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Cercando una parola che ascolti
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E-book263 pagine3 ore

Cercando una parola che ascolti

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Info su questo ebook

Esistono parole che ti ascoltano e parole che non ti ascoltano: questa è la consapevolezza che, pagina dopo pagina, si fa strada in questa storia. E cosa succederebbe, se qualcuno provasse a cercare parole che ascoltano? Forse, dal buio del non ascolto, potrebbero cominciare a sgorgare colori?
L'autore è un sacerdote e vive in una comunità, dove tante persone si aprono alla vita, passando proprio per quest'esperienza: l'ascolto, di sé stessi e della vita che ci circorda.
LinguaItaliano
Data di uscita19 dic 2022
ISBN9791222038025
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    Anteprima del libro

    Cercando una parola che ascolti - Alessio Ugo Ughetti

    Alessio Ugo Ughetti

    Cercando una parola che ascolti

    Edizione a cura di Pasquale Di Donato

    Copertina e grafica: Serena Fattibene

    Fotografie: Claudia Amatruda

    TUTTI I DIRITTI RISERVATI

    Ogni riferimento a fatti, cose o persone è puramente casuale.

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Autore.

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    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

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    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    Ascolta

    Lasciare

    Essere letti

    Tentativi

    L’antidoto

    Lontani e vicini

    Solo

    Reagisci

    Solo

    Incontro

    Ruit hora

    Il mare

    Ruota che gira

    Solo

    Madre

    Lontani e vicini

    Festa

    La vita

    A gambe incrociate

    Tentativi

    Fantasia

    L'inaspettato

    Passeggiando

    Lasciarsi condurre

    Aprire le ferite

    Primavera

    L'anima che è il mare

    Terra di passaggio

    Danzare sotto la pioggia

    Libero di essere figlio

    Fragile corazza di solitudine

    Sofia

    Dipingere il buio

    Essenziale (in)visibile oltre

    Essere letti

    Natale

    Madre

    Nudità

    Sahar

    Sahar

    La poesia della quotidiana prosa, dal cuore

    Ancora dal cuore, in versi

    Amore e Psiche

    Profondo e leggero

    Sahar

    L'abisso

    Notte e aurora

    Aurora

    Al di là dei sogni

    A te, che sai dipingere il buio sulle note della passione,

    dal profondo più profondo di me.

    ...E la vita continua a chiamarti

    immagine 1

    Ascolta

    La mia stanza è una prigione, un’oscura prigione appena rischiarata da una fredda, pallida luce al neon, non illumina dentro.

    I miei nervi tesi, tirati, gridano un bisogno carnale di libertà, di essere me stesso. Come mi appare inospitale la città là fuori! Fredda anch’essa, è una scatola che racchiude, ibernandole, dolcissime emozioni, cinicamente bloccate, ma che rimane misteriosamente romantica. Sì, crudelmente romantica nella sua glaciale freddezza. Lì l’ho incontrata la prima volta, in quel surreale scenario allora così intimo: com’era bella! Nei suoi occhi brillava una promessa di felicità. Chissà... – mi domandavo tremante – quello sguardo è davvero una porta aperta che mi permette di sprofondare piano, dolce, nelle profondità del suo cuore? Oppure mi sto ingannando, sto costruendo tutto io?.

    Abbiamo cominciato a frequentarci, ed è stato un incredibile cuore a cuore! Stando insieme anche le cose più banali o ridicole parevano un sogno che inaspettatamente si veniva realizzando sotto i nostri occhi, nelle nostre vite.

    Poi poco fa, qui, nella stessa città del nostro primo incontro, in un attimo senza più palazzi né macchine, mi ha guardato sofferente e dolce, come se non volesse farmi troppo male:

    «Senti, è bene che per un po’ non ci vediamo più!».

    «Come! Credevo stesse andando bene, stavo già sognando di organizzarci per vivere insieme».

    «Luca, ho perso il lavoro! Non torno più a Bologna».

