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Indovina chi è l'assassino
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E-book354 pagine5 ore

Indovina chi è l'assassino

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Info su questo ebook

Un grande thriller

«Ci sono così tanti colpi di scena che è impossibile non venire risucchiati tra le pagine.»

Doveva essere la rimpatriata perfetta: sei amici dell’università che si ritrovano dopo vent’anni.
L’ospite, Ali, ha la vita che ha sempre voluto, una carriera di cui andar fiera e uno splendido marito, che è il suo ragazzo di allora. Ma quella notte succede qualcosa di scioccante e imprevedibile.
La sua migliore amica Karen, infatti, rientrando in casa dal giardino, lancia un’accusa scioccante che scuote i presenti. Sanguinante e sconvolta, afferma di essere stata aggredita dal marito di Ali, Mike. Ali deve prendere una decisione immediata: a chi credere? Al suo sconcertato marito o alla sua migliore amica? La versione dei fatti di Mike è completamente diversa da quella data da Karen, quindi uno dei due sta mentendo, ma chi? E perché?
E così, appena dopo aver rievocato i bei tempi passati, Ali si rende conto che ci sono ricordi oscuri rimasti sopiti per decenni, misteri per i quali qualcuno sarebbe disposto a uccidere.

Bestseller del «Washington Post»

«Un talento incredibile. Da leggere immediatamente!»
Lee Child

«Un thriller brillante, che ti lascia senza fiato e sulle spine fino all’ultima, scioccante pagina.»
Erin Kelly

«Ho letteralmente divorato Indovina chi è l’assassino. In questo avvincente thriller psicologico, Claire McGowan ha creato il dilemma morale definitivo. Non potrò mai consigliarlo abbastanza.»
Jenny Blackhurst

«Lo stile di McGowan è deciso e diretto, e i colpi di scena ti sorprendono quando meno te lo aspetti.»
The Irish Times
Claire McGowan
È nata nel 1981 in un piccolo villaggio irlandese, in cui l’evento più eccitante mai accaduto è stato trovare delle mucche che si riposavano in mezzo alla strada. È autrice dell’acclamata serie crime con protagonista Paula Maguire. Scrive anche romanzi al femminile con lo pseudonimo di Eva Woods.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2021
ISBN9788822745422
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    Anteprima del libro

    Indovina chi è l'assassino - Claire McGowan

    Prologo

    Alla fine si ritrova sdraiata sul prato, con la faccia schiacciata a terra. Sente l’odore della linfa, le erbacce che le sfregano la pelle. La percezione del corpo ritorna lentamente, come se le membra le venissero restituite pezzo dopo pezzo. La gola brucia, un dolore che si irradia dal punto in cui l’ha strangolata. L’ha strangolata. Non riesce ancora a crederci, non del tutto. La sensazione delle sue mani intorno al collo, il panico, annaspare e cercare l’aria senza trovarla, il peso di lui che la spingeva a terra. Le sue gambe sono fredde e graffiate, i piedi nudi sull’erba umida. La testa le fa male, ha la gola secca. E ci sono un sacco di altre cose, cose sbagliate, cose a cui non riesce ancora neppure a dare un nome. Apre la bocca e prova a gridare ma le parole se ne sono andate, come in quei sogni in cui urli e urli e non esce niente. Lui le ha tolto perfino la voce. Prova a muoversi, ad alzarsi, a dimostrare a sé stessa che è ancora viva e non è ferita – oh, in realtà lo è, eccome – e una fitta la attraversa da parte a parte squarciandola.

    La casa è distante solo pochi metri, si trova all’altro capo del grande e silenzioso giardino, ma potrebbe essere a chilometri e chilometri, perché nessuno ha sentito quello che è successo, nessuno ha visto, nessuno è accorso in suo aiuto. Lui se n’è già andato, ma lei sa che non è lontano, e nonostante l’assurdità della situazione, l’unica cosa che riesce a sentire è una paura improvvisa che le schiaccia i polmoni bloccandole il respiro. Lui è ancora lì, da qualche parte.

