Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

En una esquina del suburbio: Il tango triste y solitario di Victor Tremamundo
En una esquina del suburbio: Il tango triste y solitario di Victor Tremamundo
En una esquina del suburbio: Il tango triste y solitario di Victor Tremamundo
E-book259 pagine2 ore

En una esquina del suburbio: Il tango triste y solitario di Victor Tremamundo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

- Europa o Sudamerica è lo stesso. L’amore è uguale a Buenos Aires e a Roma, così come qui a Higoumenitsa. L’amore muove.
LinguaItaliano
EditoreBookBaby
Data di uscita29 ago 2014
ISBN9781483537504
En una esquina del suburbio: Il tango triste y solitario di Victor Tremamundo

Correlato a En una esquina del suburbio

Ebook correlati

Narrativa di azione e avventura per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su En una esquina del suburbio

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    En una esquina del suburbio - Stefano Bozzo

    9781483537504

    1

    VICTOR

    (ovvero dell’amore)

    I

    - Si potrebbe credere amore visto dall’esterno…

    - Se non forse qualcosa di più…

    - Oppure qualcosa di meno…

    - Tutta questa storia mi ricorda la cugina di Iannis…

    - L’Americana? Maria, emigrata in Argentina? Sei troppo romantico, Ghiorgos, quella era una storia di coltelli.

    - Ma pensa al macellaio rimasto beffato…

    - Non ricordi però che si risolse con un drammatico duello al coltello…

    - Ma è Sudamerica, tango macellerie e coltelli…

    - Europa o Sudamerica è lo stesso. L’amore è uguale a Buenos Aires e a Roma, così come qui a Higoumenitsa. L’amore muove.

    La discussione sembrava non dover terminare mai, i portuali di Higoumenitsa, incantati dalla mia storia, avevano ognuno interrotto la propria attività. Chi aveva lasciato le casse da scaricare ora discuteva con chi aveva fermato i bussolotti, se fossi più infelice io, oppure un tal macellaio di Buenos Aires. Il venditore di estremi souvenir si scaldava, e, tra i bicchierini di Raki, pompava una vena in mezzo alla fronte. Intanto il mare era grigio, il porto era grigio e così il cielo il traghetto e il mio tir. E grigio ero pure io. Mancavano due ore alla partenza, il mio lavoro era finito, rientravo in Italia.

    - Ma la femmina, lei, l’ha più rivista?- Un bambino, Papastratos in bocca, me lo chiedeva. Mai avrei immaginato che la mia storia, casualmente raccontata a un venditore di pannocchie, avrebbe entusiasmato tutta la popolazione di Higoumenitsa. Mi accorsi di non riuscire più a trattenere la mia irritazione che, al pari della gioia, dell’emozione e dell’eccitamento, mi trasforma, fin da quando ero piccolo.

    Cioè, mi alzo sulle punte dei piedi, stringo i pugni delle braccia abbandonate lungo il corpo, come se mi appoggiassi a delle parallele per alzarmi, gli occhi mi tradiscono e mentre uno resta fermo, l’altro se ne va, altrove per i fatti suoi, balbetto se devo parlare e sudo, così che l’acqua del sudore, bagnando l’apparecchio acustico, lo fa fischiare e io non ci sento più. La mia magra figura, lunga e affusolata, mi rende indignato, indignato ed eroico, di un eroismo alla don Chisciotte, per cui spesso divento vittima di canzonature, che mi rendono ancor più furioso, e per così dire, quindi, ridicolo, e altro modo non ho di uscirne se non con un doppio salto mortale, o distribuendo manate a tutti con la generosità di un fra’ Cristoforo.

