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iL PEGGIOR NEMICO
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E-book200 pagine3 ore

iL PEGGIOR NEMICO

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Info su questo ebook

"Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo": così Tolstoj incominciò “Anna Karenina”. Ma qual è il percorso lungo il quale una famiglia può compromettere la sua felicità? E a quale prezzo?  L’abbandono del padre, la differenza d'età con i due fratelli, han portato Francesco  a rinunciare ai suoi sogni artistici per essere l'aiutante di sua madre Lena nella trattoria che è il sostentamento della famiglia, a essere quasi il padre di Laura e di Giulio, disposto a sacrificare tutta la vita all'affetto per gli altri: una prigione per i debiti d'amore che una famiglia obbliga a contrarre e mai arrivano al saldo.
LinguaItaliano
Data di uscita18 ott 2022
ISBN9791222013893
iL PEGGIOR NEMICO

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    Anteprima del libro

    iL PEGGIOR NEMICO - Franco Mimmi

    Libri d’autore – I libri di Franco Mimmi

    Franco Mimmi

    Il peggior nemico

    A Margaux

    Restoration of mutual confidence

    between Mr. and Mrs. Micawber

    Emma! said Mr. Micawber, The cloud is past from my mind. Mutual confidence, so long preserved between us once, is restored, to know no further interruption. Now, welcome poverty! cried Mr. Micawber, shedding tears. Welcome misery, welcome houselesness, welcome hunger, rags, tempest, and beggary! Mutual confidence will sustain us to the end!

    (Charles Dickens, David Copperfield)

    I

    In un giorno piovoso di marzo, strascico di un inverno che non si decideva a finire, due fratelli e una sorella, la parentela scritta in faccia anche se uno dei due uomini appariva decisamente più anziano dei suoi parenti, entrarono nel bar di fronte all'ospedale. Scalpicciando un po' tra la segatura sparsa sul pavimento, scoprirono la saletta in fondo al locale e presero posto a un tavolino. L'uomo più anziano sedette in modo da avere di faccia il bancone, ne considerò con approvazione la pulizia, percorse con uno sguardo i ripiani alle spalle del barista, riconobbe una bottiglia di cui si annotò mentalmente il nome.

    Era nato all’inizio della guerra. Ora, avviato a una cinquantina ben portata, aveva un'espressione tranquilla, quasi rassegnata. La donna e l'uomo più giovani erano invece irrequieti, corrucciati, e non fecero caso al locale, limitandosi a lanciare un'ordinazione distratta al cameriere. Le loro dita tamburellavano sulla tovaglia a quadretti bianchi e rossi che quattro sbarrette di metallo fermavano al ripiano del tavolino, le loro gambe cambiavano continuamente accavallatura. Entrambi avevano acceso una sigaretta, obbligando l'uomo più anziano a dissipare di tanto in tanto, con la mano, le volute di fumo che lo disturbavano.

    I vestiti dei tre denunciavano l'agiatezza, con una punta di civetteria chiassosa nella cravatta dell'uomo più giovane, con una luce eccentrica nei monili della donna, con una sobrietà al limite della noia nell'uomo più anziano. L'impressione di rinuncia che tutto il suo essere ispirava era così viva che certo egli stesso ne era conscio, forse rassegnato, forse in qualche modo persino soddisfatto. Pazientemente osservava l'impazienza dei fratelli, sorrideva un po' delle loro mani irrequiete, poi si stancò del gioco, guardò la pioggia che batteva sbieca contro il vetro della porta. Uno dei miei pensieri ricorrenti, pensò, è di vedere, guardando fuori dal finestrino di un aeroplano, un uomo con un mantello rosso che si allontana camminando sulle nuvole bianche. Forse quell'uomo sono io che mi allontano serenamente, sul sentiero soffice, dalla terragna realtà di me stesso. È la spiegazione più semplice e spero che sia quella giusta, perché spesso mi sono indotto, per vizio o per pigrizia, a sbagliare, ma non ho mai accettato di ingannarmi.

    L'uomo più giovane e la donna, invece, avevano la mente rivolta a tutt'altri pensieri, e non tardarono a manifestarli. Fu lui a parlare per primo, dopo avere acceso un'altra sigaretta: Chi se lo prende, adesso? chiese. Che cosa ne facciamo?

