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Oceano nello smeraldo
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E-book135 pagine1 ora

Oceano nello smeraldo

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Info su questo ebook

Una vicenda d’amore nata su un autobus destinata a grandi cose. Ambientato nella romantica Verona, Oceano nello smeraldo, vi insegnerà a rivivere sentimenti ed emozioni che credevate perduti. Raccontato dalla protagonista, la giovane Serena Catelli, futura giornalista, imparerete a vedere il mondo con i suoi occhi blu, leggerete le emozioni negli occhi dei protagonisti, rivivrete quel vostro primo amore che tanto vi ha sconvolti. Una storia viva e piena di risvolti, intensa, vivida che vi lascerà affascinati e stupiti.
LinguaItaliano
Data di uscita7 lug 2020
ISBN9788831681971
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    Anteprima del libro

    Oceano nello smeraldo - Sara Di Terlizzi

    vis­su­ti"

    Capitolo primo

    Era­no le 09.35 di mer­co­le­dì mat­ti­na. Un lie­ve rag­gio di so­le en­trò dal­la per­sia­na ab­bas­sa­ta. Sve­gliar­mi con il so­le per me era un buon se­gno. Si­gni­fi­ca­va che sa­reb­be sta­to un buon gior­no, o che avrei sor­ri­so mol­to, per lo me­no. Vo­le­vo go­der­mi a pie­no quel­la lu­ce mat­tu­ti­na, mi sti­rai, fi­no a sen­ti­re ogni mu­sco­lo del cor­po in per­fet­ta ten­sio­ne, dal­la pri­ma fa­lan­ge dell’anu­la­re, si­no al­le di­ta dei pie­di. Ri­sve­gliar­si in quel let­to ma­tri­mo­nia­le da so­la, è qual­co­sa di fan­ta­sti­co. Ve­ro­na è una bel­lis­si­ma cit­tà, e riu­sci­re a tro­va­re una per­so­na con cui di­vi­de­re l’ap­par­ta­men­to è sem­pli­ce, ma io ero sta­ta più for­tu­na­ta. Ca­rol era per­fet­ta, non era di­sor­di­na­ta, non fa­ce­va ru­mo­re e la mat­ti­na quan­do si al­za­va pre­sto per an­da­re a le­zio­ne, era pra­ti­ca­men­te in­vi­si­bi­le. Per­si­no una mo­sca avreb­be fat­to più ru­mo­re di lei. So­li­ta­men­te ci in­con­tra­va­mo più tar­di, per la pau­sa pran­zo, al­le 13.30. Do­po­di­ché lei tor­na­va al­le sue le­zio­ni e io po­te­vo co­min­cia­re le mie.