    L’aria dell’alba greca non è tragica, è rarefatta. Dopo essermi lasciato il talk-show alle spalle, che vivacissimo sul molo continuava, cercai di rimettermi in sesto ad un baracchino. La balbuzie non m’impedì di ordinare un Nescafé, mentre il fischio alle orecchie mi evitò di sentire le curiose domande della pettoruta e curiosa barista. Mi rifugiai, dunque, nella cabina del mio camion, con la radio a consolarmi, - … il tango de l’exilio de Gardel…-, cercando di capire come confezionano i greci quel meraviglioso intruglio che chiamano con greca fantasia, Nescafé.

    L’exilio de Gardel mi portò il sonno, così che presto giunse l’ora dell’imbarco.

    II

    Vista da vicino non era affatto male, tanto che cominciavano già a fischiarmi le orecchie.

    Certo era che non riuscivamo a capirci, o meglio ero io a non capire cosa ci facesse una donna, graziosa e raffinata, qui da me. Mi sembrava comunque poco cortese aggredirla ed inoltre era meglio non parlare, per non rivelare la balbuzie che, in virtù dell’eccitazione, era in agguato.

    Le feci segno di accomodarsi su un vecchio sofà, sistemato all’esterno della casa, di fronte alla rimessa dove io stavo pulendo il camion. Il nostro silenzio rimaneva tale perchè incantati, lasciami stare, lasciami qui/ non dire una parola/ che non sia/ d’amore…, dalle parole della canzone alla radio.

    - Non sta bene? - Ruppe così il silenzio o il ghiaccio lei, vedendomi irrigidire in una posa da vecchio ginnasta, tipo Alberto Braglia, «l’uomo torpedine», campione olimpico Atene 1906, Londra 1908, Stoccolma 1912, ma forse lei non conosceva, credo, le leggende dello sport italiano. Inorgoglitomi comunque, al pensiero del bidello di Modena, riuscii a ritornare in più rassicuranti pose e, complice un repentino scatto di savoir faire, posai la spugna nel secchio dell’acqua, ed ardito chiesi senza ba-balbettii:

    - Desidera qualcosa da bere? -

    - Grazie, si, un Marie Brizard…-

    La sua risposta mi colse all’improvviso, come una nube taglia la luna, o un rasoio un occhio, zac!, così. Interiore, emotiva, profonda, si scatenò la tempesta inaspettata, così insospettata che mi sorprese a guardia bassa.

    Sono triste sai perchè/ se tutto il mondo sambasse/ e tu ti curassi di me…

    Mi svegliò la radio con queste parole e la mia dolce ospite mi informò della crisi epilettica e dello svenimento che, - cosa le è accaduto? -, mi colse. Non stetti a spiegarle che la causa del mio malessere era stata l’emozione evocata dal nome Marie Brizard, era certo meglio evitare di rivangare e lei dovette capire in quanto più nulla mi chiese. Nulla bevemmo per cui, ma:

    - Cosa ci fa lei qui, a Mirafiori? -, - Vorrei invitarla a cena… -. Per tutta risposta.

    III

    « Solo tengo un tango per contar mi exilio/ lejo de mi vida sin tener un puerto/ ando a la deriva y me dan per muerto/ solo y perseguido en mi Buenos Aires…»

    L’orchestra argentina strappava lembi di pelle, la signorina Francesca succhiava gamberoni ed io facevo festa con un piatto di Weisswurst bavaresi.

    - L’hanno informata male… -, cercai timidamente di cavalcare la tigre dello scambio di persona: -…io sono un camionista, solo un camionista…-. Lei mi guardava, due occhi tenacemente increduli tra le chele dei gamberi. Che le dovevo dire? - Solo un camionista…- balbettai ripetendomi. Lei, con calma, si leccò le dita, le pulì sul tovagliolo, mi riempì il bicchiere d’Aragosta e mi infilò negli occhi i suoi occhi, come fossero chele. A quel punto io mi tradii, trangugiando in un fiato l’Aragosta.

    - Un camionista? Anche a Buenos Aires nell’ottantasette? -

    Non potei rispondere, la bocca mi si era riempita di wurstel.

    - Io so cosa lei faceva a Buenos Aires nel gennaio dell’ottantasette. L’ho saputo da loro, i nostri comuni amici.

