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Le lesioni dell'anima
Le lesioni dell'anima
Le lesioni dell'anima
E-book250 pagine3 ore

Le lesioni dell'anima

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Info su questo ebook

La bisnonna Gelsomina morì tre volte: inizia così il racconto di Mizio. Mizio che predice il futuro leggendo le carte napoletane, ma in realtà è un medium, parla coi defunti, percepisce la presenza degli spiriti guida, sebbene abbia paura dei suoi poteri medianici e finga di non saperli usare. Ada è sorda, porta imbarazzanti apparecchi acustici e legge il labiale. La sua menomazione la fa sentire goffa, insignificante. Solo Mizio riesce ad andare al di là delle apparenze e a leggere la sua anima. Incontrarsi li cambia: si avvicinano, si sostengono, si innamorano. Fino a perdersi e ritrovarsi: lui più maturo, lei madre intrappolata in un matrimonio infelice. Ma né il tempo né le gli ostacoli possono separare le loro anime ferite.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mag 2023
ISBN9788832783520
Le lesioni dell'anima

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    Anteprima del libro

    Le lesioni dell'anima - Maria Rosaria Bellezza

    logogufo

    Direzioni immaginarie

    Racconti, romanzi e storie per dipingere la vita.

    Homo Scrivens

    Direttore di collana: Aldo Putignano

    Supervisione: Anna Copertino

    Editing: Andrea Corona

    Autore: Maria Rosaria Bellezza

    Titolo: Le lesioni dell'anima

    ISBN 9788832783520

    I edizione Homo Scrivens, maggio 2021

    I edizione ebook, maggio 2023

    ©2023 Homo Scrivens s.r.l.

    via Santa Maria della Libera, 42

    80127 Napoli

    www.homoscrivens.it

    Riproduzione vietata ai sensi di legge

    (art. 171 della legge 22 aprile del 1941, n. 633)

    Maria Rosaria Bellezza

    Le lesioni dell'anima

    logofrontespizio

    Gesù ha detto:

    «Io vi sceglierò uno fra mille

    e due fra diecimila

    e questi si troveranno a essere un individuo solo».

    Vangelo di Tommaso 23.1

    PROLOGO

    GELSOMINA 1882 – 1966

    La bisnonna Gelsomina morì tre volte.

    La prima volta che le si fermò il cuore aveva ventinove anni. In una notte di luna nuova, dopo aver fatto all’amore col marito Amedeo, Gelsomina si girò verso di lui e con un rauco sussurro gli disse: «Aspettami».

    E perse i sensi.

    Amedeo mandò a chiamare la vecchia tata che viveva con loro e inutilmente tentarono di rianimare la donna, che sul letto si era fatta pesante come di piombo. Affranta, la tata si accinse a comporre pietosamente la salma ma Amedeo, folle di dolore e di rabbia, si caricò la moglie sulle spalle e, adagiatala in malo modo sul carretto di servizio, si lanciò in una corsa precipitosa nella Napoli deserta dei primi anni del vecchio secolo. Non ci era voluto molto per arrivare in ospedale, ma Gelsomina continuava a non respirare.

    Amedeo sedette in sala di aspetto, la testa fra le mani, completamente perso nei suoi pensieri.

    Aveva sposato quella donna strana, passionale e bizzarra contro il parere di tutti. Era stato quasi uno scandalo, Gelsomina aveva già ventiquattro anni quando l’aveva conosciuta e per gli standard dell’epoca era già etichettata come la zitella che nessuno aveva voluto. Bella, altera e dallo sguardo fiero, era nota per il suo carattere bizzoso e difficile. Non era stato facile per lui convivere con le sue stranezze, ascoltare i monologhi surreali e fuori del mondo che accompagnavano la donna come una nenia incessante.

    Quella donna, che al mattino sbrigava le faccende di casa come una qualunque massaia e la sera preparava decotti per le vicine che le venivano a confidare i problemi matrimoniali, leggeva le carte napoletane, indovinava il futuro col pendolo e raddrizzava le ossa dei bambini. Legava le armi biascicando parole incomprensibili, e quelle si inceppavano, così che i duelli cessassero ancor prima di cominciare.

