell’allarme installato all’ingresso meno di quattro minuti dopo. Mi sentivo sempre un arrogante di merda perché cercavo di offrirle la mia approvazione, ma Hadley sembrava essere orgogliosa dei giorni in cui non tornavamo quelle due o tre volte al secondo piano per ricominciare l’ispezione da capo.

    Inserì il codice tre volte, disinserì l’allarme tre volte, e non esitò a fare un passo indietro quando fu pronta a lasciarmi uscire. Di sicuro una buona giornata.

    Davanti la porta d’ingresso Hadley chiuse e lasciò la mano sulla maniglia solo per diciassette secondi prima di sospirare e assumere un’espressione rilassata. Aprì lo sportello del lato passeggero della mia Mustang nera del 1965 e la osservai sedersi e controllare l’app di sicurezza sul cellulare per verificare di nuovo che il sistema d’allarme fosse inserito.

    In macchina rimase seduta con i pugni chiusi e le nocche bianche mentre il motore ringhiò e prese vita. Un dito si fece strada sullo stereo per mettere i Black Keys a un volume assordante. La sua attenzione era rivolta davanti a sé, al vialetto di terra costeggiato di alberi che raggiungeva la strada principale.

    Quando la casa dalla facciata di pietra non fu più visibile dietro di noi e dietro la foresta e le gomme passarono dal terriccio all’asfalto, spinsi sulla frizione e ingranai la marcia. Hadley abbassò il finestrino proprio mentre superavamo sfrecciando il segnale stradale che indicava il limite di velocità. Le piaceva quando andavo veloce, per cui fui più che felice di accontentarla.

    Capitolo due

    La spirale discendente verso questa spettacolare situazione di stagnante atrocità tra me e Punky cominciò quattro anni prima. Fu la notte migliore della mia vita, fino a un certo momento.

    Penultimo anno delle superiori, la squadra di football aveva appena vinto la partita che si svolgeva in concomitanza con il raduno degli ex-studenti. Nella nostra piccola città la gente dava molta importanza a queste stronzate. Era una giornata intera di comizi, parate e falò che culminava con sbronze collettive e detonazioni di piccole bombe colorate. Quella sera dovevano esserci almeno un centinaio di persone ammassate in tutte le stanze e sul prato della casa di Nick Watson. Macchine parcheggiate in doppia e tripla fila avevano ostruito quel cul-de-sac e quasi l’intero quartiere.

    Nel giardino sul retro io giocavo a freccette con i miei amici Corey e Trey, mentre i fuochi d’artificio scoppiettavano nel cielo e ragazzi atletici e seminudi inseguivano le cheerleader con pistole ad acqua riempite di tequila da quattro soldi. Stephanie Slater ronzava intorno a noi, con il passo incerto dovuto alla vodka che aveva portato di nascosto. Quando mi offrì di bere uno shot infilato tra le sue tette risposi che dovevo andare a pisciare.

    Entrai nel soggiorno e oltrepassai la cucina. La musica diventava più alta man mano che attraversavo quel tritacarne di corpi sudati. Decine di conversazioni incoerenti cercavano di essere ascoltate sopra i bassi che facevano tremare i muri a stampa floreale. Quando trovai Nick che spingeva Hadley contro una porta, con le mani su di lei, persi la testa.

    Il mio pugno gli spezzò le ossa prima ancora che decidessi coscientemente di colpirlo. Un solo cazzotto, e gli aprii uno squarcio al centro della faccia. Due sottili rigagnoli di sangue gli scesero fino alle labbra e sul mento, prima di cadere sulla camicia.

    «Josh! Ma che diavolo! Sta sanguinando!». Hadley mi si aggrappò al braccio, e fu l’unica così che mi impedì di sferrare un secondo colpo.

    «Tieni le tue cazzo di mani lontano da lei, figlio di puttana. Giuro che ti rompo la faccia se provi un’altra volta a…».

    Corey e Trey mi afferrarono, e uno di loro mi prese il collo con un braccio. «Stai calmo, amico. Andiamo. Lascia perdere».

    «Perché non ci provi, stronzo».

    Cercai di divincolarmi per raggiungere la persona che aveva appena parlato da sotto i fazzolettini sporchi di sangue sulla faccia.

    «Basta, Josh. È finita. Andiamo». Corey mi spinse verso la porta.

    Era più grosso di me, quindi non avevo scelta. Una volta fuori continuò a tenermi il braccio intorno al collo fin quando non arrivammo alla mia macchina.

    «Posso lasciarti andare o devo sbatterti per terra?»

    «Sto bene. Lasciami».

    «Dillo gentilmente».

    «Cavolo, Corey. Sto bene. Ok?».

    Mi lasciò andare e sorrise come un idiota. «È stato un bel colpo. Lo hai steso con un solo pugno».

    «Mi prendi in giro?». Hadley mi si parò di fronte, con le spalle in alto e ben strette. «Cosa pensi che diranno i suoi genitori quando lo scopriranno? Merda, Josh. E cosa diranno i tuoi?»

    «Cosa? Preferivi che ti lasciassi lì a farti palpeggiare da quello stupratore?»

