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La ragione della neve. La guerra partigiana di un ragazzo delle langhe
La ragione della neve. La guerra partigiana di un ragazzo delle langhe
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E-book357 pagine4 ore

La ragione della neve. La guerra partigiana di un ragazzo delle langhe

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Info su questo ebook

Il romanzo narra la breve ma intensa stagione partigiana di Nat, un ragazzo della Langa di Alba, e al contempo la sua crescita umana e civile. Entrato nella Resistenza a soli diciotto anni, il giovane avrà modo di conoscere un mondo fino allora soltanto immaginato – e che si rivelerà in tutta la sua crudezza – provando esperienze che, a costo di delusioni e sconfitte, l’aiuteranno comunque a formarsi e a prendere coscienza di sé.
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2016
ISBN9788895628684
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    Anteprima del libro

    La ragione della neve. La guerra partigiana di un ragazzo delle langhe - Silvano Giacosa

    (Erodoto)

    PRIMA PARTE

    SULLA TERRA E NEI GIORNI

    Una stagione diversa e più sofferta si annunciava in quel novembre con una luce fredda e opaca che oscurava la terra.

    Un’aria ostile e tagliente più di quanto la gente si attendesse, spezzava ogni certezza e si insinuava nella pelle fino a graffiare il cuore.

    Germogli di speranza tentavano tuttavia di schiudersi, nell’azione di quegli uomini che, ribellandosi al potere che li voleva sudditi, rischiavano il loro sangue impegnandosi a dar corpo e vita a un sogno di libertà.

    Sotto le spesse coltri, Natalino assaporava un rinnovato tepore: unico piacere della giornata dopo la frugale cena. Nella piccola stanza, adiacente a quella della madre, il giovane tardava a prendere sonno, infastidito da un misterioso turbamento.

    I fratelli maggiori erano partiti per il fronte già da un paio d’anni: il primogenito con l’esercito nell’oscura campagna d’Albania, il secondo con gli alpini, nelle desolate lande della Russia.

    A Natalino, non ancora in età di chiamata, era toccato di rimanere a casa. Badare alle bestie e coltivare la terra in mezzadria, erano i compiti che gli competevano, imponendogli di tralasciare quegli studi cui si era applicato con profitto.

    Il giovane sembrava tuttavia appagato dal nuovo corso della sua vita. Restando accanto alla madre aveva la possibilità di supportarla con la propria vicinanza e l’aiuto quotidiano. A sua volta Fiorenza, grazie alla compagnia di Natalino, trovava più tollerabile la lontananza dai figli maggiori e la malattia del marito, ricoverato da mesi al sanatorio.

    La forzata inattività che si profilava con l’arrivo dell’inverno, sembrava tuttavia esercitare scarsa attrattiva in Natalino. E sì che la fatica in quell’anno era stata tanta. Su tutto, era il peso di tante responsabilità ed apprensioni a reclamare di esser smaltito. Il fisico necessitava di sonni lunghi e rigeneranti e la mente di momenti spensierati e leggeri, magari in compagnia di amici o parenti.

    Purtroppo questo era possibile solo in parte. L’unico amico rimasto era Tullio, il figlio minore della famiglia di mezzadri che, da sempre, abitava alla Pelata. Quella cascina che, come un trascurato castello medievale, dominava la collina e che dal basso dell’aia si poteva ammirare oltre la curva, abbracciata alla vigna vecchia.

    Da quella strada sinuosa e ardita, come tracciata dalle mani di un bambino, Tullio scendeva ogni volta che doveva recarsi in città.

    Sebbene fosse più conveniente tagliare per la capezzagna, rasentando la riva fino alla carrabile, il ragazzo si ostinava a scendere dalla strada principale, per la possibilità che aveva di incontrarsi con Natalino.

    I due ragazzi, pressoché coetanei, erano legati da una solida amicizia e accomunati da un’irrisolvibile timidezza. In uno di quegli incontri Tullio informò l’amico della nuova campagna di reclutamento delle formazioni partigiane. Una chiamata alle armi a tutti i giovani rimasti. Anche a quelli che come loro, avevano più l’età e i pensieri rivolti a tirar di fionda ai passeri o pescare alborelle nel Cherasca che a imbracciare un fucile e combattere.

