Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Rönum
Rönum
Rönum
E-book157 pagine2 ore

Rönum

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il faro, una tetra ed enorme mostruosità che ad intervalli regolari emette il suo segnale luminoso, mentre animali, esseri umani e persino l’acqua sembrano impazzire. 
Qualcosa non va come dovrebbe… cosa sta succedendo? 
E cos’è veramente Rönum? 

L’estate volge al termine in un remoto paesino sul Mare del Nord. Rodacher vi è tornato per rilevare l’agenzia viaggi di suo padre. Ma ora che le notti fanno strisciare fuori dai prati umidi la nebbia fredda e i turisti se ne vanno, riappaiono le oscure immagini della sua infanzia, e Rodacher inizia a chiedersi se abbia veramente fatto bene a tornare. 

Prima impazziscono le pecore, poi Maria Feinworth, l’assistente di Rodacher, svanisce nel nulla. Partito alla sua ricerca, Rodacher scopre un potere oscuro e misterioso, proveniente dal faro e dal suo custode, che ormai non è più in grado di eludere. E la sventura prende il suo corso.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita3 ott 2016
ISBN9781507157756
Rönum

Correlato a Rönum

Ebook correlati

Narrativa horror per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Rönum

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Rönum - Jörg Karweick

    Rönum 

    di Jörg Karweick

    Il giorno della partenza

    Il poliziotto sorrise, ma era un sorriso freddo, di dovere, e la voce con cui leggeva i miei dati personali era meccanica. Si vedeva chiaramente che voleva terminare in fretta il lavoro e andarsene al più presto.

    «Nome: Brigitte Sand.

    Età: trentacinque anni.

    Professione: impiegata.

    Stato civile: nubile

    Indirizzo attuale: pensione La casa delle maree, Rönum.»

    Il tutto era intitolato verbale. Anche se conoscevo già quei pochi dati riguardanti la mia vita, ne trassi un po’ di sostegno morale quando mi chiese di raccontare tutto di nuovo, dicendo che tanto non era una storia lunga e lui l’avrebbe trascritta subito.

    Non era una storia lunga, che cosa rassicurante... Infatti la polizia era venuta tranquillamente dalla terraferma con il normale traghetto di linea. Io mi ero immaginata un arrivo un po’ più spettacolare, ma così era probabilmente più economico.

    Avevano portato tutta la loro squadra, tutte le attrezzature, il nastro segnaletico, come se avessero dovuto evitare che un’intera folla si riversasse su Rönum... Una cosa che mi sembrò del tutto esagerata, ma in quel momento ero probabilmente l’ultima persona capace di avere una visione lucida delle cose, poi macchine fotografiche, una vecchia macchina da scrivere e persino della carta. Non mi sarei sorpresa se avessero addirittura portato un nastro di riserva. E naturalmente il sacco per il cadavere.

    Vennero insieme agli ultimi villeggianti della stagione e tornarono allo stesso modo. Solo che il sacco era pieno.

    Forse ho usato un’espressione un po’ bizzarra, ma sono ancora in stato di shock. Non cerco scusanti per il fatto di apparire irrispettosa, ma voglio sottolineare che era la prima volta nella mia vita che scoprivo un cadavere su una spiaggia, eppure di passeggiate sulla spiaggia ne avevo già fatte parecchie.

    In ogni caso misero a verbale la mia dichiarazione nella sala della colazione della pensione in cui alloggiavo. La vecchia padrona di casa portò il caffè borbottando: «Oh, mio ​​Dio, mio ​​Dio» e «Poverina».

    Intendeva me.

    Il poliziotto sorseggiò il caffè e mi guardò con aria impaziente.

    La stanza era immersa nel silenzio, c’erano cinque tavoli muti ricoperti di tovaglie beige con porta sale e pepe a fiorellini, e si sentivano solo il costante ticchettio della macchina da scrivere e quello del vecchio orologio.

    Era sempre stato lì e aveva sempre ticchettato così, tic, tac, tic, tac. Da bambina mi faceva sentire a mio agio, invece quella mattina, seduta davanti al severo poliziotto, questo suono mi faceva impazzire. Il tempo non passava, era fermo.

    Poi cominciai a raccontare e l’agente a scrivere sulla tastiera con due sole dita.

    Di tanto in tanto faceva una domanda, io rispondevo, lui scriveva. Lentamente, ritmicamente. Questo noioso ticchettio riempì tutta la stanza, e anche se ogni tanto smetteva, perché l’agente era alla ricerca di una lettera, riprendeva poi in modo ancora più penetrante. Prima dava solo il ritmo a cui si uniformavano le confuse immagini che avevo in testa, facendo strisciare fuori ordinatamente i ricordi uno per uno, poi anche il mio parlare si adeguò alla cadenza dei colpi sul nastro finché ebbi addirittura la sensazione di recitare parola per parola ciò che lui stava scrivendo.

