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Lettere a mia nonna
Lettere a mia nonna
Lettere a mia nonna
E-book192 pagine2 ore

Lettere a mia nonna

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Nel più delicato e personale dei suoi libri, la filosofa brasiliana Djamila Ribeiro rievoca l’infanzia e l’adolescenza per affrontare temi quali l’ancestralità nera, la violenza di Stato e le difficoltà di crescere i figli e guardare al futuro in una società strutturalmente razzista. Il racconto prende la forma di lettere alla defunta nonna Antônia – affettuosa e amorevole, conoscitrice di erbe curative e guaritrice molto ricercata. La complicità sempre esistita tra nonna e nipote è ciò che permette all’autrice di ricordare episodi difficili, come la perdita del padre e della madre, le aggressioni subite come donna Nera in Brasile e gli ostacoli vissuti nella vita accademica. Nelle lettere le relazioni amorose, le esperienze professionali, la musica, le letture e le amicizie che hanno accompagnato Djamila Ribeiro nella sua crescita personale si uniscono a una graduale consapevolezza: l’eco delle lotte e delle conquiste delle persone Nere che ci hanno precedute è la forza che ci permette di andare avanti, nel recupero di una memoria e di una genealogia collettiva familiare e degli oppressi che diventa risposta alle sfide del presente.

Traduzione di Alessia Di Eugenio e Nicola Biasio
Postfazione a cura dellə traduttorə e di Francesca De Rosa
LinguaItaliano
EditoreCapovolte
Data di uscita20 nov 2023
ISBN9791280361318
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    Anteprima del libro

    Lettere a mia nonna - djamila ribeiro

    Cara nonna Antônia,

    I ricordi che ho di te sanno di mango verde e torta alla zucca. Hanno il profumo di fagioli e di cena alle sei di pomeriggio. Addolcivi la mia bocca e mi benedicevi l’anima. «Prega, che ti passa». Oppure: «Questa bimba ha l’acquolina in bocca, datele quello che le va di mangiare». Amavo passare le vacanze a casa tua, sentire l’amore nella sua più bella dimensione.

    Conservo nella memoria le carezze, le sgridate di mia madre quando litigavamo, il profumo di Yamasterol sui capelli. Le paghette che mi davi di nascosto, le passeggiate con lo zio Edson. Dato che i miei genitori non avevano la macchina, una delle mie più grandi gioie era sapere che lo zio Edson stava venendo a prendermi a Santos per trascorrere le vacanze con te a Piracicaba. A casa tua, solo chi veniva promosso con buoni voti godeva di questo beneficio. Venivo spesso da sola, senza Denis, Helder e Dara – cosa che, confesso, adoravo, perché senza i miei fratelli vicini potevo averti tutta per me. Quando c’era anche Dara, facevamo a gara non solo per le tue attenzioni, ma anche per vedere chi avrebbe risposto per prima a quel bel telefono che avevi. La vincitrice finiva sempre per prendere in giro la perdente.

    Dato che vivevo in appartamento, adoravo giocare a casa tua, nonna, correre in cortile, salire sugli alberi, scappare dai miei cugini che mi infilavano cicale nelle tasche per farmi paura. «Smettetela di spaventare vostra cugina», dicevi. Ammiravo il tuo coraggio nell’accendere una fiaccola per bruciare il nido che le vespe si ostinavano a costruire all’entrata di casa tua, nel quartiere di São Dimas. «Voglio proprio vedere quanto sarai dispiaciuta quando una di quelle ti pungerà», dicevi quando mi lamentavo per la morte degli insetti. E infatti durante una di quelle vacanze con te venni punta per la prima volta da un’ape. Tornai a casa piangendo e urlando, e tu gridavi: «Che è successo, bambina?». Fu una vera operazione di guerra riuscire a togliere il pungiglione. Poi mi spalmasti un tuo miscuglio di erbe che mi fece sgonfiare rapidamente il braccio e presto ero di nuovo in strada.