    Con la ma­no si­ni­stra, a pen­zo­lo­ni dal let­to, mi mi­si a cer­ca­re il te­le­fo­no, per spe­gne­re la sve­glia. È co­sì stra­no al­zar­si pri­ma che que­sta ini­zi a suo­na­re vio­len­te­men­te, qua­si po­tes­se ur­la­re: "Co­rag­gio Se­re, al­za­ti! Non vor­rai tar­da­re di nuo­vo!. È una ta­le sod­di­sfa­zio­ne far­la ta­ce­re. Do­po aver fis­sa­to il sof­fit­to per qual­che se­con­do, sce­si dal let­to. La stan­za era an­co­ra buia, co­sì ap­pog­giai i pie­di sul pa­vi­men­to fred­do, e cam­mi­nan­do a pas­so d’uo­mo, ar­ri­vai al­la sa­ra­ci­ne­sca, per li­be­ra­re tut­ta quel­la lu­ce che cer­ca­va di en­tra­re dal­le pic­co­le fes­su­re. Ed ec­co­la, più in­ten­sa e lu­mi­no­sa che mai. Chiu­si gli oc­chi e mi go­det­ti quell’istan­te di in­sen­sa­ta fe­li­ci­tà. Ama­vo il so­le. La gio­ia che riu­sci­va a tra­smet­ter­mi con quel ca­lo­re, era qual­co­sa d’in­spie­ga­bi­le. Era stra­no per me es­se­re già in pie­di a quell’ora, per­ciò de­ci­si di co­glie­re l’oc­ca­sio­ne e pre­pa­rar­mi pri­ma. An­dai ver­so la por­ta del ba­gno, con pas­si de­ci­si, e un bel sor­ri­so stam­pa­to in vol­to. La pri­ma co­sa che si rie­sce a ve­de­re, en­tran­do nel no­stro ba­gno, è il pro­prio vi­so. Cer­te mat­ti­ne è dav­ve­ro sec­can­te scor­ge­re la pro­pria fac­cia in pri­mo pia­no, le gran­di oc­chia­ie e gli oc­chi stan­chi. Sta­mat­ti­na era di­ver­so, sen­ti­vo che sa­reb­be an­da­to tut­to be­ne. Mi la­vai la fac­cia, stro­fi­nan­do con at­ten­zio­ne i gran­di oc­chi az­zur­ri. Le len­tig­gi­ni og­gi sem­bra­va­no vo­ler usci­re dal­le mie guan­ce ro­see. Sa­rà il so­le! pen­sai tra me e me. Ama­vo fa­re espres­sio­ni stu­pi­de al­lo spec­chio, ti­ra­re la pel­le, la boc­ca, gio­ca­re con le fol­te so­prac­ci­glia ne­re. Mi si­ste­mai i ca­pel­li rac­co­glien­do­li in mo­do da non aver­li da­van­ti agli oc­chi. Sor­ri­si di nuo­vo al­lo spec­chio e mi di­res­si ver­so la cu­ci­na. Il no­stro ap­par­ta­men­to non era mol­to gran­de, an­che se qual­cu­no lo avreb­be con­si­de­ra­to trop­po, per so­le due per­so­ne. Era com­po­sto da due ca­me­re, un ba­gno e la cu­ci­na che com­ba­cia­va con il sa­lot­to. Il so­le il­lu­mi­na­va la pic­co­la stan­za, e l’oc­chio mi cad­de sul ta­vo­lo. Ca­rol era sta­ta mol­to pre­mu­ro­sa quel mat­ti­no, ave­va pre­pa­ra­to i bi­scot­ti, li ave­va or­di­na­ti in un mo­do qua­si biz­zar­ro, che lei di cer­to avreb­be de­fi­ni­to ar­ti­sti­co. La gros­sa taz­za di caf­fè mi aspet­ta­va, pron­ta per es­se­re riem­pi­ta. Ama­vo il caf­fè. Co­sì pre­si la mo­ka e la riem­pii d’ac­qua, mi­si il caf­fè ma­ci­na­to con mol­ta at­ten­zio­ne e la chiu­si. Nel frat­tem­po de­ci­si di fu­ma­re una si­ga­ret­ta, nell’at­te­sa che il caf­fè sa­lis­se. Era dav­ve­ro una splen­di­da gior­na­ta, e non mi di­spiac­que usci­re sul bal­co­ne. No­no­stan­te fos­se Ot­to­bre, il cli­ma era mi­te, e sem­bra­va qua­si una ti­pi­ca gior­na­ta pri­ma­ve­ri­le. Guar­da­vo il cie­lo, e men­tre il leg­ge­ro ven­ti­cel­lo si por­ta­va via la ce­ne­re del­la mia si­ga­ret­ta, pen­sa­vo a quan­to fos­se bel­la Ve­ro­na, e a quan­to il so­le po­tes­se ren­der­le giu­sti­zia. Il ru­mo­re del­la caf­fet­tie­ra mi ri­por­tò al­la real­tà. Spen­si la si­ga­ret­ta nel po­sa­ce­ne­re e rien­trai. Do­po aver be­vu­to, les­si un po’ il gior­na­le, e pen­sai a quan­to mi sa­reb­be pia­ciu­to un gior­no, scri­ve­re qual­co­sa di im­por­tan­te sul Cor­rie­re del­la Se­ra. Do­po aver let­to ogni ar­ti­co­lo che non par­las­se di po­li­ti­ca, de­ci­si di an­da­re a pre­pa­rar­mi. Non ama­vo la po­li­ti­ca, an­zi, di­cia­mo che pro­va­vo un sen­so di di­sgu­sto ver­so quell’ar­go­men­to. I miei ge­ni­to­ri non mi ave­va­no mai in­se­gna­to nul­la ol­tre le ba­si, e io non mi ero mai in­te­res­sa­ta più di tan­to. Ac­ce­si lo ste­reo con la mu­si­ca a tut­to vo­lu­me e mi di­res­si in ca­me­ra da let­to. Pri­ma di tut­to ri­fe­ci il let­to, stan­do ben at­ten­ta a ti­ra­re le len­zuo­la. La mia mi­glio­re ami­ca Clau­dia mi ri­pe­te­va in con­ti­nua­zio­ne che se il let­to non era fat­to be­ne, la not­te si ri­schia­va di dor­mi­re ma­le. Clau­dia e io ci co­no­sce­va­mo dai tem­pi del­le su­pe­rio­ri. La no­stra era una di quel­le ami­ci­zie so­li­de, che nem­me­no il tem­po avreb­be di­strut­to. Ora pe­rò lei vi­ve­va con i suoi ge­ni­to­ri nel no­stro pae­si­no, Mon­tec­chio Pre­cal­ci­no e io a Ve­ro­na, con Ca­ro­li­na. Do­po aver ti­ra­to con at­ten­zio­ne le len­zuo­la del let­to, aprii l’ar­ma­dio e cer­cai qual­co­sa da met­te­re. Non so­no il ti­po che sta ore e ore da­van­ti al­lo spec­chio, co­sì scel­si un ma­glio­ne mar­ro­ne, di quel­li lar­ghi, che non mo­stra­no nes­su­na cur­va, e un pa­io di leg­gins ne­ri. Do­po es­ser­mi in­fi­la­ta ma­glio­ne e pan­ta­lo­ni, mi guar­dai nuo­va­men­te al­lo spec­chio. Sgra­nai gli oc­chi dal­lo stu­po­re nel ve­de­re co­me fos­si ri­dot­ta. La fac­cia can­di­da, gli oc­chi gran­di, sca­va­ti nel­le bor­se e con­tor­na­ti dal­le oc­chia­ie. Ok – pen­sai - For­se è il ca­so di truc­car­si un po’. Sta­vo bat­ten­do un po’ di ci­pria sul­le guan­ce, e os­ser­van­do con at­ten­zio­ne di co­pri­re ogni im­per­fe­zio­ne, ri­flet­te­vo. Ogni tan­to mi ca­pi­ta­va di per­der­mi in so­gni a oc­chi aper­ti. So­gna­vo un in­con­tro con un uo­mo for­te e bel­lo, un sor­ri­so splen­den­te, e uno sguar­do tra­vol­gen­te. So­gna­vo quel­lo che ogni ra­gaz­za de­si­de­ra­va: l’Amo­re. Quel­lo ve­ro, quel­lo che si im­pri­me den­tro al cuo­re, quel­lo che si può scri­ve­re con la A ma­iu­sco­la, e che non si può can­cel­la­re. Sta­vo fi­nen­do di si­ste­ma­re il ma­sca­ra sul­le ci­glia lun­ghis­si­me, quan­do i miei pen­sie­ri fu­ro­no in­ter­rot­ti dal suo­no dell’ar­ri­vo di un mes­sag­gio. Era Ca­rol, mi chie­de­va a che ora sa­rei ar­ri­va­ta. Guar­dai l’oro­lo­gio ap­pe­so in ca­me­ra. So­no le 11.23 - pen­sai- Ac­ci­den­ti so­no pro­prio in an­ti­ci­po". Do­po aver fat­to due cal­co­li, le ri­spo­si che sa­rei ar­ri­va­ta in­tor­no al­le 12.30. Ne avrei ap­pro­fit­ta­to per stu­dia­re qual­co­sa. Mi si­ste­mai i ca­pel­li. Li spaz­zo­lai un po’, e fe­ci sci­vo­la­re la fran­gia sul­la fron­te. Non ri­cor­do be­ne per­ché de­ci­si di ta­gliar­mi la fran­gia. So che vo­le­vo cam­bia­re, e sem­bra­re un po’ di­ver­sa. Pro­ba­bil­men­te, l’uni­co ve­ro mo­ti­vo, era che mia ma­dre mi ave­va av­vi­sa­ta che aven­do il vi­so pic­co­lo, si sa­reb­be rim­pic­cio­li­to an­co­ra di più. In real­tà mi pia­ce­va, an­che se il so­lo fat­to di aver­la sfi­da­ta an­che in que­sta pic­co­lez­za, ren­de­va quell’inu­ti­le fran­gia, an­co­ra più bel­la. Pre­si il cap­pot­to dal­la ca­bi­na ar­ma­dio, mi spruz­zai un po’ del nuo­vo pro­fu­mo che ci ave­va re­ga­la­to Eli­sa­bet­ta. Era dol­ce e in­ten­so. Ri­cor­da­va un po’ l’odo­re del­le ca­ra­mel­le e del­lo zuc­che­ro fi­la­to. Be­th era una del­le no­stre più ca­re ami­che. Qual­cu­no l’avreb­be de­fi­ni­ta un ti­po stra­no, ma a noi pia­ce­va co­sì. Era una di quel­le ra­gaz­ze ter­ri­bil­men­te bel­le, che non si ren­do­no con­to di es­ser­lo. Ave­va uno splen­di­do sor­ri­so stam­pa­to sul vol­to can­di­do. I lun­ghi ric­ci ros­si ri­flet­te­va­no gli oc­chi co­lor sme­ral­do, con­ti­nua­men­te il­lu­mi­na­ti. An­che lei stu­dia­va a Ve­ro­na. In real­tà tut­te e tre era­va­mo ra­gaz­ze di cam­pa­gna, ma ara­re i cam­pi o rac­co­glie­re frut­ta non fa­ce­va per noi. Per­ciò ave­va­mo de­ci­so di stu­dia­re in una del­le più bel­le e sug­ge­sti­ve cit­tà d’ Ita­lia. Il pa­dre di Be­th era mor­to in un in­ci­den­te stra­da­le, quin­di lei do­vet­te sta­re in ca­sa a ba­da­re al­la so­rel­la, in­sie­me al­la ma­dre.