    Il ticchettio non smetteva persino quando mi fermavo brevemente a riflettere. Poi mi sentii come se un costante stillicidio d’acqua mi gocciolasse in testa, per poi penetrarvi dentro.

    Eravamo seduti al tavolo proprio accanto alla finestra, dove la mattina avevo fatto colazione con caffè forte, due panini, uno con un formaggio insapore, l’altro con marmellata di fragole, accompagnati da un uovo alla coque. Il poliziotto aveva messo la saliera a sinistra e la pepiera a destra del suo colossale attrezzo da ufficio, come due angeli custodi, mi passò per la mente... che sciocchezza... e attraverso la finestra guardai oltre il piccolo giardino, fino all’argine, al di sopra del quale pascolavano bianche e soffici nuvole a pecorelle, come se nulla fosse accaduto.

    A un certo punto mi resi conto che c’era anche un altro rumore nella stanza: il respiro del vecchio che sedeva immobile a un tavolo in un angolo.

    Forse era il marito della padrona di casa. In ogni caso era presente durante il mio ultimo soggiorno, trent’anni fa, e i miei genitori, che avevo chiamato poco dopo il mio arrivo alla pensione, si ricordavano ancora bene di lui, come capii dal silenzio di disapprovazione che colsi dall’altro capo della linea telefonica quando raccontai loro dei padroni di casa. Infatti erano contrari all’idea che venissi a stare qui per qualche giorno, tuttavia non se ne era discusso apertamente.

    Per quanto riguarda il vecchio, trovai solo strano che il poliziotto non gli chiedesse di lasciarci soli. In effetti avevo la sensazione che non lo notasse nemmeno, il che non era sorprendente, nonostante l’imponente altezza di quasi due metri e le spalle larghe, perché indossava insignificanti abiti grigi e la sua pelle sembrava adeguarsi sempre al colore dell’ambiente. Se di giorno andava sull’argine, era di un colore acquoso e azzurro come il cielo, in questo momento era acquoso e beige come il tavolo a cui sedeva, sempre acquoso, e sulla spiaggia una volta stavo quasi per investirlo, perché sembrava aver assunto il colore della sabbia. Solo di notte, quando una volta lo avevo visto in giardino, aveva gli occhi che ardevano, a ritmo, come il lontano segnale del faro, solo che i suoi occhi erano vicini.

    Brillavano di rosso, almeno così mi sembrava, e sporgevano un po’, quasi come quelli di una lucertola.

    Quando ero bambina, in spiaggia scavavo per ore con la paletta di plastica, finché dal basso l’acqua riempiva il buco. Prendere le meduse con le mani nude e impilarle come gelatina iridescente era per me un divertimento senza fine. Certo, ogni tanto ce n’era una di quelle urticanti che mi faceva piangere per il bruciore, ma il piacere di accatastare quelle masse viscide e lucide, color rosso, giallo e blu, era troppo grande.

    Diventavo triste solo quando il sole cominciava ad asciugarle e le faceva restringere, afflosciarsi e sciogliersi.

    Il fatto che morissero non mi era chiaro, né avevo capito che fossero esseri viventi. Anche se i miei genitori me lo avevano spiegato, per me le meduse non erano veri animali. I cavallucci marini invece sì. Quando ne trovavo uno morto sulla spiaggia, mi mettevo a piangere ancor più amaramente di quando le belle montagne di meduse si scioglievano sotto il sole.

    In quel calore irradiato dalla sabbia, anche nei giorni di maltempo, avrei voluto sotterrarmi. Da allora ho sempre avuto nostalgia di quella sensazione. Mi ricordo di quando, nei primi anni dopo il nostro ultimo soggiorno, chiedevo ai miei genitori quando saremmo tornati sull’isola.

    La risposta era un gelido silenzio. Solo una volta mi avevano risposto: «Non ci piace più quel posto». Non volevano nemmeno più pronunciare il nome di Rönum.

    Ma io non ho mai dimenticato l’isola.

    Invece sarebbe stato meglio se l’avessi fatto.

    ––––––––

    Il corpo l’avevo scoperto quella mattina, subito dopo colazione. Fino ad allora avevo passato una settimana a passeggiare e ascoltare il dolce suono delle onde e la mattina, come da bambina, ero andata a guardare con curiosità che cosa avesse trascinato a terra l’alta marea durante la notte. 

