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L’eterno istante in cui mi sono sentita felice
L’eterno istante in cui mi sono sentita felice
L’eterno istante in cui mi sono sentita felice
E-book172 pagine2 ore

L’eterno istante in cui mi sono sentita felice

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Info su questo ebook

Una lettera d'amore per la mia anima gemella capace di guardare con occhi nostalgici oltre il tempo e lo spazio. 

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita11 set 2023
ISBN9781667463216
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    L’eterno istante in cui mi sono sentita felice - Hitomi Iida

    L’eterno istante in cui mi sono sentita felice

    di Hitomi Iida

    Indice

    Prologo

    Radici

    America

    Anima gemella

    Primo atto

    Morte di mio papà; cittadinanza americana; disoccupazione; toccare il fondo?

    Secondo atto

    La cerimonia d’addio

    Amici – famiglia

    Texas

    L’eterno istante in cui mi sono sentita felice

    Postfazione

    Prologo

    Ricreare una percezione particolare di tempo.

    Che fosse questo il senso del forest bathing, l’immergersi nel verde della foresta?

    Erano decenni che non mi sdraiavo così sull’erba.

    Avevo stiracchiato il mio corpo come meglio potevo allungata sotto un albero, poi avevo guardato il cielo azzurro privo di nuvole.

    Mi ero messa a pensare alla mia infanzia ormai lontana.

    Il cielo della California in quel novembre del 2006, mi aveva fatto tornare in mente lo sterminato cielo azzurro che vedevo nella campagna di Aomori quando ero una bambina.

    La bellezza universale che quel cielo possedeva non mi faceva percepire né la distanza di quasi trenta anni, né la lontananza geografica tra i due paesi. 

    Qualsiasi posto del mondo mi trovassi, qualsiasi le circostanze che stavo vivendo, il cielo mi regalava sempre una preziosa parentesi in cui rivivere le stesse sensazioni di un passato ormai lontano.

    Guardavo quello splendido cielo, gli alberi sopra di me che mi riparavano, gli stormi di uccelli in volo. Così, mi ero ritrovata a pensare a cosa differenziava il momento che stavo vivendo da quello che avevo vissuto trenta anni prima. 

    Più ci riflettevo, più mi rendevo conto c’erano ben poche somiglianze...

    Avevo trent’anni di più, mi trovavo in un paese diverso, le cabine telefoniche erano sparite dagli angoli delle strade, non era più immaginabile una vita senza cellulare e computer, i miei genitori se ne erano andati da questo mondo.

    ...le differenze erano tantissime.

    Ma le cose fondamentali - l’azzurro del cielo, il profumo dell’erba e dei fiori, il contatto con l’aria ed ancora l’essenza della me che percepiva tutto ciò - non erano forse rimaste uguali?

    Certo, avrei dovuto sapere che in questo universo non esistono cose che non cambiano mai, avrei ormai dovuto capirlo, ma nel profondo del mio cuore sentivo che qualcosa sarebbe rimasto immutato per l'eternità.

    Era un qualcosa che andava oltre l’immagine di un bel cielo, del profumo dell’erba e dei fiori, del contatto con l’aria che avevo impresso nella mia mente...

    Ma all’epoca ancora non sapevo cosa fosse.

    Era una sensazione così bella che avevo quasi perso la cognizione del tempo.

    Mi ci erano volute due corse in ospedale per capire quanto essenziale fosse la salute. Mi era bastato questo a farmi realizzare quanto preziosa fosse la vita.

    Certo, la verità è che la cosa non è così banale. Spesso la vita è molto, molto di più.

    Mentre ero lì ad immergermi nella natura, non potevo immaginare che avrei abbracciato questa incredibile consapevolezza nel giro di un mese.

    Allora mi era sufficiente solo poter rimanere in mezzo a tanta struggente bellezza. 

    Accanto a me c’era il mio amato cane T-bone. Aveva corso come un matto per riportarmi il suo giocattolo preferito, ed ora, con la lingua rosa penzoloni, aveva un’aria tutta soddisfatta. Era ormai diventata una routine andare al parco con lui invece che con mio marito Clark. 

    Incantata dalla bellezza di quel cielo azzurro, ripensavo a quei giorni felici ormai passati.

    Aveva avuto tutto inizio da una meravigliosa infanzia, un'infanzia in cui ero stata circondata da paesaggi infiniti.

    Radici

    Anni ‘70, una piccola città nella campagna di Aomori.

    Inavvertitamente il cielo azzurro si era tinto dell’arancione del tramonto. Sulla superficie dell’acqua si erano riflessi brillanti ed intricati colori che sembravano eterei. Io guardavo tutto ciò dalla finestra.