    Ricordo le uscite al supermercato, dove potevo comprare tutto ciò che volevo. «La mia nipote di Santos è qui», dicevi alle vicine mentre andavi a comprare il pane. Eri così orgogliosa, così emozionata. Non riuscivi neanche a sgridarmi come si deve. Una volta, quando ero adolescente, mia madre mi beccò a fumare e ne fece un grande dramma. Risposi: «Anche tu fumi, mamma!», e dona Erani non poté controbattere – cosa rara, lo sai bene. Una delle scuse che raccattò fu dire che se tu fossi stata ancora in vita mi avresti fatto una sfuriata. È chiaro che non ti avrebbe fatto piacere sapere che fumavo, ma sapevo anche che mi avresti semplicemente detto di non farlo più. Non mi piaceva fumare, volevo solo seguire la moda delle sigarette al gusto di cannella.

    Dopo essere stata colta in flagrante, trascorsi le ferie a Piracicaba e mia madre incaricò lo zio Edson di rimproverarmi. Il massimo che riuscì a dirmi, mentre lavavo i piatti, fu: «E la sigarettina?». Recepii il messaggio, non risposi e lui non tornò più sull’argomento. Il giorno dopo, io e lo zio decidemmo di mentire e dire, solo per far contenta mia madre, che mi ero sorbita un bel sermone. E mia madre per fortuna non venne mai a saperlo. Dona Erani diceva sempre che riuscivo a fregare tutti.

    Nonna, mi ricordo anche dei tuoi abbracci caldi e amorosi, delle tue mani rapide che benedicevano il mio corpo mentre sussurravi preghiere quasi incomprensibili. Quelle mani che benedicevano erano le stesse che preparavano cibo abbondante e appetitoso la domenica. Che nostalgia delle tue belle mani. Mani che avevano storia e calli ma che erano morbide nell’accarezzare e intrecciare i miei capelli. Oggi cerco di comprendere il significato di un certo mistero che ti avvolgeva. Le storie della buonanotte chi mi raccontavi, così dolci e delicate, contrastavano con quelle che mia madre mi raccontava su di te, storie che parlavano di una donna arrabbiata, che picchiava i figli, che «lanciava tutto quello che aveva davanti a sé». (Inoltre, mia madre detestava il nome Erani Benedita e non si faceva il minimo problema a dirlo. Essere chiamata Ditona durante l’infanzia l’aveva seccata. Insomma, lo sai, mia madre non perdeva mai l’occasione di ripeterlo).

    Quando venivi a Santos per farci visita, nell’attesa quasi non riuscivo a dormire, tanto ero agitata. Com’era bello averti a casa per coccolarci. Nella valigia portavi sempre dei regali per i nipoti, facevi dolci deliziosi per tutti, ti adoperavi affinché nessuno litigasse. La cosa che più mi piaceva era averti vicina mentre mi facevi le trecce ai capelli. Piangevo ogni volta che ripartivi. Ancora oggi per me le partenze sono difficili.

    Succedeva la stessa cosa anche con gli zii Edmilson ed Edson. Dovresti essere felice di sapere che, anche dopo la tua morte, continuavano a venire spesso a Santos per trascorrere le vacanze con noi. Ogni volta che arrivava il momento di partire piangevano, abbracciando mia madre. Lo sai, lo zio Dema e lo zio Edson erano molto legati alla sorella. Erano e lo sono tutt’ora. Ancora oggi, quando mi vedono, si emozionano, dicono di vederla in me. Ne parliamo ogni volta che ci riuniamo, quando riusciamo, oggi sempre meno di prima. La famiglia è cresciuta abbastanza.