    Ho provato una fitta al cuore: «Mi spiace, ma… non ti preoccupare, insieme ce la faremo! Io ti amo!».

    «Luca, non è questo, non è il lavoro… cercherò… ma è che sono confusa, non riesco a spiegarti, adesso. Ho bisogno di qualche settimana di distacco».

    «Set-ti-ma-na?!».

    Ci siamo scambiati qualche parola di circostanza, parole imbarazzate, quindi mi ha dato un bacio sulla guancia e «ciao» – mi ha detto, con voce sottile, tremante ma tremendamente decisa.

    Sdraiato sul letto della stanza d’ostello in cui mi trovo, chiudo le palpebre: riporto alla mente quello sguardo, quell’ultimo sguardo carezzevole di chi non vuole farti troppo soffrire, e per questo forse ti fa stare ancora più male, come si sente male la durezza accanto alla tenerezza. Vorrei amarla, così come è, e vorrei capire (maledetta testa) se è mai possibile che la dolcezza di questi due anni possa svanire così, improvvisamente, misero sogno alla luce di uno scioccante risveglio!

    Ma è proprio vero che è stato tutto così improvviso? Un’angoscia mi attanaglia, sale dentro da non so dove. È già da un po’ che lei era diversa: più chiusa, a volte si perdeva con lo sguardo come se vagasse con la mente, sfuggente… e io, io le ho mai chiesto con calma come stesse davvero? Come si sentisse in quei momenti?

    Terrore: forse ho sottovalutato quei segnali, forse ho detto cose che l’hanno ferita o che hanno cercato di distrarla maldestramente dai veri sentimenti che stava vivendo e che mi spaventavano. Forse ho cercato di attirarla nella bolla di un abituato, spensierato star bene insieme, minimizzando da pachiderma tante piccole cose… e forse il nostro star bene era solo mio!

    Giro un attimo lo sguardo e osservo la parete bianca della stanza d’ostello in cui mi trovo: un solo quadro, un bozzetto di Chagall, appeso. Macchie di rosa e verde sbiadite nel pallido squallore che mi circonda. Queste mura sono una prigione. Mi pare di contemplare lei, Elisa, da dietro le sbarre di questa bianca cella, senza possibilità di raggiungerla.

    E mi sento ancor più prigioniero di me stesso, del mio passato: prigioniero di parole che forse hanno rivelato di me qualcosa che non è pienamente vero, o che possono essere suonate ambigue, o che possono averla spaventata... Quel passato, che fino a poco fa era un presente così spensierato, ora mi schiaccia come un macigno per la sensazione fastidiosa, terribile, di non poter più riparare, di non poterle più stare accanto, chiarire, toccarla, ascoltarla, baciarla e accarezzarla ancora e ancora e ancora.

    Un moto di reazione, non troppo deciso, mi fa sobbalzare: Tutto passerà, ne sono convinto, tutto passerà, con o senza di lei!. Cerco così di addormentarmi dietro le sbarre di quella cella, nell’amara dolcezza di chi racconta a se stesso, fingendo di credere alla propria menzogna, che va bene così, che tutto davvero passerà. Mi sento un’aquila che, trafitta all’improvviso da un dardo infuocato, stramazza a terra e si agita impacciata dalle grandi ali dei suoi desideri, ed è così goffa nel suo dimenarsi! Ridicola. Vorrei svenire in un sonno profondo, sperando che la notte sia materna e apporti qualcosa di nuovo all’agitazione che mi fa fremere.

    Perché gioia e dolore sono così vicini? Perché ci si può illudere di stare amando davvero, mentre forse si sta amando senza amore?

    Gioia e dolore, l’amore è la fonte di entrambi: è la morbida tenerezza dei cuori che, quando si incontrano, produce la gioia; sono le spine che li proteggono a provocare dolore. E separarsi dopo essersi incontrati lascia smarriti, vuoti e persi.