    Come altre volte in cui scendeva da quella strada, anche quel mattino Tullio fermò i suoi passi all’angolo del cortile. Appoggiatosi al lavatoio, arrotolò una sigaretta con le dita già scure e callose, salivò sulla cartina e infine l’accese, aspirando tra secchi colpi di tosse. Si ostinava a fumare lontano dagli sguardi famigliari per sfuggire le reprimende della madre, giustamente preoccupata per lo spreco di salute e di soldi, utili a far quadrare il risicato bilancio famigliare.

    «Cosa conti di fare, se proponessero anche a te di partire?» si sentì chiedere Natalino, eccitandosi all’inattesa notizia. Ma anche intimamente assorto a valutare la possibilità di dare una svolta all’immutevole trafila dei suoi giorni.

    «È da un pezzo che penso ai partigiani e alle loro battaglie. L’occasione di partire con loro, non può che attirarmi» rispose.

    Fumando, Tullio si atteggiava da uomo. Purtroppo la cosa gli riusciva in modo ancora infantile e con un effetto quasi comico. Volendo replicare all’amico, dovette espirare frettolosamente tanto che una nuvola di fumo avvolse i suoi occhi come una nebbia opprimente.

    «Io sono più che tentato! Anzi direi che la decisione è ormai presa» disse, sbattendo le palpebre, con buffa indifferenza.

    «Dunque sei deciso a partire» considerò Natalino.

    «Certo. Pur sapendo che i miei mi metteranno i bastoni tra le ruote. Ci metto la mano sul fuoco!»

    «Chi potrebbe loro dar torto? Siamo le uniche braccia rimaste: in famiglia hanno bisogno di noi.»

    «Allora: correggimi se sbaglio» si infervorò Tullio nel suo ragionamento. «Fino a ieri ci hanno insegnato che la guerra è un affare da grandi. E fin qui siamo d’accordo. Ma dico io» continuò mentre gli si alterava la voce «se siamo abbastanza adulti per romperci la schiena nei campi o per star dietro alle bestie, perché non dovremmo esserlo anche per andare nella Resistenza?»

    Natalino attese un attimo prima di rispondere. Ogni volta che doveva affrontare temi di una certa consistenza, indugiava a soppesare le parole. Un po’ per l’innata timidezza che in diverse occasioni gli aveva comunque evitato magre figure, un po’ per l’ambizione di esprimersi in frasi non banali e per l’intima soddisfazione che gli dava una conversazione piacevole e intelligente.

    Lui che fin da piccolo, appassionato com’era di animali e di natura, sognava di diventare un bravo veterinario! Di frequentare il ginnasio di Alba e in seguito alternare gli studi a qualche lavoro saltuario, pur di potersi mantenere a quel corso cui aspirava nell’Università di Torino.

    Ecco, riuscire a dare a sua madre la soddisfazione di un figlio laureato era stato per lungo tempo un nascosto progetto di Natalino. Un obiettivo ambizioso che purtroppo, col precipitare degli eventi, aveva finito per dimostrarsi una cocente utopia.

    Infatti, solamente il ritorno dei fratelli dal fronte, gli avrebbe permesso di applicarsi a libri e quaderni a tempo pieno. E i fratelli - si chiedeva Natalino - nell’incertezza stagnante di un esito definitivo del conflitto, chissà se e quando sarebbero tornati.

    Quanto dispiaceva al giovane contadino non poter proseguire gli studi! Con il tempo, tuttavia, se n’era fatta una ragione, sublimando la propria ambizione in un sogno. A quei tempi, del resto, non esisteva casa i cui cassetti non traboccassero della moltitudine di sogni che, nello scorrere del tempo, tanti giovani come Natalino vi avevano depositato.

    «Credo sia giunto per noi il momento delle scelte» rispose infine a Tullio. Non possiamo più tirarci fuori.

    «Quello che dico anch’io: è ora di prendere le nostre decisioni!» rispose l’amico allargando le braccia.