    Quindi deve andarsene. Deve alzarsi in piedi, muoversi, cercare aiuto. Il buio è profondo. Sbatte le ciglia per scacciare le lacrime che le velano gli occhi e si accorge che, nell’oscurità della casa, si è appena accesa una luce gialla.

    Capitolo uno

    Ora che è tutto finito mi ritrovo spesso a pensare al momento in cui è cambiata ogni cosa. Il breve intervallo di tempo in cui la mia vita è passata dall’essere perfetta (ok, magari non perfetta ma almeno non male) a totalmente devastata. Soprattutto penso a come la mia mente abbia cercato di allontanarsi da quello che è successo – per favore non ora – e agli sforzi che ho compiuto per fingere che non ci fosse nulla di vero, di reale. Almeno per qualche secondo. Era una parte di me che non conoscevo, questa capacità di tapparmi le orecchie, di chiudere gli occhi. Pensavo di essere la classica persona che si attiva immediatamente, che chiama la polizia, prepara un tè caldo zuccherato per combattere lo shock.

    Invece, quando Karen arrivò in cucina quella notte – barcollante, tremante, con il vestito nero arrotolato intorno alle cosce, i lividi sul collo che risaltavano come sbavature d’inchiostro su un giornale – non ero pronta. Rimasi in piedi, raggelata dall’orrore, desiderando che si potesse riavvolgere il tempo e congelare il momento appena passato, conservarlo pulito e intatto.

    Karen singhiozzò, sembrava che l’avessero privata perfino della voce. E prima che la mia mente traditrice avesse anche solo il tempo di pensare per favore, non dircelo, ce lo disse.

    «Mi ha violentata. Mi ha violentata».

    Anche Jodi era lì, in piedi con la caffettiera in mano, il bollitore che brontolava, e fu lei, non io, a trovare il coraggio di porle la domanda: «Chi, Karen? Che cosa significa?».

    E Karen disse quel nome, poi cadde in ginocchio, un movimento teatrale, drammatico, come se le gambe la stessero abbandonando. Aveva i capelli in disordine, arruffati come se qualcuno glieli avesse afferrati con forza. Un rivolo di sangue le scorreva lungo la coscia, si allungava sulle piastrelle di ardesia del pavimento della cucina. Più tardi, dopo che i poliziotti se ne furono andati, lo strofinai via. Ma non si è mai pulito davvero.

    Prima ho detto che non ero pronta a sentire ciò che Karen aveva da dirmi, mentre irrompeva nella mia cucina e collassava di fronte ai miei occhi. Ma sul serio, come si può essere pronti per una cosa del genere?

    Poco prima, lo stesso giorno

    «Devo proprio, mamma?»

    «Certo che sì. Cosa potresti fare altrimenti?». La mia testa era impegnatissima a passare in rassegna la mia to-do list. Letti, asciugamani, cioccolatini da caffè, la stanza di Benji.

    Benji alzò a malapena lo sguardo dal suo iPad. Dieci anni e aveva già un iPad. A volte me ne meravigliavo, come facevo con molte cose nella mia vita. «Sarà una noia. Non c’è nessuno della mia età».

    Odiavo l’intonazione lamentosa della sua voce, il modo in cui il suo faccino liscio e privo di acne si distorceva in un’espressione corrucciata. Nessuno ti avverte mai che c’è un’altra faccia della medaglia quando dai ai tuoi figli tutto ciò che non hai mai avuto – diventano dei mocciosi viziati. «Ascolta, rimani solo per cena e comportati bene, poi puoi fare quello che vuoi. Guardi un film, giochi con l’iPad, qualsiasi cosa. Ok?». Prendere il servizio buono, tirare fuori il gelato dal freezer, lucidare i calici.

    «Cosa c’è per cena?». Le sue dita non si fermavano mai, scorrevano in continuazione sul device. Lo guardai negli occhi, quegli occhi di un azzurro così chiaro che si muovevano lungo il monitor, e mi assalì l’ansia per il tempo che passava davanti allo schermo. Il disturbo da deficit dell’attenzione me lo stava rovinando.