    Dio, dove sei? Questa notte, notte di confusione, avrei bisogno di te, se esisti veramente. Ma anche lui è assente, inerte, senza lacrime né sorriso. Tutto in questa notte è vuoto.

    Notte assente, vuota di stelle.

    Peggio,

    notte popolata di gelide stelle ammiccanti

    sarcastiche nel riso.

    Il cuore è in colpa.

    Lo stesso tenero cuore

    piange

    puntandosi il dito contro.

    Tu… vergogna… tu…

    sussurra il cuore deluso a se stesso,

    amaro.

    E quel tu accusato sono io,

    io accuso me stesso mentre,

    lacrimevole,

    chiedo pietà.

    Amara contraddizione!

    La notte stellata di romanticismo è sorriso di beffa,

    freddo,

    labbra senza cuore.

    Il dolore pare banale

    di fronte al dolore del mondo.

    No! Inganno, inganno insensibile.

    Accarezzare dovrei il mio dolore,

    ascoltarlo,

    rispettarlo.

    Non è uomo chi rifiuta di sentire se stesso

    pretendendo di sentire l’altro.

    Peggio,

    chi rifiuta di sentire se stesso

    per fingere di sentire l’altro.

    Il mio dolore d’amore

    è sguardo intenso,

    carnale vita,

    che chiede di essere assaporata,

    non più ibernata,

    assaporata di nuovo.

    Il pentimento è desiderio di vita,

    di vivere ancora e ancora e ancora.

    E guarda in volto la disperazione,

    languida, seducente.

    E lo scoraggiamento,

    che di ogni desiderio è morte.

    Morte sconsolata, affascinante, smaliziata.

    Vorrei accarezzare il dolore ma non riesco.

    Dentro il buio gelido della notte.

    Lasciare

    Dove sono? Una notte nera affollata di sogni troppo vivi per farti dormire…

    Che nottataccia! Un uomo dallo sguardo grigio e il risolino tra il compassato e il sarcastico mi sibila nel sonno con voce sottile, quasi metallica: «Bravo scemo, te la sei fatta soffiare da qualcuno… ora starà tra braccia più calde e soprattutto più comprensive delle tue». Poi assume un’aria cattedratica, da maestro: «Che romantico che sei… rincoglionito dal tuo pensare solo a te stesso!».

    Mio Dio, ci manca solo un uomo che nel sogno ti ghigna contro tra lo sbeffeggiante e lo psicologico... ma da dove salta fuori?

    A volte la notte è estenuante più del giorno, quando fallisce nel tentativo di narcotizzare il dolore e invece lo amplifica, svelandone le oscure radici che giacciono nelle profondità del cuore.

    Il cuore! Che casino!

    Poi mi ritrovo in una prateria immensa, sterminata, e all’improvviso un orco, di quelli con la testa verde e due dentoni che sporgono dal labbro inferiore, mi grida furioso: «Solo, solo, solo... da questo vuoto non uscirai, mai mai mai!». Poi fa come per avventarsi contro di me, con l’aspetto goloso e voglioso di chi vuole farsi una bella colazioncina ingoiando uomini scoraggiati di se stessi.

    Io scappo col volto perlato di quel sudore che ti sorprende nei momenti di panico, materializzando l’ansia che ti porti dentro.

    Poi, all’improvviso, l’orco scompare ed ecco giungere da non so dove una voce dolce, supplichevole:

    «Vieni, vieni!». È una voce rotta da lacrime. Sì, è lei, con la chioma bionda… è sdraiata per terra, adagiata sul manto verde della grande prateria. Mi inginocchio tremante accanto a lei, sussurrando:

    «Eccomi, sono qua, perdonami». E mi chino per baciarla sulla guancia. Elisa si scosta e si gira verso di me, sollevando gli occhi ancora umidi. Non dice nulla. Nel suo sguardo c’è la delusione fredda e irreparabile di chi percepisce una distanza incolmabile nel cuore dell’altro. Ma non sembra soffrirne troppo. Continuiamo a guardarci negli occhi in silenzio, e in quel silenzio mi sembra di cogliere che in fondo lei si sente sollevata per la possibilità di chiudere la nostra storia e aprire un altro capitolo nella sua vita, anche se non ha il coraggio di dirmelo perché non vuol farmi soffrire troppo.