    Sembrava che parlasse di un pacco, di un mobile, di un regalo non desiderato che non ha alcuna possibile utilità e sottrae spazio in una casa già stretta. Il fratello glielo disse: Sembra che tu parli di un pacco, disse.

    L'uomo giovane si strinse nelle spalle, contro lo schienale della sedia di plastica, ma la sorella venne in suo aiuto: È così, disse, un pacco. Nella nostra vita non è mai stato altro: prima un pacco di ricordi neanche nostri, ricordi che tu e la mamma ci avete inflitto per anni, e adesso un pacco di fastidi.

    Così spalleggiato, l'uomo giovane si raddrizzò: È vero, disse, noi non lo abbiamo conosciuto, quasi. Lo avremo visto dieci volte sì e no, quando ancora non eravamo neppure in grado di parlare o di camminare, e adesso eccolo qua: una telefonata dall'ospedale e lui è lì, dopo più di trent'anni e con tanto di arresto cardiaco, e poi si riprende e bisogna portarselo via. Ma chi lo ha mai incontrato? Chi lo ha mai baciato o abbracciato? Ma neanche: chi gli ha mai parlato, vorrei sapere. Lo raccolgono, e lui, che si è dimenticato di noi per trentadue anni, ora si ricorda perfettamente i nostri nomi, conosce a memoria gli indirizzi, i numeri di telefono. Non è un fenomeno?

    Di nuovo si appoggiò allo schienale della sedia, prese a giocherellare con le dita con la cravatta sgargiante. Gli subentrò la sorella: Sì, caro Francesco, disse, questa è la verità: per noi non ha mai fatto niente, non è niente. Chi se lo prende, adesso?

    Francesco annuì. Chiamatemi Micawber, pensò, ricorrendo a un vecchio gioco in cui lui era il personaggio dickensiano sempre sulla soglia della prigione per debiti, che nel suo caso erano i debiti d’amore che una famiglia obbliga a contrarre e mai arrivano al saldo. A volte recitava qualche riga a Emma, che è Emma anche nel libro e che, a forza di ripetizioni, le aveva imparate e faceva entusiasticamente il coro – Una confidenza reciproca ci sosterrà fino alla fine -, ma anche quel gioco a due si era interrotto. 

    Ne siete certi? disse, e poi, a se stesso: E per me? Che cosa ha fatto, per me? Sorrise. Qualcosa aveva fatto. Lo ricordò mentre inseguiva la suora lungo il corridoio dell'ospedale dove lui, bambino, era ricoverato con la nefrite. La suora non gli ha dato la penicillina che suo padre ha comperato al mercato nero da un soldato americano, e suo padre l'ha scoperta. Ora la insegue come può, per via della gamba più corta, e non appena le giunge a tiro la colpisce col bastone. Le infermiere e qualche medico accorrono al rumore - non di voci: solo di passi di corsa e fiati concitati e il tonfo del bastone sulla lana bianca che copre la suora: lui la insegue senza gridare, stringendo i denti e sibilando nello sforzo di annullare quella carenza di qualche centimetro nella gamba destra; lei corre senza gridare cercando rifugi che si rivelano insufficienti, cercando di nascondere la colpa nel silenzio. Medici e infermiere accorrono e tacciono anch'essi, sospettano, sanno. Appena giungono a vedere la scena - dalle porte, dai corridoi - si arrestano e si accostano al muro con la schiena, seguono con gli occhi la corsa silenziosa e i terribili traguardi del bastone sul dorso della suora. È solo quando i due si fermano, stremati, in fondo al corridoio (avrebbero potuto voltare: lei avrebbe potuto voltare per avere un più largo spazio di fuga, ma non ha fatto che correre in avanti, come se tra loro vi fosse stato un patto per cui, giunti in fondo alla volata, non solo l'uomo non avrebbe approfittato dell'arresto di lei per percuoterla ancora, ma avrebbe accettato quel traguardo come fine anche della sua vendetta - e infatti la suora si accascia al suolo, sotto la finestra che apre il corridoio alla luce, e l'uomo la sovrasta col bastone sollevato e non lo abbassa, non la colpisce. Lei ansima, acquattata a terra, e lui continua a emettere quel sibilo di fatica tra i denti, finché le mascelle si disserrano e lui abbassa il bastone ma senza neppure sfiorarla, solo per riappoggiarlo a terra a compensare i centimetri che mancano alla gamba destra), allora le infermiere e i medici si staccano dalle pareti, riprendono vita respiro e colore e rientrano nelle porte dalle quali sono usciti, voltano nei corridoi dai quali sono sbucati. La suora è un mucchio di stracci bianchi sul pavimento in fondo al corridoio, il padre va verso di lui che è sceso dal letto, è uscito dalla camera e sta in ginocchio per terra, appoggiato allo stipite, perché la forza per stare in piedi non ce l'ha, gli allunga una mano e lui la prende e si tira su mentre l'uomo fa forza sul bastone che ormai li sostiene entrambi, gli passa un braccio attorno alla schiena e lo riporta a letto.