    «Sto preparando il tagine. Couscous, insalata, cose così». Avevo già pianificato il menu nei minimi dettagli, ordinando quello che mi mancava da Ocado, e l’agnello e le verdure erano già disposte sul tagliere. Ma avevo paura. Mi pareva tutto troppo facile.

    Benji brontolò. «Odio il cibo marocchino».

    Mi sarebbe piaciuto moltissimo rispondergli: Quando avevo la tua età non l’avevo mai neppure sentito nominare, il cibo marocchino. Avevo quelle parole proprio sulla punta della lingua. Me la morsi. «Benji. Questa cosa è importante per me e papà. Non ci ritroviamo tutti insieme, e intendo tutto il nostro gruppo di amici, dai tempi dell’università. È un weekend speciale. Quindi perché non la smetti con la tiritera del povero ragazzino ricco, eh?»

    «Devo davvero dividere la stanza con Cassie?»

    «Lo sai benissimo. Altrimenti non c’è spazio per tutti».

    «Ma Cassie mi sveglia sempre. Passa tutta la notte al telefono, mi va la luce negli occhi».

    La lista si stava srotolando nella mia testa. Gettai un’occhiata all’orologio – merda, mi restava meno di un’ora. Perché mi ero messa d’accordo con Vix proprio per quel giorno? Come mi era venuto in mente? «Le dirò di non farlo allora. La tua stanza è in ordine per la zia Karen?»

    «Sì». Allungò la mano verso il pacchetto di patatine Kettle e la respinsi con uno schiaffo.

    «Hai appena pranzato. Perché non vai a giocare, Benji?»

    «Giocare a cosa?».

    Io ero più indipendente alla sua età, ne ero sicura. Dovevo parlare con Mike e togliergli l’iPad. Aggiunsi un’altra voce alla mia lista mentale, sotto controllare i bagni, accendere le candele, e tutte le altre faccende che dovevo sbrigare prima dell’arrivo degli altri. Perché ero sempre a corto di tempo? Offrii un contentino a mio figlio. «Ascolta, ti ricordi di Bill? Sta arrivando anche lui. Va sempre a pescare in Svezia. Scommetto che ti mostrerà come si fa, se glielo chiedi gentilmente».

    Vidi un occhietto azzurro alzarsi dallo schermo dell’iPad. Colpito e affondato.

    «Ti piacerebbe, vero?». Mike aveva comprato a Benji una canna da pesca per Natale ma non aveva ancora trovato il tempo di portarlo al piccolo ruscello al di là del giardino. Non pensavo che mio marito sapesse effettivamente pescare, ma Bill sì. Conservavo intatta nella mente l’immagine di lui sul retro di una barca, all’università, che catturava un povero pesciolino grigio usando un sandwich di gamberi come esca. Lo rilanciammo in mare, ma me la vedo ancora, quella bestiolina sfortunata. Come sbatteva sul legno, agonizzante. Io, Karen e Jodi che strillavamo come ragazzine. Bill con lo spinello che gli pendeva dalla bocca, sempre così disinvolto, ma un po’ sorridente anche lui, orgoglioso e sorpreso.

    Benji spense l’iPad e si alzò. «Vado a riordinare la mia camera, allora. Voglio dire, a riordinarla meglio».

    Lo presi tra le braccia e lo strinsi forte. Odorava di biscotti e shampoo. Non ancora di piedi e rancore, come un adolescente. Mi venne in mente che Jake sarebbe arrivato a breve, e quindi dovevo pensare a qualche argomento di cui parlare. Era un’impresa farsi largo tra le sue difese, arrivare al cuore del ragazzo impenetrabile che era diventato. E scoprire cosa potesse desiderare per il suo diciottesimo compleanno, che si avvicinava rapidamente. Almeno potevo godermi Benji ancora per qualche anno. «Sei un bravo bambino».

    «Dai, mamma», disse, ma ricambiò l’abbraccio. «Dov’è Cassie?»

    «In centro». Le avevo chiesto di comprare un’altra candela e non era ancora rientrata. Zuppa, pane, erbette per il tagine, lasciare il vino a respirare…

    «Scommetto che è con Aaron».