    Io ho il difetto di essere un uomo impulsivo e non riesco a nascondere quello che penso, quindi quando mi presi la testa tra le mani e la scossi, lei capì di aver colto nel segno. Tant’è che mi accarezzò. L’orecchio sibilò come un serpente.

    - Ho semplicemente bisogno di lei. Le offro un lavoro, come fosse una spedizione col camion, solo molto più redditizia.

    - Cosa mi tocca fare? -

    - Domani mattina lo saprà, ora finisca i suoi wurstel. -

    Io non volevo, lo giuro, ma passammo la notte insieme. Io non volevo tornare a quel lavoro, a quello stile di vita. Io volevo fare il camionista, l’avevo promesso alla mia zingara. E’ un lavoro pericoloso e io voglio salvarmi per lei. Io non volevo, lo giuro, trovarmela nel letto. Io non volevo, ma non è stato male.

    IV

    La notte irreale di Amsterdam riserva sorprese. A parte maniaci che abitano canali e italiani senza denti che vendono trip, sembra di essere Pinocchio nel paese dei balocchi, e l’umanità è ricca e dotata e vedi, giuro che vedi alla fine, bambini con orecchie d’asino.

    «Aunque la daga hostil o esa otra daga,

    El tiempo, los perdieron en el fango,

    Hoy, mas allà del tiempo y de la aciaga

    Muerte, esos muertos viven el tango. »

    Fascia di merino nero intorno alla vita, pantaloni frangiati, fazzoletto di seta nero al collo, cinturone ornato di monete d’argento con fregi d’oro e coltellaccio, un cieco impugna con forza e grazia la sua daga, un bandonéon, in un canto e canta:

    «En la musica estan, en el cordaje

    De la terca guitarra trabajosa,

    Que trama en la milonga venturosa

    La fiesta y la inocencia del coraje.»

    Buenos Aires, Gennaio 1987. Io la aspettavo in Calle Alvear, sotto il lampione con l’orologio. Lo ricordo come se fosse qui, oggi, Amsterdam, Novembre 1995. Io ero appoggiato al lampione, dicevo, l’orologio segnava le quattro meno un quarto, era uno splendido pomeriggio, in cielo non esisteva nube, non così sulla terra, ora so. Ma inquieto lo ero, Marie la mia zingara, avrebbe dovuto essere qui sotto l’orologio già alle tre. Da tre quarti d’ora osservavo la casa di fronte a me. Una bella casa d’angolo, i tetti alla parigina, grandi finestroni, in mezzo una piccola cupola e in cima una torretta con campana. Confrontavo questo edificio fine secolo con quello subito adiacente, alla sua sinistra, sbucava come un grido, come una nota sbagliata di bandonéon, come una fitta improvvisa o un dolore che non ti aspetti ma che non ti stupisce. E Marie, così, non era lì.

    Vennero due uomini, scuri, nerovestiti, in evidente contrasto con la bella giornata e con quel clima.

    «Esa rafaga, el tango, esa diablura,

    Los atareados años desafia;

    Hecho de polvo y tiempo, el hombre dura

    Menos que la liviana melodia… »

    Lo ricordo il tanguéro alla mia destra, cantare questa stessa canzone, su una panchina sotto un albero, conduceva il bandonéon come ama una femmina affiatata, come una lama affilata. E mi guardava portare via.

    Fu l’ultimo ricordo di Buenos Aires.

    « Que solo es tiempo. El tango crea un turbio

    Pasado irreal que de algun modo es cierto,

    El recuerdo imposible de haber muerto

    Peleando, en una esquina del suburbio. »

    Lascio cadere due gulden nel cappello, - Bueno, Victor! -, e rimango sospeso.

    V

    Quello di cui ero sicuro era che non volevo e non potevo essere qui.