    «I fascisti hanno rinchiuso e torturato mio padre» considerò mestamente Natalino. «A causa loro è costretto in un letto d’ospedale.»

    «E mio zio allora? Sembra ieri il giorno in cui l’hanno messo al muro, giù nel viale.»

    «Lo ricordo bene anch’io: ucciso a sangue freddo e abbandonato per strada come un cane.»

    «Come si può ignorare tutto questo?»

    «Per alcuni è possibile. Basta non esser dotati di quel minimo di dignità e di orgoglio per sentirsi vivi» osservò amaramente Natalino.

    «E di una minima dose di coraggio» convenne Tullio. «Qualcuno senza spina dorsale, vorrai dire!»

    «Il coraggio… certo. Di quello non dovremo aver difetto quando si tratterà di fare la nostra parte» osservò Natalino. «E sia amico mio» concordò infine. «Se la Resistenza ci vuole, noi siamo pronti.»

    Poi abbassò lo sguardo e rimase un attimo a guardarsi dentro poiché, per una volta, le parole gli erano uscite in fretta, senza che ne avesse piena convinzione.

    LA CHIAMATA

    Le parole scambiate con Tullio tornarono in mente a Natalino quella sera stessa. Mentre la madre sparecchiava, egli lottava con una pesante stanchezza che l’invitava a infilarsi sotto le coperte quando pochi ma decisi colpi risuonarono alla porta.

    «Chi è?» domandò, riscuotendosi dal torpore in cui era sprofondato.

    «Amici. Vorremmo parlarvi» rispose una voce sconosciuta e dal tono autorevole.

    «Non abbiate timore: ci sono anch’io, Tullio» aggiunse la voce rassicurante dell’amico. Natalino volse lo sguardo a sua madre, specchiandosi in un uguale espressione interrogante.

    Aperta la porta, madre e figlio scorsero dietro il sorriso amichevole di Tullio, le figure sconosciute di uomini abbigliati in modo semplice e informale.

    Partigiani. E sono qui per me! si disse Natalino, con un tremito nel cuore. I fucili in mano a due di loro e il piccolo mitragliatore di traverso alla spalla di colui che gli porgeva la destra, confermarono le sue supposizioni.

    «Sono gli amici di cui ti avevo accennato» si affrettò a chiarire Tullio, nelle vesti di improvvisato portavoce.

    Natalino e sua madre strinsero incuriositi la mano all’uomo che si stava presentando.

    «Siamo combattenti per la libertà. Mi chiamo Goffredo anche se tutti mi conoscono come Gomez. E questi sono Cesare e Ottavio.» L’uomo fece una pausa, pensando al discorso che intendeva fare.

    «Dunque il nostro comune amico vi ha già spiegato di noi» disse con un cenno di apprezzamento a Tullio per la spontanea ambasciata. Ma subito cambiò espressione, arretrò di un passo e dopo uno sguardo vigile alla strada si fece più confidenziale: «È pretendere troppo, se vi chiediamo di entrare? Pur se notte fonda preferiremmo evitare di dar nell’occhio.»

    «Ci mancherebbe. Venite, venite in casa al caldo!» si premurò Fiorenza. «Tullio è un gran bravo ragazzo: se siete suoi amici, sarete anche amici nostri» disse rivolgendosi benevolmente al giovane, il quale arrossì per l’imbarazzo.

    Raschiato, per buona creanza, gli stivali sulla lama murata alla parete, gli uomini entrarono nell’ampia cucina, rinfrancandosi nell’accogliente calore della grossa stufa in ghisa.

    «Credo abbiate intuito il motivo della nostra visita» accennò Gomez, appoggiando le mani allo schienale di una sedia.

    «Immagino si tratti di quel che abbiamo parlato io e Tullio, stamattina» intervenne Natalino.

    Fiorenza scrutò il figlio con aria interrogante, palesemente contrariata di essere all’oscuro delle sue informazioni.

    «Non me ne hai parlato. Di cosa si tratta?» gli chiese con un sorriso tirato.