    «Va be’, magari hanno dei compiti da fare…».

    «Non sono nella stessa classe, mamma». No, perché il ragazzo di Cassie frequentava il corso preparatorio a Oxford e Cambridge e lei non ce l’aveva fatta a entrare. E io e Mike fingevamo che andasse tutto bene, che non fosse assolutamente un problema. Altre preoccupazioni mi volarono nella testa come uno sciame di moscerini – Cassie che passava troppo tempo con Aaron, e poi fin dove si erano spinti? E se le fosse successo qualcosa? Era in ritardo. Poi la porta sul retro, quella che dava sul bosco, sbatté ed eccola lì.

    «Cassie?».

    Scivolò in cucina e notai quanto fosse corta la sua gonna, quanto fosse attillato il top. «Che c’è?».

    Aveva un segno rosso sul collo. Dietro di lei, nell’androne, vidi qualcun altro – il suo ragazzo, Aaron. Era così alto che ci mancava poco che sbattesse la testa contro il lampadario d’antiquariato che avevo appeso all’ingresso. «Ciao, Aaron».

    «Salve, signora Morris». Aveva delle maniere adorabili – ovvio, sarebbe stato strano il contrario. Adorabili come i suoi voti, la sua abilità nello sport, il suo aspetto pulito e biondo.

    Ero preoccupata per Cassie, con un ragazzo del genere. Uno che sapeva già di poter avere tutto ciò che voleva nella vita.

    «Come va a scuola?»

    «Oh, sa com’è», disse. «Impegnato con gli esami. Sto andando a casa a studiare infatti».

    «Non vuoi restare per cena?». La mia era una domanda retorica e lo sapevamo entrambi.

    «Oh, è molto gentile da parte sua, ma mia mamma mi aspetta. Ha fatto la pasta a mano». E io stavo per servire tagine, uno dei piatti più semplici che esistano. Mi ritrovai a chiedermi, stupidamente, se non fosse troppo tardi per ricominciare tutto da capo.

    «Allora ciao, Cass». La raggiunse. L’avrebbe baciata davanti a me? No, si limitò ad abbracciarla. Cassie lo strinse forte, chiudendo gli occhi. Sembrava così fragile accanto alla sua mole da rugbista. Aveva perso peso. Ancora.

    «Hai preso la candela?», chiesi non appena Aaron varcò la porta che dava sul bosco.

    La posò sul tavolo facendo tintinnare i piatti.

    «Attenta. Che cos’è?»

    «Fico e arancia. Ha un odore disgustoso».

    «Mi aiuteresti, per favore? Sono un po’ in difficoltà». Mi tirai indietro una ciocca di capelli con l’avambraccio. In cucina l’acqua stava bollendo e tutti e quattro i fornelli erano in funzione, e anche il forno. Era solo giugno e già si parlava di un’estate da record, un inferno, la più calda di cui si avesse memoria. Non vedevo l’ora che cominciasse la festa – cena in giardino, che cosa mediterranea – ma ora il caldo mi gravava addosso come un coperchio, rallentando i miei passi e facendomi rimanere irrimediabilmente indietro sulla tabella di marcia.

    «Perché non ti può aiutare papà?»

    «È in ufficio».

    «No, non è vero, è in giardino che legge il giornale».

    «Bene, puoi chiedergli di controllare che il tavolo sia pulito, di passare lo straccio sulle sedie e di trovare della citronella, sarà pieno d’insetti».

    «Chiediglielo tu, è qui».

    «Prendimi delle erbette!», le urlai dietro, mentre sgattaiolava fuori e Mike entrava, tenendo la porta per farla passare.

    «Che odorino». Sembrava allegro, ed era un vero sollievo. Non si era mostrato molto entusiasta di questo weekend. Troppa fatica, per come la vedeva lui, e poi non avevamo spazio per tutti. La nostra casa sfoggiava quattro camere da letto più una stanza sopra il garage, e non era ancora sufficiente.

