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Maia una strada magica verso la felicità
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E-book143 pagine2 ore

Maia una strada magica verso la felicità

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Info su questo ebook

E' un romanzo forte, epico, spirituale, di formazione, una confessione dove si manifestano gli Spiriti Guida più evoluti.

È il racconto di una trasformazione che ispira l’anima del lettore a svelarsi, dove il mondo contingente e quello sottile dei Grandi Saggi, convergono a favorire un’apertura profonda che libera, apre, incoraggia, responsabilizza. Un libro che davvero può far cambiare.

 
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2018
ISBN9788894981063
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    Anteprima del libro

    Maia una strada magica verso la felicità - Laura Greguoldo

    Laura

    PROLOGO

    Mi chiamo Maia e questa è la mia storia.

    Un giorno tutti noi torneremo alla Matrice, alla Fonte Originaria di Tutto ciò che È.

    Significherà che avremo compiuto la nostra Evoluzione.

    Significherà che avevamo una Missione, insieme a quella di Molti, per la Manifestazione del Migliore, più Armonioso, più Facile, più Felice, più Istruttivo Disegno Universale.

    Così è per tutti, per ogni cosa, in ogni tempo, epoca, luogo, piano, dimensione, possibilità.

    I CAPITOLO – La montagna

    Stavo correndo a perdifiato sopra l’erba a piedi nudi su un inizio estate. I capelli rossi si illuminavano ad ogni salto sulle fiamme dell’ultimo sole. Al di là del prato cantava sordo il piccolo torrente, la lunga siepe accanto al sentiero pendeva carica di more.

    Risi senza un motivo, senza che alcun pensiero mi sfiorasse, risi al cielo azzurro e terso, ai fili d’erba, alle pensierose montagne, alle mille cavallette che mi accompagnavano ad ogni passo.

    Raggiunsi il punto più alto della collinetta e mi lasciai rotolare giù ad occhi spalancati. Lì, sulla terra fresca sentivo di volare nel cielo che mi rotolava intorno. Immaginai di librarmi alta sopra il prato, più in alto, sopra le cime dei boschi, sopra le rocce, nell’azzurro vuoto accanto al volo di un’aquila.

    Da lontano forse parevo una bambina, invece ero una quasi donna di diciannove anni. Facevo queste cose solo quand’ero certa che nessuno mi avrebbe vista. Gli estranei dicevano che ero ombrosa, carattere collerico, bastian contrario, sempre in lotta. In fondo era meglio così. Ero fragile come un filo di cristallo. Questa fuga all’aria aperta era un rito che non avevo mai abbandonato, nemmeno ora che molte delle mie coetanee stavano, proprio adesso, attaccate al ferro da stiro in una cucina tutta nuova.

    Chissà, pensai, come doveva essere innalzarsi così tanto in alto da riuscire a veder tutto, da essere nel contempo dentro e fuori il mondo. Perché non mi sono incarnata mongolfiera o satellite o nuvola? Nuvola no, quella scende prima o poi.

    Anche la mongolfiera. Disse il mio amico di sempre.

    Ssst. Risposi assorta. Lasciami sognare. La fai facile te che stai dall’altra parte del velo.

    Rimasi lì per qualche istante. Nessun pensiero.

    Non so come, in un attimo mi trovai in un ambiente diverso e ne fui sorpresa nonostante fossi abituata a queste cose. Intorno a me c’erano alberi e piante perfettamente regolari, un ruscello in lontananza che gorgogliava, una fontana con statue di dee greche, più in là un palazzo vittoriano con bellissime buganvillea sull’atrio.

    Mi sentii chiamare in lontananza. Elizabeth!.

    Ero… io. Non so quando. Né dove.

    I’m here! Mi sentii gridare restando assorta a guardare lo zampillio dell’acqua.

    Ok! Ten minute! Era la voce di mia madre. Di quella vita. Che in questa avevo già perduto. Sentii stringermi il cuore e con gli occhi lucidi mi alzai veloce tra i preziosi merletti per recuperare quei dieci minuti oltre il tempo accanto a lei, confondendo la me passata con quella della vita attuale.

