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Sangue di giuda
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Tre generazioni, quattro donne legate da legami famigliari, ma isolate una dall’altra, anche se vivono nella stessa casa. Segreti inconfessabili e rancori hanno creato muri che pare impossibile abbattere.
Forse sarà la fuga da casa della quattordicenne Mira che riuscirà a far crollare queste barriere. Forse, dopo tanti anni, sulle macerie di quei muri si potrà costruire un nuovo edificio.
“Sangue di Giuda, perché mi sono messa a pensare a tutto questo? Sangue di Giuda… E’ da lui che ho imparato a dire così. Mi diceva: Sangue di Giuda, non ho mai avuto una donna come te… Mi diceva: Celeste io con te impazzisco, sangue di Giuda.
E come non sono riuscita a liberarmi di nessuna cosa che mi porti a lui, anche questo modo di dire, mi è rimasto dentro”.
Forse sarà la fuga da casa della quattordicenne Mira che riuscirà a far crollare queste barriere. Forse, dopo tanti anni, sulle macerie di quei muri si potrà costruire un nuovo edificio.
“Sangue di Giuda, perché mi sono messa a pensare a tutto questo? Sangue di Giuda… E’ da lui che ho imparato a dire così. Mi diceva: Sangue di Giuda, non ho mai avuto una donna come te… Mi diceva: Celeste io con te impazzisco, sangue di Giuda.
E come non sono riuscita a liberarmi di nessuna cosa che mi porti a lui, anche questo modo di dire, mi è rimasto dentro”.
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Anteprima del libro
Sangue di giuda - Milvia Comastri
Milvia Comastri
Sangue
di giuda
Collana: Uplit
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.
commerciale@giraldieditore.it
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www.giraldieditore.it
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ISBN 978-88-6155-778-9
Proprietà letteraria riservata
© Giraldi Editore, 2019
Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo
Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.
A Teo e Dorian,
con amore grande
Si dice che ogni persona è un’isola e non è vero,
ogni persona è un silenzio, questo sì, un silenzio,
ciascuna con il proprio silenzio.
José Saramago
UNO
Assunta (8 agosto 2002)
L’acqua nel bicchiere è tiepida. Assunta, mentre beve davanti alla finestra aperta, pensa con irritazione che bisognerà comprare un nuovo frigorifero, e che toccherà a lei occuparsene. Vivono quattro donne in questa casa, ma è su di lei che le altre fanno affidamento per qualsiasi cosa. Da quando aveva solo undici anni. Prima sua madre, e poi la sorella. E poi, naturalmente, Mira.
La donna fissa il lontano orizzonte, e il suo sguardo sembra voler sfuggire all’appiattito paesaggio di vecchie case, campi incolti, fabbriche abbandonate da tempo, che le si stende davanti. Il cielo è una lavagna azzurra con lievi tracce di gesso. Sull’autostrada, oltre il greto rugoso del fiume in secca, le vetture corrono veloci: il primo casello dista cinquanta chilometri e nessuno rallenta, in quel tratto. I raggi del sole colpiscono le lamiere delle auto e creano un’alternanza di bagliori che infastidisce gli occhi.
Dalla casa del vicino arriva la voce di Battiato:
Ti solleverò dai dolori e
dai tuoi sbalzi d’umore
dalle ossessioni delle tue manie.
Perché sei un essere speciale
ed io avrò cura di te.
Le parole della canzone arrivano con struggente prepotenza fino a lei. Assunta avverte un dolore sordo, che dal cuore si irradia in tutto il corpo, e al cuore ritorna. Pensa, Assunta, che un essere speciale lo è stata solo per una persona, tanto, troppo tempo fa. E sono anni che nessuno si prende cura di lei.
Finisce di bere, si passa una mano sulle labbra. Appoggia il bicchiere sul davanzale, proprio vicino all’orlo, verso l’esterno. Con un gesto secco delle dita lo fa cadere nel vuoto. Il suono del vetro che si infrange su una fioriera si espande con un tintinnio nel giardino sottostante. Lei si sporge appena, guarda quei piccoli coriandoli lucenti. Non lo vede il sangue, oggi, intorno alla magnolia. Il terreno è grigio e screpolato per la sete di pioggia.
