Dal lato sbagliato della mezzanotte
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Questa è una storia sull’amore, sulla morte e su quella forza indomabile che è l’amicizia.
Questa è una storia di amori malati, di amicizia, di sorellanza. Di donne violate, sfruttate e abusate da uomini da poco. Racconta la forza dell’amore e l’implacabilità della morte. Un racconto difficile e doloroso che parla della realtà di tutti i giorni, spesso taciuta e tenuta nascoste. È una storia di lotta contro un male incurabile e di un uomo grande e degno di essere chiamato tale. Pagina dopo pagina il lettore si troverà davanti tutta la sofferenza che una donna possa sopportare nella propria vita, ma anche la capacità di trasformare una grande amicizia in amore fraterno.
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Anteprima del libro
Dal lato sbagliato della mezzanotte - Francesca Compagno
Carrisi
Incipit
Fradicia di sudore per la nottata appena trascorsa, mi svegliai alle prime luci dell’alba.
Non rammentavo tutti i sogni appena vissuti, ma avevo vivido in mente l’ultimo prima del risveglio.
Mi trovavo in una stanza buia, stavo toccando una parete di pietra fredda e umida, camminavo alla cieca in cerca di una via di uscita. Una luce fioca che filtrava attraverso una finestrella attirò la mia attenzione.
Allungando le braccia, mi aggrappai alla struttura di ferro e arrivai giusto all’altezza della fenditura.
Fu allora che notai le sbarre d’acciaio che scendevano dal soffitto e toccavano il suolo, formando una specie di gabbia.
Una prigione nel vero senso della parola.
Per un istante mi sembrò di vedere l’orsetto nella palla di vetro sulla scrivania del nonno.
Notai il suo volto, il mascara nero le era colato lungo le guance e il rossetto era sbavato.
Aveva pianto.
Le braccia erano piene di lividi, soprattutto intorno ai polsi, segnati da quelle che dovevano essere corde o catene.
O forse manette.
In un angolo, un secchio raccoglieva la pioggia che gocciolava dal soffitto con ritmica insistenza. Come il battito di un cuore.
Cercai di riprendermi da quello stato di trance, dal torpore delle prime luci del mattino.
Dovevo liberarla, dovevo aprire quella gabbia.
L’unico modo era raccontare la nostra storia, narrare del percorso che ci ha legate, di tutto quello che abbiamo perso e di tutti coloro che non sono più in questo mondo.
Prima di intraprendere il viaggio di liberazione, non importa da quale prigione, dobbiamo rammentare che viviamo in eterno in quella parte di noi che abbiamo donato agli altri.
1.
Un giorno del 1997, in un istante mi accorsi che la vita scorreva inesorabile, e che dietro di me restava ben poco di ciò che credevo di essere stata fino ad allora.
Tutto cambiò quando mio nonno Antonio venne colpito da infarto.
Erano le tredici e quaranta; io e mia sorella rientravamo da una lunga giornata scolastica, eravamo sul 4b, autobus di linea sempre in ritardo, che riaccompagnava noi e altri sessanta ragazzi alle proprie abitazioni.
L’odore di chiuso, il caldo, l’affollamento e l’afrore di chi aveva avuto lezione di educazione fisica rendevano il tragitto un incubo interminabile.
Se poi si trattava dei primi giorni di scuola, poteva capitare che qualche studentessa del primo anno fosse presa di mira da gruppi di ragazzi più grandi. Come accadde a me, quando dei ragazzi della mia scuola mi spalmarono pasta di acciughe e maionese nei capelli. Quella sì che fu una corsa eccitante: mi fissavano tutti come fossi un’appestata.
Appena varcammo la soglia di casa, Ruud, il nostro boxer, ci venne incontro scodinzolando e con il guinzaglio in bocca, impaziente di uscire per la passeggiata.
Presi il guinzaglio diretta al portone, mentre lui saltava a destra a e a sinistra con la lingua penzoloni, ma in quel momento il telefono squillò. Dall’altro capo, mio padre ci comunicò l’improvviso ricovero in ospedale del nonno.
Era in terapia intensiva e il quadro clinico non era entusiasmante; a preoccupare i medici non era solo l’infarto, ma anche un grosso enfisema che rendeva il polmone destro attivo al cinquanta per cento.
Colpevole il fumo, vizio che lo accompagnava dall’età di quindici anni. Dopo la prematura scomparsa dell’amata moglie Rita, fumava almeno due pacchetti al giorno di Merit, a cui toglieva il filtro.
Chi aveva vissuto la storia tra i miei nonni, era consapevole della disperazione che provava e di come il fumo fosse diventato un calmante. Lo aiutava ad alleviare il dolore, a non pensare. Un po’ come la brezza estiva che ci colpisce quando il caldo soffocante ci fa sudare: dà beneficio ma non asciuga le goccioline sull’epidermide, che resta bagnata e appiccicosa. Il dolore di una perdita è così: non ci abbandona mai.
Per lungo tempo il nonno rimase ricoverato in terapia intensiva. Ci permettevano di fargli visita uno alla volta, vestiti con camici che ci coprivano corpo, piedi e testa. Qualsiasi batterio portato dall’esterno in quella stanza, poteva significare la morte.
La prima volta che entrai nell’anticamera per vestirmi e lavarmi le mani, l’odore di disinfettante per pavimenti unito a quello dei medicinali mi colmò i polmoni, provocando conati di vomito.