    «Hai ragione mamma, scusami» tentò di giustificarsi lui, piegando la bocca a mezzaluna. «Contavo di parlartene stasera. Non l’ho fatto solo perché la stanchezza ha avuto il sopravvento.»

    Per l’importanza della faccenda e le conseguenze che potevano derivarne, la donna era comprensibilmente dispiaciuta della mancata confidenza del figlio. Del resto, fino a quel momento non erano mai esistiti segreti tra loro.

    Forse Natalino non ne aveva accennato perché l’argomento lo inquietava o non voleva procurare a lei un’ulteriore pena. Da questo, più di ogni altra cosa si sentiva turbata.

    «C’è ben poco da dire» intervenne l’uomo chiamato Gomez. «Noi, più altri quattro compagni a guardia della strada, facciamo parte della III Brigata Partigiana di stanza nella Langa di Lequio. Dalla piega che han preso gli eventi abbiamo buoni motivi di ritenere che la situazione volga presto a nostro favore.»

    «Sappiamo chi siete: un paio di nostri conoscenti sono patrioti come voi.»

    «Allora saprete anche qual’è la nostra missione. Al momento siamo in attesa delle truppe americane. Il loro arrivo non potrà che imprimere una svolta decisiva alla nostra lotta.»

    «Americani! Qui, da noi?» esclamò Tullio, con infantile entusiasmo.

    «Dalle informazioni in nostro possesso sembra stiano risalendo dal centro Italia» spiegò Gomez. «Non possiamo che confidare nel loro aiuto!» dichiarò sotto gli sguardi approvanti dei suoi uomini.

    «Il momento esige quindi tutte le forze disponibili» continuò. «Occorre dare un’ultima, decisiva spallata al fascio e alle forze di occupazione. Per questo ogni uomo sano e ben disposto sarà utile alla causa.»

    Fiorenza ascoltò il discorso del comandante con aria smarrita. Erano proprio quelle, fin dal momento in cui i partigiani erano entrati in casa, le parole che temeva di udire.

    «Dunque siete qui per questo, per prendere con voi il mio ragazzo!» osservò spaventata.

    «Noi non obblighiamo nessuno. La decisione sta alla coscienza e alla volontà di vostro figlio.»

    «È solo un ragazzo, non ha ancora diciotto anni!» obiettò la donna.

    «Vedo bene anch’io che è giovane, pur se già uomo fatto.»

    Fiorenza dimostrò tutta la sua contrarietà con le poche argomentazioni a sua disposizione. Conosceva da tempo le aspirazioni del figlio e le simpatie che aveva per il CLN. Ne trovava costante conferma dai discorsi serali con lui e dai commenti alle notizie che, insieme, ascoltavano alla radio.

    Un privilegio piuttosto raro, a quel tempo, godere di notizie fresche e di quella musica americana che chiamavano Jazz. Una musica osteggiata dal regime e, per questo, ancor più apprezzata da Natalino.

    Fiorenza aveva dunque scacciato dalla mente quella possibilità che fino al giorno prima le appariva remota. Ora però, non poteva più ignorare l’aspirazione coltivata da Natalino, di entrare nelle formazioni partigiane. Da buona madre, aveva cercato fino all’ultimo di osteggiare il suo progetto. Ma il momento a lungo temuto e che, come un’ombra fastidiosa velava ogni suo pensiero, si faceva ormai pressante.

    A malincuore intuiva che la sua era una battaglia già persa in partenza.

    «Mamma, lascia che il signore spieghi esattamente di cosa si tratta» intervenne Natalino.

    «Qui siamo tutti signori allo stesso modo» obiettò bonariamente il comandante. «Chiamami pure Gomez, come fanno tutti» confidò l’uomo con un’aria tra il divertito e il rassegnato. Quindi mosse qualche passo verso la stufa, facendo cenno a Fiorenza di seguirlo in disparte.

    «Non vedo motivo di preoccuparsi» le si rivolse a bassa voce, quando lei gli fu accanto. «Posso assicurarvi che i ragazzi saranno destinati a incarichi di retroguardia e senza grossi rischi.»