Battiato tace.
Assunta si raddrizza e gira la schiena al cielo.
La cucina è sonnolente e spenta nel tardo mattino di agosto.
A parte lei, in casa non c’è nessuno.
E a parte sua madre, naturalmente. Sono quarant’anni che Celeste non esce di casa.
DUE
Pensieri
Credo che siano tutte fuori. Forse c’è Assunta, se è rientrata dalla spesa. Mi avrà comprato le sigarette? Lo sa che ne devo sempre avere almeno tre pacchetti, ma sembra che lo faccia apposta, a dimenticarsene. Sua sorella mi è venuta a salutare, prima, mi ha schiacciato la guancia con un bacio, ha riempito la stanza con quel suo profumo forte che mi dà sullo stomaco. Ha detto: Mamma, forse forse forse mi danno la parte in un film. E mi ha fatto una piroetta ridicola davanti, manco avesse cinque anni. Devo andare a Roma, ha detto, non so se stasera torno. E se ne è andata ridendo, e ha sbattuto la porta, con la solita sbadataggine.
Con una mano mi sono tolta il suo bacio dalla faccia e ho ripreso a cercare il rocchetto di cotone rosso. Poi, senza far rumore, è entrata Mira. Si è fermata davanti alla mia poltrona, ha toccato il cestino. Mi ha preso la mano e me l’ha stretta.
Nonna, ha detto, io vado.
Sulla porta si è girata:
Nonna, ti voglio bene.
Con una voce piccola, l’ha detto, che quasi non la sentivo.
Ha chiuso piano la porta.
Qui tutti escono, se ne vanno chissà dove, a cercare chissà che. Non c’è niente, là fuori, se non il male.
Mia nipote, comunque, è l’unica in questa casa che non mi mandi i fumi alla testa. Peccato, sta crescendo. Diventerà anche lei come tutti, come tutti quelli là fuori, sangue di Giuda.
Devo cucire l’orlo di questi suoi pantaloni, ma non riesco a trovare il rosso giusto. E pensare che un tempo riuscivo a distinguere tutte le sfumature dei colori, anche le più delicate. Celeste, mi dicevano le clienti, vorrei un rocchetto di cotone azzurro. Cosa avrò avuto, dodici, tredici anni?, e mi sollevavo sulle punte dei piedi, e tiravo giù la scatola dallo scaffale, e gli aprivo sul bancone tutte quelle quantità di azzurri, e gli dicevo: Quale vuole?, e loro: Ma sono uguali, dicevano. E io: No, gli dicevo, non vede? E ne prendevo uno, e poi un altro e un altro e glieli ficcavo sotto gli occhi. Non vede, signora, non vede come sono diversi, dicevo.
E adesso quasi non riesco a vedere la differenza fra un rosso e un nero. Per la merceria non è un problema, quella è un pezzo che non c’è più, ma vorrei vederci più chiaro, così, per me. E vorrei ricordare i nomi che c’erano su quelle scatole, sulle etichette scritte a mano, i nomi dei colori: magenta, amaranto, oro veneziano, rosso corallo, e poi?... Solo tutti quei nomi vorrei ricordare.
E invece ricordo altre cose, ora, che mi fanno male qui, in mezzo alla gola. Le ho tenute nel petto per tanti di quegli anni che credevo si fossero seccate, lì, senza aria, ferme. Ma sono giorni che mi vengono su, come un pasto digerito male. E sono troppo stanca per mandarle indietro, troppo vecchia. E a vomitarle non ci riesco, sangue di Giuda.
Dal cassettone mi guarda la foto di mio padre: la tesa del cappello gli segna un’ombra sugli occhi, la bocca è senza sorriso, uno strappo sottile nel viso di carta ingiallito. Tiene una mano sul cuore, come a fare un patto.
La mattina del mio matrimonio mi ha detto, masticandosi le parole, con le spalle girate: Se vuoi tenerti un marito, ricordati che la camera da letto è come un cantiere, il matrimonio è lì che si costruisce, dalle fondamenta al tetto. Tutto il resto son fregnacce.
