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Fuori c'è il sole
Fuori c'è il sole
Fuori c'è il sole
E-book193 pagine3 ore

Fuori c'è il sole

Di S.

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Info su questo ebook

Fuori c’era il sole, ma anche un vento strano, troppo caldo per i primi di aprile. Io ero alla finestra e dall’alto vedevo le fronde degli alberi muoversi impetuose e le persone che camminavano, ridevano e parlavano spensierate dei fatti loro.
Era l’imbrunire, il sole scendeva velocemente dietro la collina come se avesse fretta di andarsene, come se quel vento volesse spingerlo via. I miei occhi erano rossi e fissi a osservare fuori, per non far vedere agli altri ciò che stavo provando. Non mi sarei mai voltato in quell’istante.
Il mio concetto di autobiografia parte dalle immagini, immagini non intese come fotografie immutabili di avventure passate, immagini intese come disegni a matita su un’immensa tela bianca perché anche se il ricordo rimane immutato, nonostante le sfocature dovute al tempo, cambia però la consapevolezza dovuta all’età. Le cose che mi hanno terrorizzato da bambino adesso mi rendono forte e sono convinto che questa tela continuerà a mutare ancora nel corso della mia vita, ancora e ancora, colorandosi con le sfumature di quello che sarà.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2022
ISBN9791220134828
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    Anteprima del libro

    Fuori c'è il sole - S.

    cover01.jpg

    S.

    Fuori c’è il sole

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-3013-4

    I edizione ottobre 2022

    Finito di stampare nel mese di ottobre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Fuori c’è il sole

    1

    Quel divano marrone

    Tornando indietro nel tempo posso dire di non avere un brutto ricordo dei miei genitori, penso che non mi abbiano mai fatto mancare niente, o per lo meno che mi nascondessero molti dei loro problemi, che, a oggi, posso dire siano stati tanti e per nulla trascurabili. Non è un caso infatti se ho trascorso gran parte della mia infanzia con i miei nonni paterni, Alverio e Bruna, due persone eccezionali, capaci di mostrarmi il lato bello di ogni cosa, ma soprattutto di mantenermi sulla retta via, un compito estremamente difficile, considerando il contesto che mi circondava in quegli anni. Diciamo che è a loro che devo la mia vita, o meglio, è merito loro se la mia vita non ha preso una brutta piega. A fare la differenza è stata la loro presenza costante nella mia quotidianità, cosa che non si poteva dire di mia madre.

    Non capivo perché mia madre non ci fosse quasi mai, la sua presenza in casa era una sorta di miraggio, e capitava troppo spesso che si allontanasse da me anche per molto tempo. Per andarla a trovare dovevamo fare interminabili viaggi in macchina verso i luoghi più disparati, e mentre io ero sempre molto contento di vederla, notavo ogni volta da parte dei nonni e di mio padre una certa stanchezza e sofferenza, come se la prospettiva di rivedere mamma causasse loro un profondo dispiacere. Ma a cinque anni non dai molto peso ai sentimenti degli adulti e di certo non sei ancora in grado di comprenderli, dal momento che non hai ancora avuto modo di conoscere il mondo in tutte le sue sfumature, comprese le più torbide. Dall’altro canto, però, mi sono sempre reputato un ragazzino sveglio, nonostante per le maestre dell’asilo avessi problemi relazionali, perché ero molto taciturno.

    Lo ero, non lo nego, ma c’era un mondo dietro quei silenzi, dietro quella paura di essere giudicato che inibiva ogni mio comportamento. Nella mia testa giravano molti pensieri che gli adulti generalmente ignorano sempre, non pensando che un bambino possa captare ogni parola e interpretare ogni gesto a modo suo, proprio come io stavo facendo con i miei genitori.

    Tutto era cominciato una sera di novembre, avevo 8 anni, ero a casa e come sempre volevo andare alla sala giochi di un paese vicino. Ero solo un bambino e il divertimento, come è giusto che fosse, era il mio primo pensiero. In quell’occasione mio padre si dimostrò poco propenso ad accontentarmi, perché era stanco e voleva continuare a rilassarsi giocando alla Super Nintendo, ma come sempre trovai in mia madre una valida alleata. Mamma mi accontentava sempre, mi viziava, se così si può dire, quindi è con lei che ho insistito, perché sapevo che alla fine avrebbe ceduto alle mie richieste. Solo poi capii il motivo di tutta quell’accondiscendenza, di quella disponibilità a esaudire i miei desideri, anche quando sarebbe stato meglio dirmi qualche no...