    Lo fissai per un momento, con un’espressione critica. Se quello era l’anniversario dell’inizio del nostro periodo universitario, voleva dire che erano passati venticinque anni da quando avevo visto Mike per la prima volta, in quel bar del college cupo come una caverna. Ricordo quant’era calmo e disinvolto, mentre gli altri non facevano che agitarsi e gridare con quella foga imbarazzante tipica del primo anno di college. Un metro e settantacinque, non un gigante, ma più che abbastanza per me. Capelli scuri, ormai un po’ brizzolati.

    Quel giorno indossava una polo, pantaloncini color cachi e un maglione di cotone di un rosso fiammante, nonostante il caldo. Tutto nuovo, dall’aria costosa. Cercava di fare colpo, come me del resto.

    «Karen mi ha scritto un messaggio. A quanto pare tu non le rispondi. Hanno preso un taxi dal centro».

    «O Dio, non sono pronta. Perché così presto?». Avevo pianificato di andarli a prendere più tardi, al mio ritorno.

    Alzò le spalle, premendo la mano sul sacchetto del lievito. «Immagino che il Megabus abbia fatto incredibilmente presto».

    Ignorai la battuta. Non era colpa di Karen se non poteva permettersi il prezzo del treno. Forse, se avesse fatto ciò che tutti, dai genitori ai tutor, le avevano consigliato di fare, arrivando quasi a supplicarla, ovvero se avesse sostenuto di nuovo gli esami finali, avrebbe potuto ottenere una laurea e un lavoro migliore dell’impiegata comunale. «Eppure gliel’ho detto che avevo una riunione! Le camere sono pronte?». Ricapitolai la situazione nella mia testa. Callum e Jodi nella stanza degli ospiti, Karen in camera di Benji, Bill nell’ufficio di Mike sopra il garage. Jake insisteva per accamparsi alla meglio, una trovata delle sue. Avrebbe funzionato? Saremmo stati bene così ammassati uno sull’altro?

    Mike mi arrivò alle spalle mentre giravo lo stufato. Mi premette le mani sul collo. «Sei così tesa che potrei farti rimbalzare dei sassi sulla schiena. Rilassati, ok? Sono solo i nostri amici, non i giudici di MasterChef. A Karen non importa niente se non siamo perfetti».

    Ma sarebbe importato a me. E potevo mettere la mano sul fuoco che Jodi avrebbe notato ogni piccola pecca e avrebbe lasciato cadere un commento apparentemente innocuo, ma su cui avrei rimuginato per giorni. «Dici che vorranno pranzare?»

    «Non credo, sono le due passate. Una tazza di tè, un po’ di dolce sul prato, che ne dici? Difenderò io il fortino mentre sei via».

    «Ma…».

    «Ali». Mike mi costrinse a girarmi. Un contatto visivo forzato. «Ascolta, non c’è motivo di fare tutto questo se non ti fa piacere. Mi sbaglio? Perciò, su, amore, scialla, come direbbe Cassie».

    «Preferirebbe morire piuttosto che dire una cosa così tamarra».

    «Sì, perché tamarro invece è proprio slang d’avanguardia».

    Mi si alleggerì il nodo allo stomaco nel vedere che entrambi ci davamo da fare per riordinare, pulire e organizzare. Sembrava una danza che avevamo provato molte volte. Aveva ragione. Erano nostri amici, non si aspettavano la perfezione. Sarebbe andato tutto bene.

    Sentii il rumore di un’auto sulla ghiaia. Era arrivata.

    Capitolo due

    «Allora, che è successo con…».

    «Il mio orrendo capo? È ancora orrendo. La settimana scorsa se n’è uscito dicendo che dovremmo tutti fare domanda per confermare le nostre attuali posizioni lavorative».

    «Non ci credo, è vergognoso. Sono sicura che sia illegale, non è vero, Mike? Mike?».

    Scosse la testa, come un cane che si scrolla di dosso la pioggia. «Che cosa fai ora? Non riesco a starvi dietro. Dovrei registrare la conversazione e riascoltarla a velocità normale».