    E spezzava le tempeste, potere che in un paese di mare e marinai la circondava di un’aura di ammirazione e riconoscenza, e di sospetto e diffidenza. Le mogli dei naviganti le recavano riconoscenti sporte di pane, frutta e prodotti dell’orto, ma, quando si allontanavano, si facevano il segno della croce e sputavano a terra.

    Amedeo lavorava come capotreno presso le Ferrovie dello Stato ed era rientrato a casa dopo un lungo turno di lavoro. Sfinito e logorato, non si aspettava di dover viver quella notte lunga e nera come la pece.

    Si teneva la testa tra le gambe e cercava di spegnere nel cervello l’eco degli zoccoli del cavallo con il quale aveva trascinato Gelsomina sino al nuovo ospedale napoletano, quello che il cardinale Ascalesi aveva inaugurato e che da lui aveva preso il nome, sebbene tutti lo chiamassero l’Ospedale del Mare. Si chiedeva, Amedeo, se avrebbe mai saputo rassegnarsi alla noiosa vita che lo aspettava senza la moglie. Sebbene fosse un fervente cristiano, solo pensieri terreni gli sfioravano la mente, non sprecò un sol momento a pregare per l’anima di Gelsomina.

    Gli venne da ridere, si coprì il viso con le mani perché nessuno se ne accorgesse. La sera prima Gelsomina gli era sopra, lo cavalcava impetuosamente, stavano per raggiungere insieme l’acme del piacere, quando di botto lei si era fermata. Amedeo non era riuscito a trattenersi e le era venuto dentro.

    «Ma che…?» stava per apostrofarla in malo modo, ma l’espressione cadde nel vuoto. Gelsomina aveva il volto trasfigurato, gli si accapponò la pelle, la moglie aveva gli occhi spiritati di una martire, non capiva se fosse perduta nel suo piacere o chissà dove. Si inquietò, fece per scostarla, voleva togliersela di dosso, ma il gesto ebbe l’effetto di svegliarla dalla trance in cui sembrava caduta.

    «È lì, è lì, la vedi?» gli disse concitata. Girò la testa per seguirne lo sguardo. Di fronte a Gelsomina c’era la solita acquasantiera che avevano a capoletto.

    «Cosa dovrei vedere?» affannò, sgomento per la conclusione del rapporto più intenso che avessero avuto sino a quel momento.

    Lei si chinò maliziosa verso di lui e gli sussurrò all’orecchio, lasciandogli un brivido a fior di pelle: «La mia anima. L’ho messa al sicuro, lontano da qui. Te lo ricorderai al momento giusto».

    E mentre divagava con la mente, tenendo a bada il dolore sordo e cupo che gli si era acquattato tra le ossa come un cancro subdolo, inaspettato dall’interno della stanza si sentì un tonfo e un’esclamazione di orrore.

    L’infermiera che era entrata a ritirare gli effetti personali della morta la trovò seduta in mezzo al letto, i lunghi capelli sciolti sul colletto ricamato della camicia da notte.

    Gelsomina guardò la donna con un sorriso beffardo e le si rivolse dicendo: «Amedeo mio, mi ha aspettato?»

    Nel quartiere si sparse la notizia della resurrezione e, come in una processione di devoti, i vicini andavano e tornavano dalla casa della miracolata per osservarla col timore reverenziale che si tributa a un’icona religiosa.

    Gelsomina fingeva di non far caso a quel trambusto intorno a lei, finché, acquietatosi l’eco della novità, poté tornare alle sue novene e ai riti con cui domava le forze dei venti e dei mari.

    La seconda volta che morì, a cinquantotto anni, Gelsomina era assorta alla finestra.

    La sua attenzione fu attirata da un lampo di luce che le attraversò l’iride. Ebbe appena il tempo di aggrapparsi allo schienale della sedia più vicina a lei prima di avvertire un bruciore al petto che le mozzò il respiro. Strinse lo schienale con le dita, così forte da far sbiancare le nocche. Le mancava l’aria.

    Accorse Giovanna, la sua figlia prediletta, quella che era stata concepita la notte della prima morte, giusto in tempo per impedirle di sbattere la testa contro lo stipite del tavolo accasciandosi al suolo.

    Gelsomina non respirava più. Amedeo la fece sdraiare sul letto e chiamò gli altri figli che le si disposero intorno.