    Quella sera, nonostante mio padre non volesse, mamma mi prese per mano dicendomi quell’Andiamo piccolo che accolsi con un sorriso troppo grande per la mia faccia da bimbetto.

    Fuori c’era una pioggia sostenuta, ricordo ancora le gocce che battevano sul vetro delle finestre, ma non faceva freddo, quantomeno non per un ragazzino emozionato all’idea di una serata di divertimenti. Prima di uscire attraversai il lungo corridoio di quella casa vecchia e malandata – che qualcuno probabilmente avrebbe definito una bettola, ma che era tutto ciò che potevamo permetterci e che io avevo imparato ad amare – e andai in camera a prendere i gettoni per i giochi, avanzati dalla settimana precedente. Li custodivo come un bene prezioso in una cassettina verde di alluminio e ricordo di averli saggiati con i polpastrelli con la stessa soddisfazione con cui un pirata si rigira tra le dita una manciata di monete d’oro. Ero al settimo cielo, ma dalla camera sentii discutere i miei genitori, poche brevi parole che si conclusero con un Fai come ti pare di mio padre, irritato e nervoso come ero abituato a vederlo, quando si rivolgeva a mamma. Poi mia madre venne in camera mia, mi afferrò per mano e mi trascinò via velocemente, come se tra i due fosse lei quella ad avere più fretta di raggiungere la sala giochi. Uscendo sbatté la porta dietro di noi e corremmo in macchina riparandoci dalla pioggia come meglio potevamo. Avevamo una Citroen Visa del 1984, ricordo ancora che era di un marrone che a me non piaceva affatto e che puzzava tremendamente di fumo. A quel tempo c’erano i posacenere nelle auto e quello della nostra era sempre pieno fino all’orlo di filtri anneriti.

    Finalmente arrivammo, ero frenetico, non vedevo l’ora di iniziare a giocare a Puzzle Bubble e a tutti gli altri videogiochi, quei bussolotti enormi che mi ricordavano delle cabine telefoniche, con quelle manopole rosse piene di germi inspiegabilmente capaci di affascinarmi. Entrando avevo l’impressione di trovarmi in un parco divertimenti; era immenso, c’era perfino la sala da bowling, molti biliardi e biliardini, ma il mio gioco preferito era quello con il tavolo che sparava aria dal basso e si giocava a fare goal nella porta avversaria con un dischetto piatto. Purtroppo per giocarci si doveva essere in due, e puntualmente mia madre scompariva ogni volta che arrivavamo, così dovevo accontentarmi di giocare a qualche videogioco.

    Sono stato sempre un bambino calmo e non ho mai combinato grossi guai, quindi mi mettevo a giocare finché non finivo i miei gettoni ed ero costretto a cercare mia madre per pregarla di comprarmene altri, richiesta che solitamente non veniva accontentata e che anzi si concludeva con mamma che mi riportava a casa. Io avevo giocato e lei aveva raggiunto il suo obiettivo, era questo il patto, anche se io ne ero totalmente all’oscuro. Anche quella sera non ci furono eccezioni e dopo averla ritrovata con una certa fatica, lasciai il mio personale paradiso gongolando soddisfatto.

    Il ritorno a casa fu rapido, vista l’incessante pioggia dovemmo correre di nuovo fino al portone di quella casetta a ingresso indipendente, strutturata tutta sul piano terra. Prima che la ristrutturassi, si entrava in un angusto corridoio di circa un metro di larghezza, dal quale si aprivano cinque porte e le rispettive stanze.

    Quella sera, entrando vidi mio padre spuntare dal salotto con aria truce e lo sguardo di un uomo che nascondeva una tempesta nel cuore. Anche in quell’occasione decisi di non dargli troppo peso e corsi in camera mia, superandolo senza dire una parola. Appena entrò mia madre, invece, la discussione si accese in un attimo, violenta e improvvisa come un’esplosione. Era sempre così tra loro, ma per quante volte possano ripetersi, quelli sono momenti a cui nessun figlio potrà mai abituarsi.