    «Ciao» – mi dice piano all’improvviso per poi scomparire, lasciandomi sotto il grigio perlaceo del cielo e il verde umido del prato.

    Solo. Silenzio e solitudine.

    Non mi ero mai reso conto di come i colori, quando dentro è tutto scuro, potessero rabbuiarsi e divenire sfumature della notte.

    Apro gli occhi di scatto, sudato. Vado verso la finestra, barcollante. Ho bisogno di aria, ho bisogno di vita.

    La dolce luce, inebriante, del mattino scalda la pelle: è quella luce liquida del sole di settembre che porta in sé la promessa dell’autunno e pare bagnare i palazzi alti di quel quartiere di cemento, rendendoli per un attimo più leggeri, opachi scrigni che custodiscono insospettati sogni di persone vive. E ferite.

    Il treno parte fra due ore.

    Mi lavo i denti, senza guardarmi troppo allo specchio per paura della mia faccia sfatta, faccio la valigia, pago la camera, salgo sulla metro, arrivo in stazione... tutto mi sembra un finto scenario che guardo inebetito, distratto, come si trattasse di un film girato per altri. In primo piano nella mia mente, nitidi, solo gli occhi e i contorni di lei: Elisa. Mi sembra che possa sbucare da un momento all’altro, uscendo da un vicolo o da un bar… oppure lì, ferma ad un binario della stazione. Ma la vita non è un film, fa molto più male. E dire che al cinema quasi quasi godi mentre ti struggi nei finti tormenti amorosi degli altri. Ora non c’è godimento né poesia, solo stordimento.

    Essere letti

    Il treno regionale stride contro le rotaie, furiosa scatola indifferente ai miei sentimenti invisibili eppur così materici, carnali, reali. Davanti a me una donna sulla quarantina guarda dal finestrino, persa in chissà quale mondo. È la prima volta che ho la sensazione della vertigine pensando a quanto abissale possa essere il mondo di sentimenti che ci portiamo dentro, il mondo dell’amore e quello del dolore, il mondo dei sogni e quello delle delusioni. E la terra mi appare come una stupida palla, troppo angusta per contenere tutta quella marea. E troppo sperduta nell’universo, questo sputo d’universo, per contenere l’immensa preziosità dei cuori: che davvero l’uomo sia un essere inutile e il suo un inutile dolore? E l’amore soltanto una delle sue tante passioni tristi?

    Il solo pensiero mi fa rabbrividire e stride, peggio delle ruote del treno contro le rotaie, stride in modo assordante con l’intensità del mio dolore: bruciante, acuto, tagliente, affilato. Penso al dolore come a una spada che trafigge dentro: tutto comincia a sanguinare, tenerezza, stupore, speranza, futuro, tutto è trapassato con gusto sottile e cinico dalla lama affilata del dolore che fende la carne del cuore da parte a parte.

    Proviamo a leggere o impazzisco mi dico esausto aprendo il mio bel libro di Gibran. L’occhio cade su dei versi che paiono scritti giusto per me:

    "Gli altri vedono in te una bellezza

    che passa più velocemente dei suoi anni.

    Ma io vedo in te una bellezza che non sfiorirà mai.

    E ancora nell’autunno dei suoi anni

    non avrà da temere a guardarsi allo specchio, perché non verrà umiliata.

    Io solo amo ciò che è in te e che non si vede".