Nella stessa stanza c’erano altri pazienti, cercai di non guardarli e mi diressi a passo deciso verso il suo capezzale. Lo osservai: aveva elettrodi attaccati al petto e alle braccia, collegati a un macchinario che scandiva in modo nitido il battito cardiaco e indicava la saturazione dell’ossigeno nel sangue, due flebo unite a un ago cannula portavano liquidi e nutrimento al suo corpo, perché non poteva ingerire cibi solidi.
Era dimagrito e provato, gli arti ricoperti di ecchimosi causate dagli aghi e dall’età. Ero certa che se fosse riuscito a mettersi in piedi sarebbe scappato a gambe levate da quel posto.
Dopo giorni di coma farmacologico, i medici decisero di liberarlo da quella prigione.
Il fisico reagì perfettamente, e anche la mente: quando tornai a trovarlo riuscì a togliersi la mascherina e cercò di chiedere una pizza.
Questo era mio nonno. Aveva una forza dentro capace di rassicurare e che tutti riuscivano a percepire.
Il giorno delle dimissioni, ridendo, disse: «Finalmente si va a casa. Non avrei sopportato di stare qui un attimo di più. Anche questa volta non mi hanno avuto, sono una pellaccia.»
Il sarcasmo faceva parte di lui ma vedere che la sua stanza da letto era stata attrezzata per ospitare un malato lo colpì duramente.
Alla destra del comodino era posizionata una bombola di ossigeno delle dimensioni di una botte di rovere. Lunghi tubicini erano collegati a una maschera per la respirazione appoggiata sul comodino.
Sulla parte anteriore della bombola, un manometro indicava la quantità di ossigeno e la pressione all’interno, mentre sulla parte superiore un cappuccio permetteva di riempire delle piccole bombole portatili.
A seguito della richiesta di invalidità, presentata per avere la necessaria assistenza e la consegna dei macchinari per l’ossigenoterapia, la Motorizzazione gli comunicò la revoca della patente di guida.
Fu un duro colpo.
Prima dell’infarto aveva la sua routine: colazione al bar, acquisto del giornale La Nazione
, passeggiata in centro città e, per concludere, salto al cimitero per portare le rose del giardino alla nonna.
Dopo la sua scomparsa, spesso lo trovavamo seduto alla scrivania dello studio in atteggiamento pensieroso, a tirare lunghe boccate di fumo dalla sigaretta. Se cercavamo di parlare con lui ci scacciava con la mano. La cenere spesso gli finiva sui pantaloni e qualche sbuffo di fumo gli faceva lacrimare gli occhi.
Chiuso in quella stanza, cercava di allontanare i pensieri cupi. A sigaretta finita, però, era ancora al punto di partenza.
I primi giorni furono molto duri; passava gran parte del tempo in camera, al buio, depresso e stanco.
Era un’altra persona. Il colorito della pelle sembrava essersi spento insieme al suo spirito.
Era un corpo inerme mentre la sua anima viveva ancora.
Le precarie condizioni di salute aggravarono la depressione che l’attanagliava.
Cercammo di rendergli le cose più semplici dicendo che le circostanze non erano drammatiche come potevano sembrare.
«E dove dovrei andare?» Fu una domanda lecita, che mi fece gelare il sangue.
Avremmo voluto accompagnarlo nel centro di Prato, dove tutti lo conoscevano e dove aveva l’abitudine di recarsi con la nonna, ma lui declinò: passeggiare in quelle vie con me, una bombola di ossigeno a tracolla e i tubicini infilati nel naso, non era il sogno della sua vita.
Non si sentiva in grado di affrontare gli sguardi compassionevoli, i sorrisi di circostanza di chi avrebbe voluto informarsi sulla sua salute ma si tratteneva per non farlo sentire malato; vedere gli amici che provavano affetto per lui e al tempo stesso lo compativano; sentire i pettegolezzi che sarebbero rimbalzati da un negozio all’altro.
Povero Antonio, un uomo così distinto e forte…
Avrei dovuto spronarlo a fregarsene, ad andare avanti a testa alta, ma al posto suo mi sarei sentita allo stesso modo: posso affrontare qualsiasi situazione ma non sopporto di essere compatita.
Le cose si aggravarono perché il nonno rifiutava ogni tipo di attività motoria.
La necessità dell’ossigenoterapia divenne sempre maggiore.
Finalmente smise di fumare, dietro minaccia dei medici e della famiglia: sarebbe stato inutile ricevere ossigeno e intossicarsi con la nicotina, ma, non essendo stimolato, il polmone continuava a collassare ogni giorno di più.
Divenne necessaria la presenza costante di una persona di fiducia.
Considerata la situazione, mio padre e mia zia cercarono qualcuno che potesse seguirlo durante il giorno.
Così iniziò la selezione in stile Grande Fratello
.
Ero sicura che non avrebbe accettato un estraneo, per di più donna, in casa, ma dovevamo fargli ammettere la sua nuova condizione: l’uomo indipendente, l’amatissimo ed elegante ex direttore di banca, si trovava allettato e collegato a una bombola di ossigeno.
Bisognò rigirare la questione, facendogli credere che fossimo noi ad avere bisogno di aiuto nel seguirlo, per sicurezza.
Fece finta di crederci; conoscendolo, era troppo in gamba per caderci con tutte le scarpe. E il risolino che aveva sulla faccia diceva tutto.
Non so come spiegarlo: il suo sorriso non era lineare, le labbra si alzavano più da un lato, rendendolo obliquo; da giovane aveva sicuramente conquistato molte ragazze con quel ghigno malizioso.
2.
I colloqui furono più complicati del previsto. Alcune delle candidate rilasciarono delle risposte degne di nota, ma la più eclatante fu la prima.
«Abbiamo necessità