    Ok, adesso!

    Ero uscita di casa con passo felpato.

    Che senso avrebbe avuto la mia giornata se mi fossi persa quell’istante?

    Mia madre preparava la cena, mi aveva visto uscire dalla finestra socchiusa della cucina.

    Hitomi, dove vai? mi aveva chiesto.

    Cavolo, mi ero fatta scoprire.

    Vado a fare una passeggiata all’Isola dei pini avevo risposto ed ero uscita a passo svelto da casa come se niente fosse. Ero irrequieta, dovevo allontanarmi da lì prima che mia madre mi trattenesse e rompesse l’incantesimo di quella parte della giornata.

    La voce di mia madre che mi diceva di rientrare in tempo per la cena viaggiava già in un universo distante.

    Appena uscita di casa avevo rallentato il passo. Quello era un momento di piacere solo mio, volevo che durasse il più a lungo possibile. La spiaggia sabbiosa dove raccoglievo le conchiglie era il mio paradiso. Bastava camminare cinque minuti per arrivarci, era proprio davanti casa mia. 

    Lì c’era una piccola isola a forma di pino che risaltava galleggiando nell’acqua.

    L’isola era stata classificata come un monumento naturale nazionale perché sito migratorio di alcuni cigni provenienti dalla Siberia, ma era anche un parco giochi ideale per i bambini.

    Mi piaceva andarci da sola all’ora del tramonto, ma anche di sera, quando non era più tanto affollato.

    Quando attraversavo il ponticello e arrivavo sull’isola, quando camminavo lungo la riva, quando mi sedevo sugli scogli o sull’erba, tenevo il mio sguardo fisso sempre sullo stesso punto: la linea dell’orizzonte del mare.

    Pensavo sempre alla stessa cosa: ai paesi dall’altra parte del mondo in cui non ero mai stata.

    Era un momento magico, uno in cui il tempo sembrava fermarsi. Un luogo incredibile, dove si veniva inglobati dai suoni e dalla tranquillità della natura, dove il silenzio stesso si poteva percepire, quasi fosse anch’esso un suono. Ogni tanto, sulla superficie dell’acqua mossa da qualcosa, intravedevo una sottile, bellissima striatura; altre volte un paguro indifeso scorrazzava vicino i miei piedi: il nostro diventava l’unico contatto che avevo con il mondo esterno.

    Quel mare, quel cielo, quel panorama che mi avvolgeva era solamente mio.

    Esisteva una fine a quella vista, a quello spazio?

    Cosa stava accadendo in quel momento dall’altra parte del mare?

    Forse qualcosa di incredibile che avrebbe cambiato la storia.

    La guerra in Vietnam, lo scioglimento dei Beatles, lo scandalo Watergate...

    Un mondo inverosimilmente infinito si apriva davanti i miei occhi. Quell’incantevole paesaggio di campagna era il mio intero universo, era il mio macrocosmo.

    Nella mia mente di bambina erano risuonate le parole di Victor Hugo che mi aveva insegnato mia sorella:

    Più vasto del mare, il cielo; più vasto del cielo, il cuore dell’essere umano.

    Il mio piccolo cuore all’epoca era più grande del mare, più grande del cielo.

    Non avevo mai parlato a nessuno di quel tempo che concedevo solo a me, ho sempre preferito tenerlo nascosto. Era come se mi stessi innamorando di qualcuno in segreto.

    E oggetto del mio amore erano la natura e la forza della mia immaginazione.

    ––––––––

    Seconda metà degli anni ’70.

    Radici, la commovente storia vera di Alex Haley e della sua ricerca dei suoi antenati africani fino a sette generazioni prima, viene presentato sulla tv giapponese. 

    All’epoca ero una studentessa del liceo e, sul letto della mia camera tappezzata di poster dei Beatles, ricordo che lessi la traduzione di quel massiccio libro tutta d’un fiato.

    Una volta finito, nella mia testa risuonavano incessanti le parole dello scrittore Shōtarō Yasuoka che apparivano nella postfazione:

    L’esistenza umana non è unicamente un’esperienza di morte

    Che parole potenti.

    Incontrare espressioni legate alla morte mi faceva sempre sentire sopraffatta.

    Sarebbe finito tutto dopo la vita?

    Cosa sarebbe accaduto una volta arrivato il momento della mia morte?

    Ricordo di essere stata assalita da una strana sensazione, come se mi fossero state poste domande insensate e misteriose di cui, però, ero sicura di sapere le risposte nella parte più profonda di me.