    Tutti loro avevano sentito raccontare tante volte la storia della notte in cui Giovanna era stata concepita e della morte della mamma, ma attoniti e increduli si prepararono per le esequie. Lavarono e vestirono la mamma con cura, la pettinarono, a turno le presero la mano e la baciarono sulle guance per accomiatarsi. Chiamarono le onoranze funebri e iniziarono la veglia pregando per l’anima della defunta.

    Solo Amedeo e Giovanna restarono in disparte.

    Amedeo prese una sedia e la portò fuori al balcone. Dette le spalle alla stanza da letto e si mise intento a osservare il soffitto un po’ sbreccato del balcone sovrastante. Scrutò e scrutò finché scorse il ragno che Gelsomina non gli aveva fatto mai ammazzare o scacciare. L’aveva accusata di superstizione, di dar credito alle vecchie credenze popolari che volevano che il ragno portasse fortuna. «Quel ragno lì sono io» rispondeva la moglie paziente. «Come il ragno tesse la sua tela, io intreccio la trama e l’ordito della mia e della vostra vita».

    Amedeo guardò il ragno con aria di sfida. Apparentemente rivolto al nulla, i figli lo sentirono esclamare: «Io qua sto. Vai dove devi, e poi torna! Io qua sto» ripeté. «E aspetto».

    Giovanna, frattanto, si agitava per la stanza inquieta. Sentiva l’aria crepitare come le foglie secche, e al posto del dolore che avrebbe voluto provare avvertiva una strana vertigine.

    Lottava, Giovanna. Lottava contro una Signora che ogni tanto le appariva in chiaroscuro e che adesso era lì e scriveva nella sua mente pensieri che neanche sapeva di avere.

    Le apparivano dal nulla frasi come fossero delle immagini, che leggeva con la stessa semplicità distratta con cui talvolta si scorrono velocemente i titoli degli articoli di un giornale.

    Per distrarsi si sedette al tavolino e prese a fare un solitario con le napoletane che la mamma usava per leggere il futuro. Tre bastoni. La morte. Asso di denari rovesciato. Ritardo o rinvio della carta precedente. Rinvio della morte. Come in trance Giovanna continuava a girare le carte, e di ognuna, anziché numeri e semi, leggeva il significato. Spaventata, si alzò di scatto lasciando cadere le carte.

    Respirò a fondo e guardò dritta innanzi a sé, decisa ad affrontarla, qualunque cosa fosse. Davanti a lei si stagliava una fiamma bianca, che la fronteggiava in altezza. Aveva i contorni nitidi, come la fiammella sprigionata dal gas di un accendino. Al suo interno si delineava una figura femminile, le cui sembianze si indovinavano soltanto, non erano messe a fuoco. Nella mente di Giovanna balenò la parola: parlami. Scritta proprio così, come se la leggesse su un foglio bianco.

    «Chi sei?» domandò cauta Giovanna alla fiamma.

    Sono la tua guida, lesse nella mente.

    «Non capisco, cosa significa? Siete reale?» Giovanna istintivamente le si era rivolta con quel voi che a Napoli si usa per manifestare una rispettosa confidenzialità.

    Reale, sì, ma in un’altra vita. Sono reale anche ora, in un piano dell’esistenza diverso. Di nuovo le parole si manifestarono davanti ai suoi occhi, e provenivano dalla donna della fiamma.

    E poi accadde un fatto strano.

    Più la fiamma parlava, e più Giovanna metteva a fuoco la figura in tutti i suoi particolari, come se l’obiettivo di una macchina fotografica fosse stato finalmente girato nel modo giusto.

    Le si presentava a guisa di una classica matrona napoletana. I capelli erano tirati sulla nuca in uno stretto chignon formato da una treccia di capelli sapientemente arrotolata e tenuta ferma da numerose forcine. Gli occhi erano dolci, azzurri e acquosi di cataratta, il naso prominente ma aggraziato, le labbra sottili. Un volto ordinario, segnato di rughe; un volto che Giovanna tante volte aveva scorto distratta nelle donne che sedevano fuori i bassi degli stretti vicoli napoletani. Il corpo seguiva il cliché: tozzo, le curve del seno e dei fianchi celate da un cardigan dalla linea dritta che poggiava su una gonna, anch’essa dritta, che finiva sotto il ginocchio.