    «Voi la fate facile» fece Fiorenza, potendosi esprimere liberamente. «La verità è che siamo in guerra e il pericolo è ovunque, nascosto in ogni angolo, in ogni piega della nostra vita» affermò con la saggezza che distingue le donne di Langa. Un’osservazione intrisa di disillusione, causata dal protrarsi della guerra e dai suoi condizionamenti. Una situazione sfibrante, al limite dell’umana sopportazione.

    «Non nego l’evidenza. Nessuno del resto, può permettersi il lusso di ignorare la realtà: di questi tempi è già tanto riuscire a sopravvivere» si difese Gomez.

    «Dunque, capite le mie ragioni! Se questo mondo è incapace di trovare uno spiraglio di pace, tanto vale rinunciare a combattere, non vi pare?»

    «Non vi si può dar torto, donna. Ma è ugualmente innegabile che la situazione sia, al momento, piuttosto critica. Non possiamo permettere alla Germania di decidere il nostro destino. La libertà e la vita di tutti noi sono in pericolo.»

    Fiorenza rimaneva sulle sue posizioni. «Quindi non cambierebbe granché se mio figlio restasse a casa, con me.»

    Il comandante fece uno sforzo mentale, cercando parole più convincenti: «Vi chiedo soltanto di venirci incontro. Ci troviamo a fare di conto con una guerra atroce che, tuttavia, sembra avviarsi a una possibile soluzione. È nell’interesse di tutti che questo avvenga nel più breve tempo possibile. Per questo abbiamo bisogno di aiuto, per riuscire nell’unico scopo che perseguiamo da più di un anno a questa parte: cacciare gli invasori e ripristinare la libertà nel nostro paese. Del resto chi di noi in questo momento non vorrebbe una vita diversa? Avere accanto la famiglia o esprimere il proprio pensiero liberamente?»

    «Avete tutte le ragioni del mondo, ma cercate di capire: è di mio figlio che stiamo parlando» implorò Fiorenza a mani giunte.

    «Lo so e vi comprendo. Ma intuisco anche che siete una donna intelligente e determinata. Perché non lasciate al vostro ragazzo la sua, legittima, scelta?»

    «Perché… credo già di conoscerla» ammise lei sgomenta, scrollando la testa. «E ne ho paura.»

    «Abbiate fiducia, vedrete che andrà tutto per il meglio. A ogni buon conto vi lasciamo una notte per pensarci. Domattina, di partenza per la Langa, passeremo da queste parti per sapere la vostra decisione.»

    Fiorenza si passò una mano sulla fronte: «Come posso fidarmi… chi mi assicura che non accadrà nulla al mio Natalino?»

    «Ascoltatemi. Se può tranquillizzarvi, prometto che veglierò personalmente su di lui. Avete la mia parola.»

    Una disponibilità che a Fiorenza non sembrò sufficiente per convincersi pienamente. Senza rispondere, dimostrò il suo apprezzamento a Gomez, con un debole cenno del capo.

    Dall’espressione ferma e pensosa che si dipinse sul volto della donna, il comandante si rese conto che ogni altra parola avrebbe avuto scarsa utilità nell’opera di convincimento. Radunò i suoi uomini e dopo essersi accomiatato da Natalino e dalla madre, si avviò per la discesa oltre il cortile, lasciandosi inghiottire dal buio della notte.

    LA NOTTE DELLA DECISIONE

    Per il vizio assurdo che Natalino aveva, di analizzare e setacciare il suo vissuto - rimettendoci per questo in serenità - da un po’ di tempo sembrava che ogni giorno depositasse, in lui, un residuo di impotenza e di amarezza.

    Un residuo comunque difficile da rimuovere, specie nei silenzi e nei vuoti di quelle sere venate di malinconia. Ancor più insopportabile nella sensazione di sentirsi messo a parte dallo scorrere impetuoso della vita: uno strappo irreparabile alla sacca delle emozioni che lui avvertiva sempre più acutamente. Era alla ricerca del suo posto nel mondo e doveva assolutamente trovarlo.

