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Più silenzioso dell’acqua
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E-book114 pagine1 ora

Più silenzioso dell’acqua

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La guerra semina morte anche tra chi è rimasto in vita, una morte lenta fatta di rimorsi e fantasmi. Reduce dal conflitto fratricida serbo-bosniaco seguito alla disgregazione dell’ex Jugoslavia, Danilo Mišic è consumato dal senso di colpa per un fatale errore commesso sul campo di battaglia e si è chiuso in una prigionia mentale in cui trova spazio solo un dialogo immaginario col poeta russo Daniil Ivanovic Charms. Ruotano attorno a Danilo i cinici medici dell’ospedale psichiatrico, la moglie Radmila, il dottor Borkovic che lo tiene in cura. Fanno da cornice le contraddizioni del dopoguerra: la corruzione, l’impunità dei carnefici, i traumi personali e collettivi di un conflitto che neppure l’intervento di forze sovranazionali è riuscito a fermare. Più silenzioso dell’acqua è un requiem privo di schermi ideologici su una guerra che non ha visto vincitori ma solo vittime.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2018
ISBN9788864792088
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    Anteprima del libro

    Più silenzioso dell’acqua - Berislav Blagojevic

    All’insensatezza con amore

    Danilo: Sento dire, Daniil Ivanovič, che ha parecchie cose da dire sull’insensatezza.

    Charms: A me interessa solo l’insensatezza, solo ciò che non ha senso alcuno.

    Danilo: Pensa di potermi aiutare?

    Charms: Qual è il problema?

    Danilo: Anche a me interessa l’insensatezza.

    Charms: Qual è il problema?

    Danilo: Sono incompreso.

    Charms: Non c’è da meravigliarsi quando a una persona interessa l’insensatezza. Naturalmente esistono molte cose senza senso; concretamente, cosa le interessa?

    Danilo: La Bosnia-Erzegovina, così com’è!

    (Finisce qui)

    – Egregi colleghi, avete poco fa ascoltato quello che scrive e ciò che pensa il paziente numero 36918. Così come anche suggerito nell’ultimo rapporto della commissione medica, recentemente al paziente sono stati consegnati una penna e un quaderno. L’idea è che il paziente vi annoti i suoi pensieri, le sue osservazioni e cose simili, affinché i membri della commissione medica, sulla base di queste annotazioni, penetrino fino alla radice del problema e prescrivano una terapia adeguata alla diagnosi stabilita – disse il dottor Borković con un tono quasi solenne.

    – Abbiamo una diagnosi? – chiese qualcuno.

    – Non molto chiara – rispose il primario dalla sinistra.

    – È evidente che il paziente presenta numerosi sintomi di malattie diverse. Visibili sono gli aspetti di personalità sdoppiata, schizofrenia, ma sono chiari anche segni di amnesia provocata da un’esperienza traumatica – ribatté uno dei membri della commissione.

    – Sì, tutto questo è nella sua cartella clinica. Insomma, cari colleghi, qualcuno di voi saprebbe interpretare quello che ha scritto il paziente numero 36918? – chiese finalmente il dottor Borković.

    – Per me non ha alcun senso – si fece vivo uno dei medici.

    – Certo che non ha senso quando il paziente scrive dell’insensatezza – ribatté un altro, accompagnato dalle risate dei presenti.

    – Va bene allora. Continueremo a seguire lo stato del paziente. È tutto per oggi – concluse il dottor Borković.

    Non tanto tempo addietro, fino a una decina di anni prima, il dottor Borković avrebbe vigilato su un caso simile, avrebbe sfogliato i manuali medici e gli almanacchi scientifici, avrebbe fatto domande a colleghi più esperti per un parere. Era così il dottor Borković, prima che si trovasse di fronte i poveracci che avevano subìto torture nei campi di concentramento, prima di partecipare alla cura di convalescenti frankensteiniani ricomposti e rammendati con i pezzi di soldati storpiati e passanti casuali, colpiti dalla raffica del fuoco incrociato.

    Era così, finché era ancora capace di addormentarsi senza pasticche e alcol. Finché non aveva smesso di condividere i sentimenti e poi anche di provarne. Prima che la parola ‘dottore’, davanti al suo nome, diventatasse un guscio che valeva la pena di riempire con le banconote delle famiglie e degli amici degli sventurati pazienti.

    Continuavano ancora a pagargli le false promesse, così come una volta le aveva pagate lui stesso. Con il matrimonio. Natalija non sopportava più quello che era diventato. Un autunno inoltrato, alla fine, lei era tornata dai genitori. Dopo innumerevoli sessioni, porte sbattute, notti passate senza chiudere occhio in un giaciglio solitario.

    I conoscenti pensarono che almeno il suo ego sarebbe rimasto ferito, poiché «che medico per la testa» è colui che non riesce a «sistemare le idee fisse di sua moglie e a impedirne la partenza?». Anche questo, però, non lo sfiorò. Ormai più nulla avrebbe potuto sfiorarlo.