    Perché mi seguite, perché mi tormentate? Questo avrebbe voluto urlarle in faccia con tutte le sue forze, per buttar fuori l’angoscia che le provocava essere seguita ogni attimo della sua vita da quella figura tenebrosa che lei chiamava la Signora Oscura.

    Ma le mancò il coraggio, le sembrò una mancanza di rispetto. La affrontò a voce bassa, per non farsi sentire dai fratelli: «Cosa volete da me, Signora? Io non sono come mia madre, sono una donna semplice, umile. Perché mi cercate?»

    Non sono io che ti cerco.

    Il tono era pacato ma deciso. Appaio solo se vengo invocata.

    «Siete la Vergine, allora? Nelle mie preghiere invoco solo Lei», ribatté sdegnosa Giovanna.

    Non sono la Vergine, ma una Sua manifestazione. Invochi protezione e il mio compito è quello di dartene.

    «Potete andarvene, allora. Non ho alcun bisogno di voi». La paura la faceva reagire con modi scomposti, rabbiosi, con toni supponenti che non si addicevano alla sua indole mite e quieta.

    Le voltò le spalle, senza attendere la risposta e incrociò lo sguardo del padre che seduto sul divano la stava osservando assorto. Lui sapeva. Le tese la mano, invitandola a sedersi accanto a lui. Giovanna appoggiò il capo sulla spalla del padre e con un sospiro si arrese. Iniziò a biascicare le novene incomprensibili che la mamma sussurrava al vento e che d’improvviso sapeva di conoscere, finché all’alba la Signora Oscura, che ora poteva chiamare per nome, si accomiatò da lei accarezzandole una mano.

    Destatasi dal torpore della veglia si girò verso il letto e non ebbe moto alcuno di stupore nel vedere Gelsomina seduta al centro del letto matrimoniale come una regina.

    «Bentornata, mammà. Siete molto stanca?» le chiese.

    Gelsomina la guardò con infinito amore e mantenendosi lo stomaco con le mani le disse: «Stanca no. Ho tanta fame».

    L’ultima volta che Gelsomina morì fu il giorno del suo ottantasettesimo compleanno, quando Giovanna sognò i quattro assi in fila.

    Era passata dalla madre a farle gli auguri e si era trattenuta per un poco di compagnia. Sedevano vicine nel salotto buono, nel punto in cui al pomeriggio un raggio di sole pigramente accarezzava la poltrona in cui la donna era solita sedersi. Giovanna lavorava all’uncinetto e ogni tanto borbottava qualcosa alla Signora. L’unica volta che aveva ammesso di avere anche lei dei poteri era stato quando le aveva raccontato delle parole che si scriveva nella testa con la sua Signora. Era stata categorica con la madre: «Io di questa donna non mi riesco a liberare, le aveva detto una sera, mi sono abituata e le parlo come se parlassi a me stessa; ma a parte questo non voglio saperne niente di tarocchi, predizioni, malocchi e legamenti d’amore».

    Gelsomina le aveva messo una mano sul braccio per tranquillizzarla, nessuno era obbligato a essere ciò che non desiderava, e non avevano mai più toccato l’argomento, fino a quel giorno.

    «Mammà» si decise a un certo punto a dirle Giovanna «stanotte ho fatto un sogno strano. Ero al tavolo e facevo un solitario e le carte che giravo erano tutte sequenze di quattro assi. Poi veniva la nonna e mi diceva che aveva sbagliato porta, ma che poi sarebbe tornata».

    Gelsomina si girò a guardarla. Sospirò con gravità e lentamente, con grande sforzo, si sollevò in piedi. Recandosi nella stanza da letto, fece cenno alla figlia di seguirla.

    «Giovà, apri il primo cassetto del comò, c’è un panno rosso. Portamelo. E piglia pure la camicia da notte buona, sta sempre nel comò, ma nell’ultimo cassetto».

    «Ma, mammà, quella è la camicia da notte che vuie tenite astipata per quando… per quando…»

    «Per quando arriva il momento, e il momento è arrivato».

    «Come, è arrivato? Che dite? Non vi sentite bene? Devo mandare a chiamare il dottore Imperato?»