    Avevo sollevato ogni conchiglia immaginando che sotto ci fossero chissà quali meraviglie, poi avevo ributtato in acqua innumerevoli ciottoli lucidi guardandoli andare a fondo. Quando poi in serata era tornata l’alta marea, mi ero piegata incantata sulle mie orme nella sabbia guardando l’acqua salire dalle profondità e riempire le tracce delle dita e dei talloni inghiottendole lentamente.

    Una settimana in cui mi ero anche chiesta, durante i miei vagabondaggi, perché i miei genitori avessero deciso di bandire Rönum dalla nostra vita. Quest’isola era così piena di ricordi per me, ma ogni volta che ne avevo voluto parlare mia madre si era portata il dito alle labbra, aveva chiuso gli occhi e sibilato un shh, finché avevo smesso di chiedere. Essendo una brava ragazza avevo pensato che volessero proteggermi da qualcosa. Ma da cosa volevano davvero proteggermi?

    Qui non c’era nulla di pericoloso o addirittura spaventoso. Nemmeno questa mattina. Camminavo sull’argine, attraverso le dune, lungo la spiaggia, guardando il sole del mattino brillare sulle onde e sulla sabbia bagnata e cercando conchiglie e ciottoli, quando vidi quella specie di manichino portato dalle onde. Giaceva sulla schiena, con i vestiti bagnati, ma immacolati. Mi avvicinai, vidi le mani e il viso gonfi e all’istante mi resi conto che stavo per sprofondare in un incubo.

    ––––––––

    Rönskoog, 27 agosto, ore 00:57

    Rodacher sentì un urlo, spalancò gli occhi e fissò l’oscurità. Il buio sembrava essere stato dipinto con un grosso pennello, senza sfumature né tonalità di grigio, pesante e nero come la pece. Il display della radiosveglia avrebbe dovuto illuminare tenuemente di rosso la camera da letto, inoltre aveva lasciato le tende aperte in modo che il fascio di luce del faro entrasse nella stanza ogni quindici secondi, invece c’era solo un buio senza fine. Impenetrabile.

    Rodacher contò: ventuno, ventidue, ventitré. Il cuore gli martellava nel petto e il respiro era corto e rapido. Sentiva un palpitare nella testa. Ventisette, ventotto, ventinove. Aveva sentito quell’urlo ovattato nel sonno, ma ora era completamente sveglio, fissava il buio assoluto e non riusciva a controllare il respiro che gli faceva battere il cuore all’impazzata. Dalla fronte gli colava il sudore. Trentadue, trentatré. Di nuovo sentì pulsare le vene delle tempie, era il terrore che lo attanagliava.

    Ora non sentiva più nulla, né grida, né altro e nemmeno vedeva qualcosa. Mancavano due secondi al passaggio della luce del faro. Trentaquattro, trentacinque... niente.

    Buio.

    Prese ad ansimare e continuò a contare, ma non apparve nessuna luce. Le mani strette a pugno, le unghie che incidevano i palmi, i tratti del viso si irrigidirono. Sentiva bruciare mandibola e guance. L’aria diventò densa. Gli passarono per la mente due pensieri: era così bagnato di sudore che il pigiama si era incollato alla pelle e... non era nel suo letto. Non c’era dubbio, Rodacher non era affatto sdraiato. Era in piedi.

    Rodacher respirava a fatica e ansimava, incapace di muoversi.

    Poi sentì un altro grido, sordo come il primo, un suono agonizzante, e ormai ne fu certo: il grido veniva dal suo stesso petto. Come quando grido in sogno, ma non è un sogno, pensò, quando improvvisamente tutto si precipitò su di lui. Da tutte le parti qualcosa cercava di afferrarlo, pesante, polveroso, lo graffiava, lo stringeva, gli schiacciava il viso, la bocca e il naso, gli toglieva il respiro, gli avvolgeva le gambe e le braccia. Pezzi di stoffa, da tutte le parti, grossolani, fini, lisci, ruvidi, minacciavano di legarlo e soffocarlo. Rodacher barcollò e inciampò arretrando fino a urtare contro una parete. Poi le urla gli scoppiarono fuori incontrollate con una forza tale da strappargli quasi i polmoni.

    Si agitò selvaggiamente, si impigliò in maniche di giacca, gambe di pantaloni e cravatte. Qualcosa di appuntito lo punse nell’occhio. Gridò di dolore. Voleva gettarsi lateralmente con tutto il peso del suo corpo, ma era bloccato in quella massa di stoffa e tessuti e riusciva solo a

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1