    Lo dicevano sempre tutti, quando ero insieme a Karen andava così. La gente scappava dalle nostre chiacchierate, sconcertata per il modo in cui saltavamo da un argomento all’altro come scimmie sugli alberi, a volte ritornando su un discorso che avevamo lasciato in sospeso un’ora prima, sempre senza interruzioni. Le lanciai un sorriso dall’altra parte del tavolo, pensando a quanto sembrasse giovane con i suoi jeans attillati e il top, identica a Cassie. Io indossavo un vestito lungo a fiori. Avevo un aspetto banale. Da madre di famiglia, nonostante Karen fosse rimasta incinta prima di me, a soli venticinque anni.

    Puntò lo sguardo su Mike. «Abbiamo un sacco di cose da dirci, tutto qui». Ora che viveva a Birmingham e noi nel Kent, non la vedevo quanto mi sarebbe piaciuto. A volte le cose di cui volevo parlarle mi rimanevano stipate dentro, come in una pentola a pressione, ed esplodevano solo nel momento in cui finalmente ci vedevamo. Dovevo uscire da lì a – controllai l’orologio – cinque minuti. Che palle.

    «È bello qui, ragazzi. Siete molto fortunati». Karen si guardò intorno, osservando il giardino. L’agente immobiliare l’aveva definito maturo e ben sviluppato, il che aveva fatto sorridere Mike. Era il motivo principale per cui avevo fatto tante pressioni per prendere quella casa. Il retro dell’edificio, mattoni rossi in stile tardo vittoriano, dava direttamente sul bosco, e sulla strada di accesso anteriore si affacciavano solo altre tre case. Era come stare in campagna, a parte il piccolo particolare che i negozi di Bishopsdean erano appena a dieci minuti da lì, tagliando per la macchia. Quel giorno il giardino era cosparso di lavanda e aglio selvatico e di uccellini nascosti tra gli alberi, simili a statuette che spuntavano dai rami con i musetti rigati dalla pioggia. Distolsi lo sguardo dalla pila di compost dietro il capanno – Andrej, il nostro giardiniere, ci aveva dato buca la settimana precedente. Un’emergenza familiare a Cracovia. Non importava. Era già incredibile che avessimo un giardiniere. Eravamo fortunati. Abitavamo in quella casa da soli sei mesi e c’erano ancora dei momenti in cui provavo puri brividi di piacere a pensare Vivo qui. Tutto questo è mio.

    «Opera tua, Mikey?», chiese Karen, mentre sollevava un macaron verso le labbra rosa fucsia.

    Risi. «Stai scherzando, vero? Mike non si avvicina a un tosaerba dal 1998. È stato Andrej – un polacco assolutamente da sogno».

    «Ci avrei pensato io, se ne avessi avuto il tempo», ribatté lui con tristezza. «Ma dove lo trovavo?»

    «Continui a tenerti occupato, eh?»

    «Non sai quanto». Lo studio legale di Mike era stato comprato da degli americani quello stesso anno e i nuovi capi si aspettavano di trovarlo in ufficio fino a tarda notte per le chiamate da New York e al mattino presto per quelle dal Giappone. Un giorno sì e uno no scendeva dal treno del ritorno alle nove passate.

    Karen si voltò verso di me. «Be’, forse Ali riuscirà a mantenerti ora che le cose le vanno così bene. Ti ho vista su Good Housekeeping questo mese. Molto fico».

    «Oh, grazie». Un articolo sul sexting e sul controllo dei cellulari degli adolescenti. Avevo sostenuto di non aver mai guardato quello di Cassie, perché avrebbe distrutto la fiducia che c’era tra noi. Avevo ricevuto un sacco di commenti online, alcuni dei quali mi davano dell’illusa e della cattiva madre. Avevo detto a me stessa che bene o male l’importante è che se ne parli.

    «E Cassie come si sente a essere finita su una rivista?».