    Non ricordo molto di quello che si dissero, la prima parte del discorso era fatta solo di frammenti confusi, solo tante urla e i primi singhiozzi di mia madre. Ogni volta che litigavano io rimanevo in camera e facevo finta di niente, mi estraniavo, iniziavo a giocare con le Micro Machines; ne avevo tantissime e tutte di colori diversi, e mi divertivo a farle sfrecciare sull’enorme tappeto che mi aveva comprato papà, quello che raffigurava le strade di una città che non conoscevo. Mi immergevo in quel traffico illusorio che creavo nella mia mente, e così viaggiavo lontano con la fantasia, in luoghi mai visitati, con amici che non avevo mai incontrato, fino a non sentire più le urla dei miei genitori, fino a illudermi che il mondo in cui vivevo fosse solo un brutto sogno e nient’altro.

    Quella sera, però, era diverso, le urla non si fermavano, sentivo sbattere gli oggetti, sentivo cose cadere e andare in frantumi, sentivo le voci concitate e ricolme di frustrazione. Quella sera non ero nemmeno in grado di concentrarmi sul rumore della pioggia, quello che durante la notte riusciva puntualmente a darmi conforto. Non ce la facevo perché quella sera la vera tempesta era dentro di me, perché percepivo che qualcosa non andava e non era più il momento di restare in camera e trovare rifugio nel mio mondo di fantasia. Con tutto il coraggio che avevo in corpo uscii dalla cameretta e raggiunsi la porta del salotto, sbirciando attraverso uno spiraglio.

    I miei genitori erano lì, crudelmente reali, come reale era il vortice di rabbia e disperazione che li avviluppava, come reali erano le loro grida.

    «Tu ti fai... Ti fai ancora!».

    Avevo sentito altre volte mio padre gridare, ma mai con quella furia, mai con quella rabbia disperata, e senza dubbio era la prima volta che le sue urla mi spaventavano in quel modo. Mia madre continuava a piangere e io continuavo a non capire cosa volesse mio padre, perché se la prendesse tanto con lei.

    «Sei stata di nuovo da quello a comprare la coca non è vero? Non mentirmi!».

    «No, non mi sono fatta ok? Ho portato nostro figlio alla sala giochi, siamo stati insieme per tutto il tempo».

    «Bugiarda! Adesso vado a chiederglielo».

    Appena sentii quelle parole il sangue mi si gelò nelle vene e in un attimo non fui più in grado di muovermi. Ebbi l’impressione di aver dimenticato perfino come si facesse a respirare e rimasi lì impalato, in attesa dell’inevitabile, ma con la chiara percezione che qualcosa di irreparabile stesse per verificarsi. Una valanga era sul punto di precipitarmi addosso e io non avevo la forza di muovere un passo.

    Mio padre si voltò, dando le spalle a mamma, e si incamminò verso la porta dietro cui mi ero nascosto. Non appena la aprì, mi trovò lì con gli occhi colmi di spavento e una voglia matta di piangere. Non capivo il perché, ma avevo paura, ero terrorizzato all’idea che avrei finito per rovinare tutto.

    Papà mi guardò con quei suoi nuovi occhi tormentati, poi pose la fatidica domanda alla quale io non volevo rispondere, mi chiese se fosse vero che mamma era stata con me tutta la sera.

    Mia madre mi fissava con occhi speranzosi, voleva che la aiutassi, voleva che dicessi una bugia per non metterla nei guai, e allora la dissi.

    «Sì, mamma è stata con me a giocare stasera».

    Notai subito l’ombra di consapevolezza che attraversava il volto di mio padre – la consapevolezza che suo figlio gli avesse appena mentito – e forse un senso di tradimento che aveva inasprito la sua espressione. Mio padre non ci vide più dalla rabbia e uscì dal salotto dando un pugno fortissimo alla porta della mia cameretta, quel pugno che sarebbe rimasto inciso sulla mia porta per lungo tempo, come monito di quello che era successo, di quanto poi sarebbe cambiata la mia vita e di quanto questo mi avesse fatto crescere in fretta. Quei cerchi concentrici sulla superficie di legno sono stati per lunghi anni la muta testimonianza di quella svolta della mia vita, una spiacevole annotazione che mi ripeteva di non dimenticare.