    «Giovanna, figlia mia, me lo hai detto tu. Hai detto che sono usciti i quattro assi messi in fila. I quattro assi sono la morte del consultante e stanotte io ero nel sogno tuo. Quei quattro assi sono la morte mia».

    «Mammà, sempre cu sti fatti, co ste carte. Tenete ottantasette anni, è vero, ma state fresca come una rosa».

    «Giovanna, tengo ottantasette anni, ho vissuto tre volte ventinove anni, l’ultimo ciclo si è compiuto. Accontentami ti prego. Non c’è tempo, e ti devo dire delle cose. Nel panno rosso c’è la fascia battesimale consacrata, quella che toglie il malocchio. Il metodo già lo conosci. Nel comodino mio ci stanno le carte napoletane. Piglia la cassetta sorrentina che sta sul comò e mettici tutto dentro: la fascia battesimale e le napoletane. Poi vedi, vicino alla fascia ci sta un taccuino, dentro ci ho scritto le novene e le preci. Quella che raddrizza le ossa, quella per legare le armi, quella che accompagna lo sputo dei polsi per guarire i dolori. C’è quella che spezza le trombe d’aria. Ci sta pure quella del lunedì in albis, che è potente assai e toglie il malocchio insieme alla fascia. A scuola non ci sono andata e scrivo male, ma chi deve avere il quaderno capirà».

    «Questa cassetta la conservi tu e quando sarà il momento la darai a tua figlia Teresa. Nemmeno lei la userà perché è figlia a te e tiene le stesse paure tue. Ma non importa. Poi capirà a chi la deve dare».

    Accontentala.

    L’ordine, imperioso, le giunse dalla Signora.

    «Sì, sì» borbottò Giovanna «lasciatemi in pace però».

    «Va bene, mammà. Come dite voi».

    «E ora mi metto a letto. Tu chiamami i fratelli tuoi. Falli venire. Io vi aspetto, ma non fate passare la notte, sbrigati, fai venire tutti».

    Giovanna in cuor suo sapeva che la madre non parlava a vanvera. Si preparò al saluto, sapeva che il pesante fardello dell’eredità della madre era toccato a lei. Non lo desiderava, non lo sentiva parte della sua natura. Era un grumo pesante che le impediva di avere slanci, che la ancoravano a una terra di nessuno della quale era prigioniera. Sentiva oscuramente che la chiave della sua liberazione era nascosta in quel grumo, ma aveva timore di prenderla.

    ADA E MIZIO, NOVEMBRE 2016

    Uno

    Ada De Santis dirigeva una delle più importanti gallerie d’arte di Napoli, la Galleria De Santis. La sua carriera era nata nel modo più impensato. Aveva una laurea in Lettere presa con facilità ma senza troppa convinzione. Era stato suo padre Augusto, appassionato di antiquariato e oggettistica, a trovarle lavoro come catalogatrice di reperti da Ettore, il proprietario di un negozio che vendeva cimeli d’arte antica e moderna a via Bisignano, nei pressi di piazza dei Martiri. Pensava di aver trovato la soluzione giusta per la figlia, affetta da semisordità.

    Il lavoro al negozio di Ettore aveva consentito alla ragazza un’interessante scoperta su sé stessa: riconosceva il talento degli altri. Andava a colpo sicuro, se le opere di un artista le piacevano sapeva istintivamente come descriverle, come porle in risalto e collocarle nella luce migliore. Convinse Ettore a esporre le opere di alcuni artisti sconosciuti con cui aveva stretto amicizia e quelle si vendettero senza sforzo. Quando, infine, Ettore decise di ritirarsi Ada aveva guadagnato il prestigio necessario per realizzare il sogno che non aveva mai saputo di avere: fondò la Galleria De Santis, di cui era unica titolare e direttrice artistica.

    Quella mattina, come del resto tutte le mattine, Ada attraversava piazza dei Martiri diretta al lavoro. Un molesto piccione, che d’improvviso le era comparso davanti ai piedi per volare poi via imbizzarrito, le aveva fatto alzare gli occhi e imbattere lo sguardo in un grande cartellone pubblicitario che copriva le impalcature dei lavori di restauro di un palazzo d’epoca. Una raffigurazione della Maddalena penitente attribuita al Caravaggio – chiaroscuro su sfondo rosso cardinale – le si

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