    Per questo avvertiva pressante, nel suo animo inquieto, l’urgenza di essere partecipe alla lotta di liberazione. Di entrare finalmente in quelle brigate cui sentiva istintivamente di appartenere e per le quali nutriva grande ammirazione. Aiutato in questo dal fatto di conoscere buona parte di coloro che in quelle fila erano già entrati, in quanto amici di famiglia o vicini di casa.

    Nei suoi ragionamenti, arrivava all’invariabile conclusione di non poter più permettere alla vita di trascorrergli davanti con quel carico di avvenimenti che, pur nella carenza di informazioni, intuiva enorme e irripetibile. C’era un mondo, oltre gli abituali confini quotidiani, fatto di uomini, donne e giovani come lui, impegnati a vivere, lottare e forse anche morire per un irrinunciabile ideale di libertà e di giustizia.

    Rigirandosi, nervosamente, tra le lenzuola, Natalino comprese di non poter continuare nell’immobilità del suo piccolo mondo, come uno spettatore alla giostra dei cavalli il giorno della festa. Mentre gli altri vivevano, partecipavano, rischiavano, si faceva inaccettabile per lui, restare ancora lì, sulla piazza del paese, a osservare curioso e allo stesso tempo impotente.

    Concluse, sebbene preda di un’inquietudine che non l’avrebbe più abbandonato, di agire senza ulteriori e stancanti esitazioni, cogliendo al volo l’opportunità di essere utile al paese.

    Consapevole tuttavia di non potersi nascondere l’eventualità - connessa a doppio filo a quella scelta - del possibile agguato della morte. Nell’affollato bagaglio di opzioni più o meno trascurabili che l’esperienza partigiana comportava, quel rischio andava comunque tenuto in conto.

    TORMENTATO RISVEGLIO

    Una luce vivida, inconsueta per l’ora in cui Natalino era solito alzarsi, filtrava dalle imposte dietro i vetri appannati della piccola stanza. Era stata, per lui, una notte particolare, in cui aveva dormito poco e male. L’ansia della sera prima non si era diluita che in continui dormiveglia e una residua stanchezza insisteva in tutto il suo essere. Esausto di rigirarsi inutilmente tra le coperte, il giovane si sedette sul letto con le gambe a penzoloni. Per la penombra, non riusciva a capire la posizione delle lancette nella vecchia sveglia di latta che, imperterrita, ticchettava sul comodino. Mosse allora ad afferrare la maniglia della finestra, ruotò il chiavistello e spinse sulle persiane che, cigolando, si spalancarono pigramente.

    L’imprevisto spettacolo che si dischiuse ai suoi occhi, ebbe la capacità di sorprenderlo in un misto di stupore e disapprovazione. Il cortile, la strada, le colline intorno: tutto era sommerso da una coltre bianca e uniforme. Ogni cosa aveva assunto una forma irreale, eppure elegante, sotto la prima neve di quell’anno. E quanta ne era caduta! Sembrava che il cielo avesse voluto disfarsi di quel gelido fardello in una notte sola. Per nulla offesa, anzi grata del prezioso regalo, la terra si era adornata della candida veste come in una grande occasione.

    Nonostante la bassa temperatura invitasse a vestirsi in fretta, Natalino si attardò alla finestra, godendosi l’impagabile silenzio di quel momento e lasciando che i fiocchi immacolati gli bagnassero la fronte.

    Ogni nevicata era, per lui, una festa, un avvenimento speciale, un invito irrinunciabile.

    Fin da bambino, ogni volta che assisteva a quello spettacolo del cielo, ne rimaneva invariabilmente sorpreso ed estasiato. Quell’incanto fatto di forme fantastiche, di candore e silenzio, continuava a incuriosirlo. Al punto da chiedersi perché l’acqua cadesse in fattezze cosi strane, quasi magiche. Come potesse arrivare sulla terra con quel fare quieto e in forme bizzarre di cristalli cotonati. Non potrebbe semplicemente piovere? si domandava ogni volta, un po’ per scherzo e un po’ seriamente.