    – Danilo Mišić – aveva detto in modo un po’ goffo e superfluo dopo il bacio, perché lei già sapeva il suo nome. Oh, sapeva parecchio di lui! O almeno pensava di sapere. Anche quello che però credeva di sapere di Danilo, ora non era importante. Si trovava tra le braccia di un attraente diciassettenne che odorava di ribollente pubertà e fumo di Filter 57¹. I brividi dell’eccitazione avevano cancellato per un attimo la sua memoria e un bacio era stato sufficiente a far sì che a stento ricordasse il proprio nome.

    – Radmila. Radmila Nedeljković – aveva balbettato sottovoce.

    – Beh, Radmila, mi fa piacere aver fatto la tua conoscenza – aveva detto lui con un sorriso da figo. Con un abbraccio sicuro di sé l’aveva in più resa sorda alle frasi sdolcinate degli altri corteggiatori.

    * * *

    Mia madre davvero non aveva niente di meglio da fare quell’estate! A un’estremità del mondo Joe Cocker freneticamente gorgogliava With a Little Help from My Friends, mentre all’altra lei faceva l’amore con mio padre. Su un grande prato hippy, fumati di marijuana, invitavano alla pace, mentre su un altro, molto più piccolo e nascosto agli sguardi, veniva concepito un futuro soldato. Deve essere andata così, perché sono nato esattamente nove mesi e sette giorni più tardi, nella Giornata della Gioventù². Mia madre, evidentemente, non sapeva cosa volesse dire divertirsi! Considerando il fatto che decise di tenermi, non so cos’altro potrei pensare. Eppure avrebbe potuto rovesciare addosso ai suoi vecchi tutti i Padrenostro comunisti, impacchettare delle cose, avvolgerle in una coperta e partire alla volta dell’Isola di Wight per il festival. Aveva deciso – e ancora oggi non mi è chiaro per quale motivo – di cambiarmi i pannolini proprio durante l’esibizione di Leonard Cohen, il quale, alle quattro del mattino, singhiozzava la canzone The Partisan, alla stessa elegiaca maniera sia in inglese che in francese:

    through the graves the wind is blowing,

    freedom soon will come³.

    Probabilmente mi allattava più o meno nel periodo in cui i Free rassicuravano i presenti che andava tutto bene, ripetendo innumerevoli volte il ritornello All Right Now. Allora, però, non andava tutto bene, non sarebbe andato bene nemmeno più tardi, e non va bene neanche oggi. Ne sono cosciente solo in quei brevi attimi illuminati dai bagliori dei neuroni nella mia testa. Ancora un solo secondo, forse due, e gli zoccoli inizieranno a battere sul pavimento in modo nefasto. Dopo di che il fracasso diventerà sempre più forte, sempre più terribile e vicino e l’orrore inizierà a circolare nei corridoi e a infiltrarsi nelle nostre narici e nelle nostre federe. Finalmente lo spettro si avvicinerà al letto su cui sono steso, protenderà la mano colma di pasticche e con una voce diabolicamente carezzevole dirà:

    – Bevi questo e andrà tutto bene.

    Andava al lavoro meccanicamente, come se qualcuno la conducesse. Non tenendo conto delle auto che strombazzavano, infallibilmente sceglieva le strade e i tragitti per i quali doveva andare. A testa bassa e con lo sguardo scagliato davanti a sé, aveva la sensazione di camminare lungo un cielo grigio riempito di fiocchi di gomme da masticare. Non guardava in faccia i passanti, non faceva caso ai filari di alberi e ai palazzi. Camminava soltanto, camminava e basta. Si era fermata solo una volta, al semaforo, e quei pochi secondi erano stati sufficienti a farla cadere in trappola e a farle sollevare lo sguardo. La facciata della casa dello studente era ancora ridotta male e psoriasica, così come quando ci vivevano loro due. Avevano iniziato a vivere insieme nella stanza numero diciotto. Un vecchio fornelletto, un letto sgangherato e un mucchio di libri. Sorrisi, canzoni e gioia… Danilo prima studiava solo letteratura, poi, dopo un anno, aveva iniziato contemporaneamente a studiare geografia e storia. Diceva che lo studio della letteratura era eccessivamente semplice e alquanto stereotipato e noioso. Nonostante tutti gli impegni, però, c’era il tempo per stare con gli amici, per le feste il venerdì e il sabato, per gli amoreggiamenti sul tetto della casa dello studente, per distendersi accanto al fiume. Si accese il verde e le immagini scomparvero. Di nuovo l’aveva assorbita il grigiore dei marciapiedi sporchi. E quella strana sensazione che la terra ruotasse molto più velocemente di prima, e che le giornate fossero almeno di qualche ora più brevi di quanto lo fossero mai state una volta. Andava sempre di fretta, ma non arrivava mai in tempo da nessuna parte.

    Versus

    Danilo: Da quello che ho capito, Lei, Daniil Ivanovič, è un credente, giusto?

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