    Lanciai uno sguardo verso il dondolo, dove erano seduti Cassie e Jake. Le gambe lunghe di lei penzolavano nel vuoto. Jake si era presentato tutto vestito di nero. Maglietta nera, jeans neri, scarpe da tennis nere. Capelli neri che gli incorniciavano il viso come una tenda. Era difficile rivedere in lui il dolce ragazzino che era stato, così ansioso di compiacere, il piccoletto che mi si appendeva sempre alle gambe quando gli facevo da baby-sitter mentre Karen era a lavoro. Ma questo accadeva anni fa, quando abitavamo a Londra, a pochi isolati gli uni dagli altri. Ora eravamo così lontani. Quando era arrivato, ero corsa ad abbracciarlo e lui mi aveva schivato. Mi ero rimproverata per quanto ci ero stata male. Jake aveva diciassette anni, non aveva un padre ed era chiaramente in preda all’angoscia esistenziale dell’adolescenza. Ne sarebbe uscito, certo. «Oh, non si lamenta. Sa che si tratta di una questione importante». La verità era che avevo avuto paura di chiederle la sua opinione. In quei giorni mi sembrava misteriosa, illeggibile.

    «Ti abbiamo anche registrato. Insomma, salvato sul decoder. Gli hai proprio tenuto testa a quello stronzetto».

    «Qualcuno doveva pur farlo. Il modo in cui parla è disgustoso. Battute sullo stupro, nel 2018!».

    «Eccola», esclamò Mike. «Non si può dire niente in difesa della libertà di parola? Soprattutto nella satira? Non viviamo in Unione Sovietica».

    «Se l’è cavata alla grande», ribatté Karen amorevolmente. «Non fare lo stronzo, Mikey. Lascia che sia Callum a fare l’avvocato del diavolo».

    «Lo so, lo so. Siamo molto orgogliosi di lei». Mi strinse una gamba sotto il tavolo. «Per di più ha completamente ribaltato la situazione di quell’associazione di volontariato. Stavano per chiudere il centro antiviolenza prima che Ali entrasse nel consiglio direttivo».

    «Oh, merda, mi hai fatto venire in mente che devo andare – scusa, Kar. Te l’avevo detto che avevo una riunione?». Ero sicura di avergliene parlato, perciò non capivo perché fosse arrivata così presto.

    Mi salutò con la mano. «Vai pure. Non ti preoccupare, ce la caveremo qui».

    «Sicura?». Mi alzai in piedi ma qualcosa sembrava trattenermi lì, accanto al tavolo di legno intagliato, alle sedie di ferro battuto che avevamo preso in un negozio di antiquariato, al vassoio di dolci color pastello e al servizio da tè decorato con stampe floreali. Era questo che avevo in mente quando sognavo di avere una casa vera e propria, non l’angusta villetta a schiera in cui entravamo a malapena dove avevamo vissuto negli ultimi dieci anni. E ovviamente accanto a Karen, la mia migliore amica da un quarto di secolo. Se non fossi dovuta uscire, sarei potuta restare a parlare con lei fino a notte, lasciando i figli digiuni, dimenticando il lavoro.

    «Credo che possiamo cavarcela». Mike si sporse in avanti e versò dell’altro tè a Karen dalla teiera di porcellana d’epoca. Perdeva, ma era di un colore così bello, giallo a fiori blu. Per un momento, pensai di annullare l’impegno, di chiamare Vix, ma era una cosa importante. Si trattava del mio lavoro – sebbene non pagato – senza il quale sarei stata solo una casalinga che si dilettava di giornalismo tra un appuntamento dal dentista e un giretto da Sainsbury’s.

    «Lo sai che è importante, altrimenti non avrei… scusa».

    Inforcò gli occhiali da sole – economici, non di marca, ma comunque la facevano assomigliare a una star del cinema – se li sistemò sul naso e buttò all’indietro i capelli con lo stesso movimento lento di quando eravamo studentesse, facendoli ricadere sulle spalle.

    «Oh, ce la caveremo. Tanto è presto. Jakey voleva vedere Cass».

    Lanciai loro un’altra occhiata. Parlavano fitto fitto, come facevamo di solito io e Karen, sedute in qualche caffè per quattro o cinque ore di fila, senza mai fermarci. «Dovremmo farli incontrare più spesso». Ma era una tale scarpinata fino a Birmingham. Invitavo sempre Karen ma lei usava la scusa del lavoro per declinare. Sospettavo che il più delle volte non fosse in grado di pagarsi il viaggio. «Jake ha una ragazza o qualcosa di simile?»