    Certo, la neve ha una precisa ragione d’esistere - si spiegava più razionalmente - anzi più d’una: è necessaria alla campagna, protegge il grano dal gelo ed è un’indispensabile riserva d’acqua per la vita di uomini e di animali.

    Riflettendo tuttavia, queste apparivano a Natalino motivazioni puramente pratiche, viste da un’angolazione parziale. Più si soffermava a guardare la neve, a sentirne il profumo, a stringerla nelle mani o scioglierla in bocca e più avvertiva che qualcosa gli sfuggiva. Come se la neve portasse in sé un messaggio spirituale, un’essenza nascosta e autentica, capace di superare la sostanza pratica e la sua stessa ragione d’esistere.

    Questa neve però non ci voleva rifletteva Natalino, richiamato dagli impegni che l’attendevano. Finirà per ostacolare il cammino dei partigiani per la Langa. E anche il mio. Speriamo che almeno per oggi basti! Volse gli occhi al cielo scrollando il capo, affranto: Mi sa che, da come è scuro, non smetterà tanto presto! concluse, decidendo di affrontare il problema al momento opportuno.

    Sconsolato, il giovane richiuse la finestra e si vestì in tutta fretta. Dal basso giungevano i rumori famigliari della cucina. La madre per una volta l’aveva preceduto, accendendo la vecchia stufa al pianterreno che già spandeva nell’ambiente un invitante tepore. Fiorenza spinse nelle fauci fiammeggianti un ciocco stagionato, quindi riposizionò i cerchi di ghisa, posandovi sopra una pentola colma di latte.

    «Di là ti ho preparato lo zaino con qualcosa da mangiare e la biancheria di ricambio. Vedi se basta o se manca qualcosa» disse la donna, udendo il figlio entrare in cucina.

    Natalino provò un senso di fastidio per quel discorso. Non nascondeva che in quel momento avrebbe preferito essere già in cammino sulle colline e non procurare ulteriore pena a sua madre. Per questo fu sua gradita sorpresa trovare in fondo al corridoio, il necessario per la partenza.

    «Grazie mamma! Oggi sei stata più mattiniera di me!» esclamò, con un buonumore che tradiva eccitazione. Uno stato d’animo che, con rammarico, avvertì fuori luogo per la muta risposta di sua madre.

    «Avevi già intuito la mia decisione, vero?» chiese allora in tono più confidenziale.

    «Ti ho messo al mondo e ormai ti conosco più di me stessa.»

    Il timbro di voce della donna tradì un pianto sommesso: «Come avrei potuto ignorare la tua inquietudine?»

    «Ma tu piangi mamma!» si rattristò Natalino, prendendo amorevolmente la madre per le spalle.

    La donna si asciugò le guance col grembiule da cucina - sua divisa quotidiana - ricambiando l’abbraccio del figlio in un silenzio carico di emozioni.

    «Non fare così mamma, ti prego, è già abbastanza difficile per me!» le sussurrò poi Natalino. «In fondo sono ancora qui. Nulla è già deciso che non si possa rimandare. Vederti soffrire è l’ultima cosa che voglio.»

    «No, è giusto che tu vada, se è questo che vuoi» disse Fiorenza, cercando lo sguardo del figlio.

    Natalino scosse la testa, dubbioso: «È meglio ch’io rinunci: con la casa come farai?»

    «Questo è l’ultimo dei problemi. In qualche modo mi aggiusterò, dovrò pur imparare a cavarmela da sola. E poi… spero tu stia lontano non più di qualche mese.»

    «Mi sento in colpa… hai dovuto passarne così tante mamma! Non voglio aggiungere altra ansia a quella che già provi per papà e per Pompeo e Celestino.

    «Tuo padre si è ammalato per il troppo lavoro e per quel che ha provato in prigione. Confidiamo che il buon Dio metta del suo e ce lo restituisca presto sano e disposto. Quanto ai tuoi fratelli, sono certa che prima o poi anche loro faranno ritorno. Non dobbiamo smettere di crederci. E pregare, non ci rimane che questo.»

    Fiorenza riconobbe di non avere risorse sufficienti,

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