    Un calabrone frettoloso venne a riportarmi qui. Era ora di andare. Stiracchiandomi mi voltai ad ovest. I colori accesi, il sole ancora rotondo presto si sarebbe spezzato sulla montagna.

    Mi alzai e presi a scendere. Più giù, l’acqua sulfurea di un silenzioso torrentello odorava di uova marce. Era uno dei preziosi doni di quella terra. L’acqua trasparente cullava ipnoticamente le verdissime alghe cedendo una scia biancastra sulle rocce. Mi sentii triste ora. Forse sarebbe stato più divertente se ci fosse stato anche Aldo, mio fratello, che invece doveva studiare.

    Non avevo amiche della mia età, stavo volentieri con qualche signora che veniva in vacanza da noi. Che andava e poi partiva. Di queste donne amavo ascoltare quello che si dicevano, la vita, le lotte, i loro vissuti. E poi mi piacevano le mille promesse dei loro occhi sui miei. Un grande destino, diceva qualcuna. Se lo dicevano loro…

    A passo veloce arrivai fino alla prima stradina. Sullo sfondo si addossavano una all’altra alcune antiche case di pietra sonnecchiante e accanto, costruzioni più recenti proprio sbagliate.

    Nell’intensità della luce dorata, nell’attimo in cui il sole comincia a nascondersi troppo presto dietro la montagna, apparvi dallo sfondo del prato sul limitare del paese di duemila anime, mi sentii fiamma, ardore, un’entità galvanizzata d’oro rosso incandescente. Forse facevo paura o ero brutta perché la gente si allontanò frettolosa. Ne soffrivo ogni volta. A testa alta proseguii.

    Mi sentii all’improvviso cingere da dietro per la vita. Adrenalina. Era Matteo.

    Cretino!. Sbottai troppo poco arrabbiata scoppiando subito a ridere.

    Maia. Dai, andiamo. Sussurrò lui con un’aria tra il macho e l’orso Yoghi. E indicò con un cenno la vecchia casetta di pietra nella quale ci appartavamo.

    Matteo era bruno, bello, occhi azzurri, intelligente, aveva venticinque anni, uno di quelli che non rinunciano a nessun divertimento, uno dei pochi lì non ancora sposati. Figlio di un negoziante del paese, voleva andare via, ma era sempre lì. Me ne innamorai molto tempo prima durante la prima processione della chiesetta vicina, al gelo, in quella terra che per me era ancora sconosciuta. Furono poi anni di sogni e illusioni, cuori sui diari e inutili attese, prima che degnasse di uno sguardo la timida ragazzina quale ero.

    Adesso ero grande e all’improvviso mi voleva. Il cuore scoppiava di felicità nonostante intuissi che non sarebbe durata, nonostante mi aspettassi da un momento all’altro di vederlo con la prossima.

    No, assolutamente no. Devo andare. Dissi con un’aria troppo poco convinta. Che decerebrata. Dovevo rientrare e me la presi con me stessa. Ricordai, chissà perché, le ridicole parole di una mia precoce compagna di classe di anni prima: ‘Quando l’hai fatto una volta, non puoi più tirarti indietro’. Una teoria tutta sua per essersi fatta mezzo esercito.

    Lo seguii fin dentro il boschetto dove si nascondeva la casupola che da quelle parti si chiamava Tese’. Era un posto magnifico, ma era triste sapere che quella minuscola costruzione servisse a nascondercisi per sparare agli uccelletti che indugiavano tra i rami degli alberi intorno.

    Ci amammo velocemente sopra il vecchio tavolo. Mi rivestii rapida e con finta aria da escort incallita lo lasciai lì, ansante, con i pantaloni abbassati e un bacio sulla guancia. Speravo che nascondere il mio eterno amore mi mostrasse più matura, diversa dalle altre che gli zampettavano intorno. Volevo essere altro, essere una donna e tenerlo legato a me oltre le paure.