    «Ah, magari! Spero che sia uno di quei ragazzi che sbocciano all’università. Come te, Mikey».

    «Che faccia tosta! Io sono nato sbocciato».

    «Cassie ha questo ragazzo», dissi. «Aaron. Non mi fido di lui. Sua madre è la peggiore snob del mondo».

    «Andrebbe d’accordo con Jodi, allora». Karen sorrise e io con lei, con un misto di senso di colpa e sollievo per aver rimarcato ancora una volta il reciproco senso di appartenenza. Era ancora mia amica, anche se non ci vedevamo da tanti anni, anche se le nostre vite erano andate in direzioni diverse. Anche se io ora avevo questa casa, che pure mi trasmetteva un fastidioso imbarazzo, ora che la vedevo attraverso i suoi occhi. Il lusso di tutto quello spazio, le decorazioni vittoriane e i vetri istoriati. Nonostante tutto questo, il tempo non si era intromesso tra noi. Ed ero orgogliosa, sì, orgogliosa di aver conservato la nostra amicizia, di averla salvata da quello strano raffreddamento che avevamo vissuto nei mesi successivi all’università. Quando tutti e sei avevamo sfiorato qualcosa di oscuro e ne eravamo usciti intatti.

    Mi voltai verso la porta e guardai fuori. Karen e Mike si sporgevano l’uno verso l’altra sul tavolo, ridendo di chissà cosa, mentre sul dondolo i loro figli erano così presi l’uno dall’altra che non mi avevano neppure vista uscire. Il senno di poi è micidiale. Se in quel momento avessi saputo cosa stava per accadere, cosa ci avrebbe presto inghiottiti, mi sarei presa qualche momento per starmene in piedi al sole ad assaporare tutto ciò che stavo per perdere. Ma non lo sapevo, per cui uscii.

    Capitolo tre

    «Raccontami ancora una volta cosa è successo».

    Nonostante l’emergenza che mi aveva trascinato in una stazione di polizia in una così bella giornata di sole, in un certo senso mi piaceva vedermi in quel ruolo. Ali Morris, presidentessa del centro antiviolenza di Bishopsdean. Una posizione, un obiettivo, dopo che per anni ero stata semplicemente una mamma, la signora Morris, la moglie di Mike.

    Vix, la direttrice della casa rifugio per le donne vittime di violenza, mi aveva dato appuntamento in centrale, in una stanza che ci lasciavano usare in momenti come questo, che erano più frequenti di quanto non si voglia immaginare. Era una donna esile, non più di trent’anni, capelli corti e occhiali cerchiati di nero. La classica persona che ti aspetteresti di incontrare in una città tipo Berlino, non a Bishopsdean. Non le avevo mai chiesto di raccontarmi la sua storia, perché in un’organizzazione come la nostra era difficile trovare qualcuno che fosse in grado di narrare serenamente il proprio passato, o di ascoltare quello degli altri. Avevamo ripercorso più volte gli eventi, cercando di capire come agire.

    «Si è presentato alla casa rifugio ieri notte verso le tre. Julie giura di non avergli dato l’indirizzo ma non so se crederle. Ha rotto il vetro della finestra della cucina ed è entrato. Ha trovato Julie con i bambini, l’ha presa per la gola e l’ha sbattuta contro il muro».

    «I bambini hanno visto tutto?».

    Annuì. «Una delle altre donne ha fatto scattare l’allarme ed è arrivata la polizia. Aveva un coltello. Stava per… penso che fosse sul punto di usarlo».

    In qualsiasi modo la si potesse girare, era una brutta storia. «Hai pronto il comunicato stampa?».

    Annuì nuovamente, facendomi scorrere davanti agli occhi un foglio di carta. Vix aveva lavorato nelle pubbliche relazioni, quindi era brava a fare certe cose. Anche se a volte pensavo tra me e me che non fosse così portata per il lato empatico di questo lavoro. Aveva la tendenza ad attenersi strettamente alle regole, senza ammettere l’esistenza di zone grigie. Per esempio, il fatto che

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