    Lui aveva sei anni, e dunque è strano che sia questo il primo ricordo che ha di suo padre, ma è così. Tutto il resto di prima - chissà se solo carezze o anche qualche schiaffo, se sorrisi o parole o silenzi - è tutto svanito, volato per sempre dalla finestra in fondo al corridoio, dove entrava la luce. Chiamatemi Micawber, pensò, e sorrise ai fratelli. Va bene, disse, voi non avete avuto un padre e io sì. E adesso è tornato.

    E tu te lo prendi, disse trionfalmente la sorella.

    No, disse Francesco, con un nuovo sorriso che doveva esasperare I fratelli e ci riusciva, non è così semplice. Se fosse un altro, allora sì, sarebbe semplice, ma lui non è un altro, e infatti, appena sono riusciti a rimettergli il cuore in condizioni di pompare, che cosa ha fatto, lui? Si è ricordato il mio nome cognome e indirizzo? No: tutti e tre. Se li è ricordati tutti e tre, compresi i numeri di telefono, e tutto a memoria. E questo vuol dire qualcosa.

    Vai al diavolo, Francesco, disse l'uomo giovane. Non vorrai farci credere che vorrebbe stare con noi, con me o con Laura, e che ha dato i nostri nomi per questo.

    No, disse Francesco, né con te né con Laura. Ma neanche con me. E infatti, ha dato anche il mio nome.

    E allora? chiese la donna con impazienza. Le dita della mano sinistra, sfolgoranti di anelli bizzarri, tormentavano quelle della destra, ne sbiancavano le nocche in una stretta nevrotica, quasi rabbiosa. Che vuol dire, allora?

    Vuol dire, disse Francesco, che non vuol stare con nessuno dei tre. Non è per questo, che ci ha chiamato. Non sa che farsene di noi, suoi figli: ha scelto di vivere senza di noi e lo ha sempre fatto, con coerenza e senza rimpianti. Non c'è motivo di credere che sia cambiato adesso.

    La donna consultò un orologino prezioso che pendeva da una catenella d'oro e finiva nel taschino della bella giacca grigia gessata, lo ripose e ripose nella borsetta le sigarette e l'accendino. Va bene, Francesco, disse. Dillo in fretta, così poi lo sapremo e ce ne potremo andare. Dicci cosa diavolo vuole e facciamola finita.

    Niente di particolare, disse Francesco. Forse ha pochi soldi, e si rende perfettamente conto che gliene serviranno, per restarsene da solo ma con l'assistenza di cui avrà bisogno. Molto sano non lo è stato mai, con la ferita alla gamba e tutto, e adesso anche un infarto. Gli ci vorrà una casa confortevole, o almeno una casa di cura confortevole, e un'infermiera, e tutto il resto.

    Certo! esclamò l'uomo giovane. Certo, tutto il resto. Per esempio...

    Per esempio, lo interruppe con calma Francesco, il capitale che ci ha lasciato andandosene, di cui abbiamo vissuto abbastanza largamente fin qui, voi in particolar modo.

    Noi! esclamò Laura. Perché tu, invece!

    Io, invece, disse Francesco, io e la mamma - anzi, la mamma e io - abbiamo lavorato con quel capitale, ci siamo nutriti, vi abbiamo nutrito, senza che voi abbiate mai dovuto spenderci un solo giorno della vostra vita. Ma il capitale era suo, di lui, e adesso ne ha bisogno. Non di tutto, perché tutto non lo ha mai preteso, ma qualcosa: quello che gli serve per continuare a vivere non in maniera stravagante come forse ha vissuto, non con il lusso che probabilmente non ha mai desiderato, semplicemente da solo, lontano dai suoi figli.