Ero rimasta zitta, la faccia che mi bruciava. Quelle parole, da lui, che di parole era diventato avaro come un usuraio, da lui che non sapeva più di intimità né di carezze, non me le aspettavo. Da quando eravamo rimasti soli, ricordo solo vuoti, fra noi, grandi come quelle buche che avrei visto anni dopo in un film Luce, lasciate nella terra dalle bombe degli americani. Solo sguardi sguinci. E silenzi.
Non ricordo una carezza, un atto di vicinanza. Alla sera, finito di mangiare, ripiegava per bene il tovagliolo, ci passava sopra le mani più volte, per togliere ogni grinza. Poi si alzava e se ne andava in camera. Non era più lui da quando era morta mia madre. Prima, quando lei era viva, ascoltavamo la radio, dopo cena. Più tardi, dal mio letto, li sentivo ridere e bisbigliare.
Mia madre, morta che avevo solo dodici anni, portata via in pochi giorni da una brutta polmonite. E a lui ero rimasta solo io. Ma non so neppure se mi vedesse. A volte, sarà stata una sera al mese, lui si alzava dalla cena e invece di andare in camera, si infilava il cappello e usciva. Stava via ore e il giorno dopo aveva un viso ancora più cupo. Quanto a me non so se mi sentissi sola. A volte avrei voluto domandare cose, ma senza saper bene cosa chiedere. E a chi.
Avevo cominciato a imbarazzarmi per il mio corpo che stava cambiando, a provare fastidio per quel sangue che usciva ogni mese, spiegato con bisbigli dalle compagne più grandi. E provavo vergogna per certi languori che mi sfinivano quando un ragazzo mi gettava addosso lo sguardo. Di amiche vere non ne avevo: avevo smesso la scuola e la merceria di mio padre mi prendeva tutto il tempo, poi c’era la casa. Non finivo mai, non avevo mai delle ore tutte mie, se non quelle della messa. Non c’erano donne, intorno a me, solo le clienti della merceria, e quelle vecchie suore del convento in fondo al paese che alla domenica, dopo la messa, offrivano a noi ragazzine biscotti e caffelatte, e parlavano di peccato, con la bocca stretta, ne parlavano.
A volte, quando ero a letto e non pigliavo sonno, mi veniva come una fame, ma era una fame strana, che sapevo di non poterla cacciare con un pezzo di pane. Allora era il cuscino che mi stringevo forte fra le gambe e dopo mi addormentavo di botto nel sudore e sognavo il grande occhio accusatore di Dio che si puntava su di me, come nel dipinto che c’era nel convento. Mi svegliavo e mi facevo il segno della croce, e chiedevo perdono, non so a chi, se a Dio, o al mio corpo, o a mia madre che non c’era più, o a mio padre, che dormiva nella sua camera, e si credeva di avere una figlia pura e innocente.
Vincenzo me lo ha fatto conoscere lui. Lo ha invitato a cena, una sera. Mi ha detto di preparare l’arrosto e le patate al forno. Schivo, mi aveva detto di vestirmi bene, di raccogliermi i capelli.
Solo dopo, ho capito. Tre anni dopo, quando al suo funerale ho incontrato la sua cugina di Roma, la nostra unica parente.
Mio padre aveva cominciato a sputar sangue subito dopo la fine della guerra. E così aveva scritto alla cugina, preoccupato per quella figlia ancora tanto giovane, preoccupato per la merceria, e per un avvenire che vedeva incerto, per me, che non ero neppure bella, le aveva scritto, non bella come mia madre, aveva scritto, con quelle quattro ossa che mi sporgevano sotto la pelle, e che me ne stavo sempre fra il negozio e la casa, la casa e il negozio. Lei gli aveva detto di un ragazzo, un giovane tranquillo, da poco tornato dal fronte, che gli erano morti i genitori sotto le bombe di San Lorenzo. Poteva essere un rimedio. Lui era stato nel commercio, prima di partir soldato, i suoi avevano avuto un negozietto di granaglie, anche quello distrutto. Era sano e robusto. Non aveva legami.