    Intanto fuori la pioggia sembrava diventare un uragano e io iniziai a piangere. Mio padre mi spaventava, quindi cercai conforto fra le braccia di mia madre, stringendola forte e nascondendo il viso contro il suo petto. Eravamo sul divano e le lacrime continuavano a scendere, mentre lei, senza forze, tentava di consolarmi con qualche carezza incerta e la sua voce malferma. L’effetto della droga la stava facendo rilassare, era completamente persa e non faceva altro che piangere. Ricordo ancora quel divano immenso lungo quasi tutta la parete, era marrone con delle venature di un colore che ormai si è cancellato dalla mia mente.

    Guardando avanti a me c’era un mobile da cui era caduto il pistone di un camion che i miei genitori utilizzavano come posacenere, un reperto che probabilmente mio padre aveva preso a lavoro. Quel pistone era pesantissimo e cadendo aveva scheggiato una mattonella del pavimento, un’immagine che mi era rimasta particolarmente impressa, forse perché anch’io mi sentivo un po’ scheggiato in quel momento. C’era anche un portafoto a terra, non ricordo quale foto contenesse, ma sicuramente non una della nostra famiglia, l’unica foto che ci ritraeva tutti e tre felici era stampata e chiusa in un album oramai ingiallito dal tempo, una foto che mi raffigurava alla festa di compleanno dei tre anni, la torta davanti a me, mio padre alla mia destra, mentre guardava l’obiettivo con occhi allegri, e mia madre alla mia sinistra, rivolta verso di me con un volto che esprimeva tutto il suo amore, ma con quella vena di stanchezza negli occhi a renderla stranamente distante, come se non fosse mai completamente presente a se stessa. Mia madre era lì con noi ma solo fisicamente, tutto il resto di lei si trovava altrove, in un luogo che né io né papà potevamo raggiungere. Ho sempre percepito in lei un’incostanza nell’amarmi, come se ci fosse qualcosa di molto più importante di me alla quale dare priorità. Non che non mi amasse, di questo non ho mai dubitato, ma c’era sempre qualcos’altro a trascinarla lontano da me, una forza a cui non poteva sottrarsi e che non era in grado di contrastare. Perché mia madre è sempre stata una donna fragile, una donna che cercava la sua sicurezza e la sua spensieratezza in qualsiasi cosa eccetto che nella sua famiglia.

    Ho ancora impresse nella mente le sue parole sconnesse, i suoi racconti sconclusionati e vagamente deliranti, come quando mi teneva la mano la sera e a volte mi parlava dei suoi problemi, problemi che non potevo capire. La pesantezza con la quale affrontava qualsiasi imprevisto mi ha fatto capire che da grande non avrei mai voluto essere come lei, non sarei mai diventato una persona tanto debole ed egoista, ma avrei lottato per i miei ideali, per i miei obiettivi, mi sarei circondato di persone da amare e che mi avrebbero amato a loro volta. Ma soprattutto non avrei deluso nessuno di loro, non come lei aveva deluso me.

    Quella sera di tanti anni fa, andai a dormire piangendo. Piansi tutta la notte, fino a sentire gli occhi gonfi e doloranti, finché il petto non iniziò a fare male per i singhiozzi che lo scuotevano. La mattina seguente, nonostante fosse sabato, nessuno mi accompagnò a scuola, e quando mi alzai, notai che mia madre non c’era. La cercai ovunque, con un’angoscia annichilente a chiudermi la gola, e presto dovetti arrendermi all’evidenza che non sarebbe tornata. Potevo continuare a sperare quanto volessi, ma la realtà non sarebbe cambiata e lo aveva capito persino un bambino di otto anni. Eppure, non appena mio padre mi disse che da quel momento in poi l’avrei vista di meno, scoppiai nuovamente a piangere, come se quella notizia fosse un fulmine a ciel sereno, come se non ci avessi rimuginato sopra per tutto il tempo. Lo sapevo già, sapevo tutto, ma non ero comunque preparato ad affrontare quel dolore, così rimasi lì davanti a lui che se ne stava seduto sulla sedia in cucina, impassibile e apparentemente indifferente alla mia sofferenza. Già, perché da quel che ricordo, mio padre non aveva nemmeno provato a consolarmi in quel momento, mi aveva osservato e basta, riflettendo chissà su cosa, facendo considerazioni che io non

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