    Do­ve­vo aver esa­ge­ra­to un po’ con il pro­fu­mo, mi sen­tii qua­si stor­di­ta. Pre­si la sciar­pa e me la at­tor­ci­gliai in­tor­no al col­lo. Non ama­vo le sciar­pe di la­na, mi da­va­no l’im­pres­sio­ne di es­se­re sof­fo­ca­ta, e in più pun­ge­va­no. Mi guar­dai un’ul­ti­ma vol­ta al­lo spec­chio, pre­si le chia­vi, i li­bri ne­ces­sa­ri e con­trol­lai di ave­re l’ab­bo­na­men­to per l’au­to­bus. Uscii dall’ap­par­ta­men­to can­tic­chian­do una can­zo­ne dei Bea­tles, chiu­si a chia­ve la por­ta e sce­si i tre pia­ni di sca­le. I Bea­tles era­no il mio grup­po pre­fe­ri­to. Li sco­prii da pic­co­la, per me­ri­to di mio pa­dre che la do­me­ni­ca ama­va ascol­ta­re la lo­ro mu­si­ca e bal­la­re con mia ma­dre in sa­lot­to. I miei ge­ni­to­ri era­no una cop­pia par­ti­co­la­re. In­na­mo­ra­tis­si­mi uno dell’al­tro, lo di­mo­stra­ro­no in ogni oc­ca­sio­ne a lo­ro pos­si­bi­le. Il sem­pli­ce fat­to di ave­re cin­que fi­gli era for­se, la di­mo­stra­zio­ne più gran­de del lo­ro amo­re.