    «Non essere ridicolo».

    «Ti ha toccato! Ti ha palpato. Non lascerò cadere la cosa».

    «E avrei potuto pensarci da sola! Non dovevi colpirlo».

    Scrollai le spalle. «Mi ha dato una bella sensazione».

    I ragazzi risero. Hadley ci squadrò tutti, con occhi acuti e feroci.

    «I ragazzi sono davvero stupidi. Dico sul serio. Siete tutti animali».

    «Oh, eddai Punky. Non arrabbiarti con me». Le gettai le braccia intorno alla vita e la strinsi in un abbraccio. «Stavo solo cercando di proteggerti. Di fare l’uomo. Di prendermi cura della piccola».

    «Zitto, stupido». Mi appoggiò la guancia sul petto e mi strinse più forte.

    «Andiamo. Questa festa fa schifo. Sei pronta per andare a casa?»

    «Certo».

    Quando arrivammo a casa di Hadley ero stato perdonato per essermi comportato in quel modo. Parcheggiai dove in genere c’era la sua macchina, che era di nuovo dal meccanico. Nonostante avesse un’eredità che le avevano lasciato i genitori naturali si rifiutava di spendere soldi per acquistare un nuovo veicolo che non perdesse olio e non si fermasse sulle salite.

    Il padrino di Hadley, Tom, era un camionista. Faceva orari strani viaggiando su e giù per lo Stato. Se la notte non era a casa Hadley dormiva da me quando eravamo più piccoli. Una volta cresciuti io dormivo da lei sul divano. Sapere che Hadley non restava da sola tutto il tempo faceva stare meglio Tom, e io avevo la scusa per poterla vedere di notte.

    «Resti qui, giusto?». Hadley si gettò sul divano e accese la tv.

    Erano solo le undici, ancora presto per il venerdì sera.

    «Sì». Andai alla mensola dei DVD ed esaminai la collezione. Avevamo già visto quasi tutti i film almeno tre volte. «Divertente, pauroso, esplosioni, o commedia sentimentale?»

    «Uhm. Qualcosa di Stephen King ma non It. Qualunque film tranne quello».

    Hadley era rimasta terrorizzata dai clown sin da quando Tom le fece vedere il film all’età di dieci anni. Non proprio un’ottima mossa da genitore, ma non è che potesse fare altrimenti. Crescere è difficile. Presi Shining. L’ultima volta che lo avevamo guardato era stato durante una tempesta furiosa. Per passare il tempo avevo inseguito Hadley per casa con la mia migliore imitazione di Jack.

    Dopo aver preparato i popcorn e preso da bere io e Hadley ci sistemammo sul divano. Presi la coperta posata sui cuscini e gliela lanciai. Lei l’afferrò ancora prima che atterrasse sulla sua faccia.

    «Non ho freddo».

    «È per nascondertici sotto».

    «Certo. Tu hai ancora paura di Cujo, quindi non prendere in giro me».

    «Cosa? Non è affatto bizzarro che tu abbia paura di Drew Barrymore. Fenomeni paranormali incontrollabili è un film dell’orrore, e Mai stata baciata davvero terrificante».

    «Zitto». Hadley mi si avvicinò al viso.

    Be’, non potevo fargliela passare liscia. Le bloccai le braccia sui fianchi e la trascinai su di me. Atterrò con la schiena sul bracciolo del divano, con le gambe sulle mie cosce.

    «Fai la brava, Punky».

    «Shhh, il film sta cominciando».

    Presi la coperta, la distesi sulle gambe di entrambi e mi sedetti per guardare il film.

    Durante il film Hadley sobbalzava a ogni scena paurosa. Aveva la coperta tirata fin sul naso con le dita serrate come per reggersi forte. Più si contorceva, più il mio cazzo si accorgeva che non era così male avere le sue gambe su di me. Quando Scatman Crothers si beccò un’accetta nel petto Hadley saltò in aria di nuovo, prendendomi per il braccio e affondando la faccia sulla mia spalla.

    «Sei così prevedibile». La strinsi a me. «Sai esattamente cosa sta per succedere ma ti spaventi lo stesso».

    «È colpa dell’attesa. Non riesco a sostenerla. Mi rende nervosa».

    «Codarda».

    Mi diede un pugno sul petto. Basta con le percosse.

    «Sul serio, non imparerai mai». Le bloccai i polsi dietro la schiena e la strinsi ancora di più a me. «Fa’ la brava. Le ragazzacce che non tengono le mani a posto dovranno subire delle conseguenze».

    Increspò le labbra in un sorriso pericoloso. «Non mi fai paura».

    «Errore, Punky. Mai provocare un uomo che sa esattamente in quali punti soffri di più il solletico».

    Hadley cerco di divincolarsi ridendo e minacciandomi mentre io la torturavo.

    «Te lo giuro, Josh. Sei morto».

    «Chiedimi scusa». Non la lasciai andare neanche quando cadde sulla schiena, e con le dita continuavo a toccarle le costole e la pancia. «Chiedimi scusa e la smetto».

    «Mai!».

    Vidi le stelle. Hadley mi diede una ginocchiata proprio sulle

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