    La spiaggia sabbiosa con i paguri che scorrazzano a terra era ancora lì, al di là della finestra della mia stanza al secondo piano. In quella direzione si estendeva l’orizzonte. Esisteva laggiù una versione di me che non si stava perdendo in un’esperienza di morte?

    Hitomi, è pronto! Scendi...

    Il suono della voce sempre allegra di mia madre e la foto appesa alla mia parete di John Lennon che suonava un pianoforte bianco si trovavano per me in un universo lontano.

    Ero rimasta allungata sul letto a pancia in sù a fissare il soffitto confusa.

    Anni ‘80

    Gli anni dell’università sono un periodo inestimabile della vita di una persona. Non si lavora, si ha tutto il tempo del mondo a disposizione, si è liberi. Un momento magico. Per questo gli amici e le cose che si fanno in quegli anni non si dimenticano mai.

    I miei anni all’università erano stati esattamente come li aveva descritti il mio professore preferito  durante una lezione di letteratura americana.

    Una città della regione del Tohoku, di notte.

    Venivo presa a calci nello stomaco da un uomo. Un suo amico mi fissava in stato confusionale incapace di fare qualcosa mentre mi accasciavo sul marciapiede in strada. Le macchine continuavano a sfrecciare accanto a noi.

    Esattamente lì, a terra, le parole di una mia compagna di dormitorio avevano preso vita.

    Hitomi, sei così estrema...

    Estrema? Che intendi?

    Che non esistono vie di mezzo con te! Non è normale.

    Che tutto ciò fosse stato una ripercussione del mio carattere estremo e anormale? Bastava dire non voglio più stare insieme a te per farmi esplodere contro una tale violenza?

    Quando, dopo venticinque anni, avevo rivisto le mie amiche dei tempi del dormitorio, avevo parlato proprio di quell’episodio.

    Ti ricordi, Kaori? Ti ricordi quando sono stata picchiata da quell’uomo e sono riuscita a fuggire a casa tua? Non sono mai riuscita a dimenticarlo, nemmeno quando sono andata negli Stati Uniti. Ti devo davvero tanto sai, Kaori. Mi hai salvata da una situazione terribile. Avevo parlato con sincerità, mi ero resa conto però di aver esagerato.

    Era quando avevi lasciato il dormitorio ed eri andata a vivere insieme con quel tizio? Quando abbiamo smesso di vederci così spesso, no? aveva risposto Atsuko, che amava l’America e l’inglese e gestiva un negozio di fiori insieme a suo marito.

    Sì, esatto. Non so se vi ricordate, mia madre era morta da poco di tumore, mi sentivo come se non ci fosse più nessuno che si preoccupasse di me... Mio padre non era molto attento a quello che facevo, non aveva provato ad aiutarmi... È stato in quel periodo assurdo che sono rimasta invischiata con quel tipo poco raccomandabile, sono andata a vivere con lui, addirittura gli lasciavo usare i miei soldi.

    Ah sì, quella volta. aveva finalmente detto Kaori, una donna che si prendeva sempre cura di tutti, gentile e con un carattere gioioso. Era sposata con un avvocato, il suo ragazzo ai tempi dell’università, e si godeva una vita tranquilla. Certo, come no, avevamo preso insieme un carretto e avevamo fatto due tre viaggi per portare tutte le tue cose da me.

    Eh, un carretto?

    No, aspetta, non era così. Non era un carretto. Era una carriola che avevamo preso in prestito dal mio padrone di casa. Sì, era così!

    Una che?

    Era una parola che non sentivo da oltre vent’anni e, in un istante, il mio cervello si era come annebbiato. Non mi veniva in mente nessuna immagine che potesse collegarsi a quel suono, carriola. Era forse quella cosa con una sola ruota che le mogli dei contadini usavano per trasportare le verdure?

    Cosa? Era davvero una carriola? Traslocare con un carretto è tremendo, farlo con una carriola è veramente pietoso... Sei sicura di ricordare bene?

    Assolutamente, come potrei dimenticarlo. Solo tu avresti potuto fare una cosa del genere!

    Pensavo alle mogli dei contadini, alla carriola che stavo dimenticando, all’innocenza di Kaori e sentivo l’agitazione che saliva. Poi ero scoppiata a piangere.

    Era passato così tanto tempo...

    Avevo iniziato a dimenticare la me di quel tempo. La me che aveva cercato disperatamente di scappare da quell’uomo.

    La me che aveva fatto tre isolati con una carriola insieme a una sua amica per fuggire da quella casa. Era la stessa persona che aveva usato un enorme, comodo

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