Una foto di Vincenzo non ce l’ho. Quella del matrimonio è sparita, saranno decenni. Era lì, vicino al ritratto di mio padre, fra la Madonna e la palla di vetro con la neve. Proprio dove adesso c’è la lettera, quella che è arrivata tre giorni fa. Ancora chiusa nella sua busta minacciosa.
Senza mittente. E con quel timbro. L’ho visto con la lente di ingrandimento, quel timbro. È da quando l’ho letto che c’ho questo grumo piantato qui, nella gola, sangue di Giuda.
TRE
Nadia (8 agosto 2002)
Prima di scendere dalla macchina si guarda nello specchietto retrovisore. Si aggiusta una ciocca di capelli, la sistema dietro un orecchio, poi la riporta a lambirle una guancia. Sorride. È bello il contrasto di quel biondo dorato sulla pelle abbronzata. La fronte è liscia, con le iniezioni del mese scorso sono sparite quelle rughette che avevano iniziato a preoccuparla. Gli occhi blu, dal taglio così particolare, allungato verso le tempie, non lasciano trasparire il nervosismo che la prende ogni volta che ha un appuntamento.
Si ostina a chiamarli appuntamenti di lavoro. Gira ancora con il book di quindici anni fa, quando ne aveva venticinque, di anni. Quindici anni di promesse, di aspettative bruciate, di castelli di sabbia fondati sull’unico lavoro vero che le era capitato: un brutto spot pubblicitario, dove lei si allungava avvolta da un velo sul cofano di un’auto sportiva, e con voce roca diceva: prendimi, io sono qui.
Ma lei non si è mai abbattuta. Ancora aspetta il miracolo, ancora aspetta che il sogno si avveri.
In giro, poca gente: una comitiva di giapponesi, due donne anziane con un ombrellino di pizzo bianco che si tengono a braccetto, un gruppo di ragazzi seduti sul marciapiede, pieni di tatuaggi sulle braccia abbronzate, le gambe allungate che non ritirano per farla passare, e che le lanciano un commento pesante, mentre lei li scavalca.
Mancano pochi giorni a ferragosto, e chi ha potuto se ne è andato al mare.
Domenica, pensa Nadia, porterò al mare Mira, non andiamo mai da nessuna parte, lei e io. Sì, domenica. Senza mia sorella, senza nessuno, solo io e lei, pensa. Madre e figlia, a prendere il sole sulla spiaggia e chiacchierare fra di noi. Non lo facciamo mai, di chiacchierare.
L’uomo le viene incontro nella penombra del bar.
Wolf
, si presenta.
Nadia. Nadia Dall’Olmo
, risponde lei, mentre cerca di valutarlo velocemente.
Sui cinquant’anni, attraente nonostante le borse sotto gli occhi che denunciano qualche bicchiere di troppo. Un’espressione di strafottenza, ma non le importa. Un uomo è solo un uomo, ne ha viste tante di espressioni come questa scomparire fra un paio di lenzuola. Forse potrei innamorarmi anche di lui, pensa fugacemente.
Perché lei ha bisogno di essere innamorata più di quanto abbia bisogno di aria da respirare. Questo da sempre, fin da quando ha memoria.
Ho lo studio qui sopra. Andiamo
.
La precede camminando veloce, il codino che gli oscilla fra le scapole.
La stanza è piccola e afosa. Libri sulla storia del cinema sono accatastati un po’ ovunque. Per fare sedere Nadia sposta da una sedia una biografia di Orson Welles.
Non le offre nulla. Accende un ventilatore che fa volare a terra fogli scritti che sono accanto a un computer. Non si siede. Si piazza davanti a lei, le gambe leggermente divaricate, le mani infilate nelle tasche dei jeans scoloriti.
Poi Wolf (uomo-lupo, pensa fra sé Nadia), comincia a farle domande sulle passate esperienze. Lei recita una sequela di luoghi e nomi, un po’ veri, un po’ inventati, e tira fuori il book, glielo apre su quella che le sembra la fotografia migliore.
Lui lo richiude.
Ma tu cosa sai fare?
, le chiede.