    Chiavare veramente. Real fucking. Stava scritto fuori, dentro non so, l’atmosfera fosca e l’odore di sudore, di belletti femminili e di umori maschili, mi facevano sudare freddo e presagire una colite. Il privé dove fui sistemato fu la mia ciambella di salvataggio. Mi tolsi l’apparecchio acustico per asciugarlo e attesi il cieco che, - ma come avrà fatto? -, mi riconobbe in strada. Non so se un incontro tra un cieco e un sordo in una fetida strip-house di Amsterdam può far struggere di romantiche malinconie ogni uomo, non so, ma questo fu l’effetto che mi fece.

    Fu una di quelle volte, questa attesa, in cui non avrei voluto essere al mio posto, in cui volentieri sarei evaso dall’alcatraz della mia pelle, del mio destino, però nello stesso tempo attendevo il cieco che mi chiamò per nome, con la stessa ansia di chi si trovò, a suo tempo, davanti all’oracolo di Delfi. Il cieco.

    Dopo aver ricevuto un paio di bastonate sulle gambe, mi resi conto che il mio cieco era arrivato e che dovevo mettermi l’apparecchio se volevo sentirlo.

    - Victor! Victor! -

    - Ci sono. -

    - Mi chiamo Anibal e ti conosco. -

    - Capisco, ma senza vista come ha fatto a riconoscermi? -

    - Il fischio. A Buenos Aires ero io il tuo angelo custode, ed allora ci vedevo bene e so che porti l’apparecchio acustico. Ho imparato anche che col sudore ti fischia e tu, Victor Tremamundo, sudi spesso. Non credo che al mondo possa esistere tanta gente che, per strada ad Amsterdam, in una fredda sera di novembre fischi dall’orecchio, se non Victor Tremamundo, agente speciale del…

    - Alt! Anibal, ora sono camionista, solo camionista. Ho fatto una spedizione, domani consegno il carico e parto. E’ tutto.

    - Ricordi Calle Alvear?

    - Ricordo tutto.

    - Ricordi Marie Brizard?

    Ecco sapevo, sapevo, temevo, speravo.

    - Voglia scusarmi.

    Scappai, bianco come un cencio, disperato, perle di sudore gelide ovunque cercando le toilette. Scavalcai grumi di corpi, puzzolenti di alcoolici e tabacco, di sudori di rossetti. Inciampai in indumenti, in industriali della Ruhr, in indiani buttafuori e alla fine allo stremo trovai il mio Eden.

    Tornai ed Anibal non c’era più. Al suo posto un biglietto: - Mi troverai dopo le 19, davanti alla Nieewe Kerk c’è un club privato Handelmaatschappz, per entrare dire tengo un tango.

    Il cieco che scrive.

    VI

    Eccomi qui, tengo un tango, olé. Sono toro o toreador? Stamattina al molo, puntuale Slobodan è arrivato, mi ha fatto scaricare le casse dal camion, anche se faccio finta di niente so cosa contenevano le casse, so e fingo di non saperlo. Avrei potuto partire, essere già via, alle spalle questo sporco traffico, quest’ultimo favore che faccio a quelli, ma ora no, tengo un tango e l’Handelmaatschappz si apre per me.

    Aspetto e bevo controvoglia l’Heineken che malvolentieri mi portano. Svogliato osservo lo spogliarello, l’esibizione sessuale è l’aperitivo non richiesto della mia fame d’amore, ché solo per amore sono qui, il cieco mi ha promesso, mi ha incitato, mi ha allettato, alludendo ammiccando, Marie Brizard, perchè sa così tante cose su di me?

    Scosciata la signorina, si, scosciata, ma da me cosa vuole? Perchè si è seduta qui al mio fianco, io aspetto Anibal, il cieco, un’ora che aspetto, Anibal!, chi è questa signorina, mi accarezza la signorina, signorina lasci stare, non vede che io aspetto il cieco, altre cose ho per la testa. Signorina! La prego, no!, l’apparecchio non me lo tolga, pietà! La lingua, quella piccola e calda e bagnata

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1