    A volte la vita è misteriosa, pare... viva! E ti segue con occhi strani, non so ancora se benevoli o sadici, incrociandoti all’improvviso in quello che stai sperimentando. Le chiamiamo coincidenze, sì, quelle coincidenze che ti fanno trasalire perché un sogno, magari piccolo, diventa realtà in modo inaspettato, come se mani invisibili ti stiano conducendo dove da solo manco speravi d’arrivare. Anche se questo miracolo in genere dura solo un attimo, effimero, sfuggente. Oppure quelle coincidenze che ti fanno trasalire, perché ti pare che persone, discorsi, versi, racconti, paesaggi improvvisamente ti stiano parlando... e hai paura come si ha paura quando qualcuno ti guarda dritto negli occhi, magari dopo mesi o anni di inutile silenzio.

    Ora Gibran mi apre l’orizzonte insospettato di un amore vero. Proprio ora! Non potevi dirmelo prima! Sì, è vero, questo è amore! Amore più forte dello scorrere del tempo che, fiume inesorabile, inevitabilmente scava solchi profondi nel volto e nel cuore. Perché attinge in profondità la propria forza, perché vede dentro.

    Ma io vedo in te una bellezza che non sfiorirà mai.

    Io amo e voglio amare ciò che è in te e che non si vede… Posso davvero amare così? Anche se cambiasse (che stupido, è già cambiata!), se mi deludesse, se… Gli infiniti se della vita (ventaglio temibile di possibilità che la fantasia di milioni di uomini non ha saputo esaurire) mi spalancano davanti il fitto buio, palpabile, materico, dell’incertezza. E l’incertezza apre, spalanca la voragine dell’angoscia, dell’inadeguatezza e debolezza… Potrei amare così? Di certo vorrei, anche solo per un attimo vorrei vedere con gli occhi di Gibran (che occhi sono, cosa vede?). Esiste un amore che riversa sempre l’inebriante dono di un incontro rinnovato, circonfuso di una dolcezza che non è mai negata e che, anzi, cresce incessantemente e si rinnova di giorno in giorno?

    Sempre: parola di piombo, piccola e pesante, che fa gettare la spugna e cadere le braccia in segno di resa a milioni di uomini.

    Getto un’occhiata fuori dal finestrino, col libro aperto su quella pagina misteriosa e provocante, che parla dell’esperienza che un uomo pare aver vissuto proprio per me. La testa è stanca di questi ragionamenti così immensi, in cui i desideri e le paure dei cuori di tutti i tempi e luoghi paiono annegare.

    Ora, nella mente, solo lo sguardo di Elisa. Il suo bacio. Bacio di Giuda. Ciao. Negli occhi e nel cuore forse un addio.

    Sprofondo in un sonno questa volta senza colori, il libro aperto sulle mie gambe. Sto viaggiando in un tunnel, ma non so verso dove.

    Non so se ne uscirò.

    Tentativi

    «Allora, com’è andata?».

    «Bene mamma, bene!» – rispondo con un sorriso che mal cela sotto un velo di menzogna la mia angoscia.

    «Elisa come sta?» – incalza, credo abbia intuito qualcosa.

    Varcata ormai con me la soglia dell’infanzia e dell’adolescenza, mamma è divenuta quasi infallibile nell’intuire il mio vero volto, anche quando cerco di trincerarlo dietro abilissime maschere di cera. La cosa mi infastidisce un casino.

    «Allora, come sta Elisa?».

    «Benino».

    «Non sembra».

    «Che ne sai tu, l’hai vista forse?».

    «La vedo riflessa nella tua faccia tirata e nel tuo sguardo pensoso, assente».

    Odio quando fa così.

    «Dai, non farmi la radiografia, sono solo un po’ pensieroso!» – dico con tutta la gentilezza che riesco a raccogliere dentro per non mandarla a quel paese, gentilezza depositata in qualche angolo della mia anima stufa.

    «Ok» – tace continuando a mangiare.

    Fisso un attimo i suoi grandi occhi marrone chiaro, che rivelano trasparenti tutta la dolcezza incapace alla resa di cui profuma il suo amore di madre. Le faccio un sorrisino ebete tra il grato e l’infastidito. Grato perché mi

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