    Aveva preso il sottobicchiere di carta e vi stava tracciando sopra piccoli disegni, il profilo del fratello, una bottiglia rovesciata, l'anulare destro della sorella con la grossa pietra dalla montatura antica che lo adornava. Quando sul cerchio di carta non vi fu più posto allungò la mano per prendere quello di Laura, ma la donna vi premette sopra il bicchiere. Smettila! esclamò. Non ne posso più del tuo eterno disegnare.

    L'uomo non se la prese, fece rientrare la punta della penna a sfera e la infilò nella tasca interna della giacca. È un destino, disse, che non ci troviamo simpatici. Ci vogliamo bene, io credo, ma simpatici no, non ci troviamo. Io, poi, non vi ho mai potuto soffrire. Mise dei soldi sul tavolino e si alzò in piedi. Vi farò sapere, disse.

    Tu, disse la sorella, alzandosi anch'essa, ci farai il piacere di consultarci, prima di prendere una decisione.

    Vi farò sapere, ripeté Francesco, e guardò il fratello più giovane che non poté fare a meno di sorridergli. Si avviarono insieme, dopo avere osservato la sorella che infilava di prepotenza nel traffico la sua macchina sportiva. Francesco aprì l'ombrello, l'altro si riparava con un cappello a larghe falde, un po' teatrale. Non era vero che a Francesco non fosse simpatico, anzi, aveva sempre avuto un debole per lui. La nascita di quel bambino, che aveva colto tutti di sorpresa, per Francesco, allora tredicenne, era stato un avvenimento gioioso, qualcosa di straordinario, completamente diverso da quanto era accaduto appena un anno prima con la nascita di Laura. Questa era stata solo una sorella, un componente della famiglia giunto ad allinearsi sullo stesso piano di Francesco, che non ne era geloso ma la considerava un po' come un fastidio, un elemento di turbativa in quell'equilibrio ricreatosi da così poco tempo e certamente ancora instabile. Ma Giulio era nato quando Francesco aveva tredici anni: la sua voce era già scesa decisamente di tono, anche se ogni tanto rompeva ancora in un falsetto stridulo, e le guance si erano precocemente ricoperte di peli che lui radeva con una cura e una frequenza sproporzionate all'entità del fenomeno. Così, Giulio non gli era venuto come un fratello ma quasi come un figlio, e ancor più perché i1 suo arrivo, scardinando completamente l'assetto aleatorio del gruppo, era coinciso con la nuova partenza del padre. Francesco si era trovato, per la sua dozzina d'anni di differenza, ad affiancare la madre nel compito di allevare quei due bambini ricchi di salute ma un po' lamentosi, facili ai capricci. E la madre, non avendo il tempo per controllarli, ne aveva delegato il freno a Francesco.

    II

    Laura era stata una bambina silenziosa e tutto sommato onesta, anche se l'avidità che presto aveva incominciato a manifestare le aveva attirato più di un rimprovero dal fratello maggiore. Ma sembrava che quella tendenza ad accumulare, la ripetitività maniacale con cui cercava di trarre un vantaggio materiale da ogni suo atto, da ogni sua idea, fosse non solo più forte di qualsiasi rampogna ma anche più forte di lei. Cogliendola a ricontare il contenuto del suo salvadanaio, a scrivere ordinatamente su un quaderno i proventi dei piccoli commerci che aveva organizzato a scuola fin dalle prime classi elementari, Francesco non scorgeva negli occhi della bambina alcun piacere, ma una sorta di passione che aveva temuto destinata a riempirle e rovinarle la vita. I piccoli regali che piovono quotidianamente nelle tasche dei bimbi di condizione abbastanza agiata, i giocattolini di plastica delle scatole di detersivi, gli omaggi che i piazzisti lasciavano a sua madre purché si servisse dei loro prodotti, finivano su quella che Laura chiamava la sua bancarella, e per essi la bambina non esitava a chiedere ai coetanei prezzi esorbitanti, mentendo spudoratamente sul valore e sulla provenienza della merce che vantava sempre come straordinariamente esotica. Questo finiva per causare i richiami della maestra, le lamentele dei genitori dei compagni di scuola di Laura, ma Francesco conservava la stima che aveva per l'onestà della sorellina, poiché vedeva in quella esagerazione del valore degli oggetti, in quella frenesia descrittiva, una reale convinzione della piccola imbonitrice, la trasfigurazione da misero e banale a straordinario e opulento di ogni singolo giocattolo, delle

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