    Era quasi sera ormai. Sul limitare dell’erba lanciai un’occhiata in giro. Salvo una svelta Uno rossa, sembrava un paese fantasma. Allacciando le cinghiette dei sandali pensai a mia madre. Oramai era morta da cinque anni. Ebbi l’impressione che fosse passato un secolo. Temetti di dimenticarla, un giorno. Ma alcune candide calle in lontananza mi ricordarono quanto lei amasse quei fiori. Allora ricordai le sue carezze, i baci, l’odore buono, la voce, lo sguardo. Com’era possibile esserci, vivere, camminare, parlare, amare e poi sparire come se non fossimo mai esistiti? Ebbi ora l’impressione che fosse passato solo un soffio dall’ultima volta.

    Il tempo non esiste Maia. Disse la mia Guida. È solo questione di punti nello spazio-tempo.

    Socchiusi gli occhi, verdi come quelli di mia madre, anche la voce, il sorriso e i capelli. Annuii. Harael aveva probabilmente sempre ragione, anche se spesso non avevo idea di cosa dicesse. Eravamo connessi da sempre e intuivo di essere fortunata per questo.

    Da bambina mi divertivo molto con lui, viaggiavamo in posti magici ovunque sulla terra e oltre. Un gioco tutto nostro di cui né allora né oggi potevo parlare con nessuno, non mi avrebbero creduta, nemmeno i miei che, molto tempo prima, quando abbozzai un inizio di confidenza, dissero che erano tutte fantasie o, peggio, bugie. Questo mi offese profondamente e da quel giorno tenni i miei segreti per me.

    Ripensai ai primi mesi in quella terra. Inverno, luoghi rigidi, gente troppo dura. Mi avevano accolta come una extraterrestre. I miei compagni di classe mi avevano rifiutata per un bel po’ e i miei coetanei ancora oggi mi tenevano pressoché alla larga. Una marcia in più, dicevano gli insegnanti, probabilmente per pietà. Ma nonostante il dolore del rifiuto e del distacco dalla vita di prima, l’astronave ce l’avevo davvero, erano la mia famiglia, le tele, i colori, le visioni magiche e il mio inseparabile Harael. Fu in quella fase che Aldo ed io ci unimmo profondamente nonostante i tre anni di differenza, condividendo quel difficile passaggio da Milano alla Carnia, in quel piccolissimo paese refrattario al turismo e ad ogni novità.

    Non smettevo di pensare che un giorno sarei andata via di lì, che avrei vissuto mille esperienze meravigliose, visto luoghi e conosciuto persone straordinarie. Forse era una fuga dalla realtà. Non mi importava, ne avevo bisogno. È che la maggior parte degli abitanti del luogo mi metteva tristezza, li trovavo guidati da un identico filo come tante marionette. Persone che nascevano, uscivano con gli amici al bar, si fidanzavano giovani. I più dovevano sposarsi all’improvviso sempre troppo giovani, educavano i figli ad essere come loro e anche quelli stavano al bar, si sposavano, invecchiavano e morivano. Una ruota senza scopo. Ma quella era la vita, mi dicevano. Perché, allora, soffrivo per loro? Se a loro andava bene così... Aveva forse ragione mio padre quando diceva che qualunque vita, per quanto luminosa o libera, non sarebbe mai stata in fondo diversa da quella di tutti? Non riuscivo a capacitarmene. Soprattutto non capivo da dove provenisse tanto dolore. E no, io non mi sarei buttata via.

    Oramai ero a pochi passi dall’albergo. La vecchia insegna cantava sempre la stessa canzone: Hotel Stellabianca. La vecchia costruzione, all’esterno, aveva l’aria di un luogo vecchio. Era precisamente quello che i miei volevano, lasciare i segni del tempo nonostante la ristrutturazione. Se non fosse stato per la gentilezza, la buona cucina e la pulizia, secondo il mio vedere non ci sarebbe entrato nessuno. Mio padre aveva mantenuto i cuscini di gerani di mia madre sui tanti poggioli e continuato a curare il grande orto sul retro, nel quale faceva i suoi esperimenti per non utilizzare veleni ma solo prodotti naturali. Così il paese era pieno di coccinelle.

    Trovavo affascinante la terrazza del primo piano. Era l’unica cosa che mi piaceva di quel posto. Nei primi tempi lì, immaginavo

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