    Capitolo secondo

    In­fi­lai una ma­no nel­la bor­sa, cer­can­do l’mp3 e le cuf­fiet­te per ascol­ta­re la mu­si­ca. "Pre­se!". Nel frat­tem­po la si­gno­ra Vul­co, la pro­prie­ta­ria del­la pa­net­te­ria sul­la no­stra stra­da, mi sa­lu­tò con ge­sto cor­te­se:

    «Buon­gior­no Se­re­na, ci sia­mo sve­glia­te pre­sto sta­mat­ti­na, eh?».

    La si­gno­ra Vul­co era mol­to sim­pa­ti­ca e so­cie­vo­le. Ogni vol­ta che an­da­vo a com­pra­re il pa­ne mi rac­con­ta­va del gran­de amo­re del­la sua vi­ta, Ric­car­do Pa­te­ro. Era­no sta­ti in­sie­me qual­che an­no, e poi lui era par­ti­to per la guer­ra, sen­za più tor­na­re. Lei non era vo­lu­ta usci­re con nes­sun al­tro, e pen­sa­va che un gior­no lui sa­reb­be tor­na­to da lei e si sa­reb­be­ro spo­sa­ti.

    «Buon­gior­no si­gno­ra Vul­co!» ri­spo­si con un sor­ri­so sin­ce­ro, men­tre m’in­fi­la­vo le cuf­fiet­te nel­le orec­chie. Ar­ri­vai al­la fer­ma­ta dell’au­to­bus

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