Strano, una domanda così non gliel’ha mai fatta nessuno, che lei si ricordi. In genere cominciano a toccarle il viso, a scompigliarle i capelli, a dire: Togliti qualcosa di dosso. A spostarle un braccio, a piegarle una gamba, per poi passare a soppesarle un seno, a fare qualche apprezzamento, a scattare foto, a fare campi lunghi su tutto il suo corpo con la videocamera. A dire: Leccati le labbra, mettiti una mano lì, giù la spallina, no, più giù, ecco, ferma.
A dire la verità, è un po’ che non succede neppure questo.
Ultimamente, gli uomini le fanno solo promesse, le parlano di una parte sicura, di un ruolo importante, poi la invitano a cena, e naturalmente c’è sempre un dopocena in qualche camera d’albergo. E quando lei si addormenta fra quelle pareti estranee, sogna del film, della parte importante e dell’amore di un uomo. Sogna del successo da portare a casa, come un dono, a sua madre, a sua sorella, a Mira. Per essere un po’ amata anche da loro.
Allora
, ripete l’uomo-lupo, tu cosa sai fare? Cosa vuoi, esattamente?
Io so ridere, so essere accogliente, so essere dolce, so essere generosa del mio corpo e del mio tempo. So dire di sì, sempre. So che se te lo imponi la vita può essere bella. Cosa voglio? Voglio piacere, voglio vedere il desiderio negli occhi di un uomo, voglio essere amata, voglio sentirmi dire che sono bella. Che sono buona. Che sono una brava bambina.
Voglio… voglio fare del cinema
, risponde con un tono così incerto che non convince neanche lei stessa.
Del cinema…
, le dice l’uomo. Certo, sei qui per questo. Hai quarant’anni, vero? Lo so, perché me lo ha detto Manenti, quando mi ha fatto il tuo nome. Ma la tua faccia non li racconta, i tuoi quarant’anni. È troppo liscia, sembra una maschera. E quelle labbra rifatte, non dicono né di sorrisi, né di pianti. E allora, sai che ti dico? Non mi interessa la tua faccia. Quello che cerco è una donna che i suoi quarant’anni non li nasconde grazie alle mani di un chirurgo. Sai cosa disse una volta Anna Magnani al suo truccatore? Gli disse: Non togliermi neanche una ruga, ci ho messo una vita per costruirmi ’sta faccia. Ma probabilmente tu non sai manco chi è, Anna Magnani. Sai, se devo essere sincero, ho voluto incontrarti perché Manenti mi ha detto che sei una zoccola. Mi son detto: Be’, la faccio venire qui e me la scopo e poi vediamo. Magari la porto agli studi e un provino ci scappa. Ma oggi è un giorno no, e me ne sbatto di portarti a letto. Forse perché alla fine, tu, con la tua faccia finta, con quegli straccetti che indossi come esca per gli stupidi, e io, con la mia faccia che è tutto un segno, con il codino ridicolo con cui mi illudo di apparire diverso dalla massa, siamo più simili di quanto sembri: due falliti, tutti e due. Ecco cosa siamo. Sai quanti film ho girato? Uno, che però non è mai arrivato in nessuna sala cinematografica. Se non fosse per Manenti, che è l’unico amico che mi è rimasto, in uno studio cinematografico non mi prenderebbero neppure a pulire il cesso. E tu? Quel book, sempre lo stesso, che trascini da un appuntamento all’altro. Ne parlano, sai, nell’ambiente, e ne ridono, ti assicuro. Come ridono di me, e del mio film, buttato chissà dove. Scusami, te l’ho detto che oggi è un giorno no. Non fare caso a quello che ho detto. Ma adesso lasciami solo, vattene, per favore
.
Finalmente tace. E Nadia continua a guardarlo, e nella testa ha un mulinello di parole. Anzi due parole, soprattutto: fallita e zoccola.
Lei non si sente né l’una né l’altra. Non è una fallita, ha ancora tutta la vita davanti per realizzare il suo sogno. Non è una zoccola. Non ha mai dato amore a un uomo senza esserne innamorata. Anche se solo per una notte, li ha amati tutti quegli uomini che si spingevano dentro di lei, che le dicevano: Bella, mi piaci, sei mia. Non ha mai voluto nulla, da loro, se non quelle parole.
Sente gli occhi che le si riempiono di
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