    Non sono mai riuscita a chiederti com’è stato crescere sette figli con mio nonno. Com’è stato essere la madre di Edna, di João, di José Roberto, di Erani Benedita, di Avelino, di Edson e di Edmilson. Com’è stato essere la moglie di José dos Santos. Come ti sei sentita nel costruire una buona casa dopo una vita intera passata a lavorare fuori, nelle case di altri. Com’è stato essere la matriarca di una delle poche famiglie nere di São Dimas, quartiere che sarebbe poi diventato di classe media. Come affrontavi il razzismo. Sarà che ci pensavi o sei stata forzata a normalizzarlo? Non ho avuto tempo di chiederti nulla di tutto questo. Quali erano i tuoi sogni, le tue paure.

    Sei stata punta da un bicho-barbeiro¹ e hai dovuto mettere il pacemaker. Con una salute molto fragile, ci hai lasciato a sessantotto anni, con ancora tanto da vivere. Mia madre sarebbe morta otto anni dopo, ancora più giovane di te, a cinquantun anni e ventitré giorni.

    Ho evitato questa conversazione per molto tempo. Confesso che i successivi lutti – mio padre morì un anno dopo mia madre – mi hanno fatto agire quasi in modo automatico. La ferita che sanguina è vecchia, una ferita che è stata aperta anni fa e che non si è cicatrizzata. E ogni volta che sento un dolore simile, anche se proviene da situazioni diverse, il taglio comincia a sanguinare di nuovo, e molto. Ma ora mi sento pronta, nonna.

    La mia difficoltà nell’accettare la tristezza mi disorientava. Piansi per la morte dei miei genitori solo dopo molto tempo. Ricordo che un giorno passò in radio À la claire fontaine e scoppiai a piangere. I versi «Da molto tempo ti amo, mai ti dimenticherò» svegliarono in me tutte le lacrime trattenute, tutto l’amore che aveva bisogno di essere filtrato da acque salate. Non avrei mai dimenticato i miei amori più grandi, ma avevo bisogno di una canzone cantata con dolcezza per ricordarmi che hanno bisogno di essere immortalati senza dolore in eccesso. Visto che lo porteremo per sempre con noi, questo dolore non può farci affondare e dimenticare i ricordi felici. Per non sottrarci a un piccolo sorriso quando ci troviamo a ripetere quello che condannavamo nei nostri genitori. Per poter ridere dei giorni in cui scampavamo alle botte. Per poter riprendere il libro di ricette ogni volta che ci assale quella nostalgia di svegliarci con il profumo delizioso del pane sfornato in casa. Per richiamare alla memoria i giorni in cui ci svegliavamo presto per passare la giornata in spiaggia con mio padre.

    Al funerale di mia madre, la mamma di un’amica mi disse: «Non piangere, devi essere forte per i tuoi fratelli». So che non lo disse con cattiveria, ma quanto è crudele dire a una giovane di vent’anni che non può piangere la morte di sua madre? E in più: che deve essere forte?

    Questa immagine della donna nera forte è molto crudele. Le persone si dimenticano che non siamo naturalmente forti. Dobbiamo esserlo perché lo Stato è negligente e violento. Restituire umanità significa anche assumere fragilità e dolori propri della condizione umana. Siamo rese subalterne o siamo dee. Io chiedo: quando saremo umane?

    Mi sono chiusa molte volte in bagno a piangere perché non mi sentivo a mio agio nel farlo di fronte ad altri. «Non piangere, non piangere, non fare così», avrebbero detto se mi avessero vista in quello stato. C’è un insopportabile obbligo alla felicità. Un insopportabile obbligo alla forza.

    Generalmente alle persone non interessa chiederci dove e come sentiamo dolore, visto che credono già di conoscere l’antidoto contro la sofferenza o semplicemente ritengono che non ci sia bisogno di sentirla. Una delle poche volte in cui mi sono aperta e ho parlato del mio dolore, mi sono sentita dire da una vicina che «la vita è dura per chi è debole». Ero molto giovane, ma ho sempre saputo riconoscere l’indifferenza. L’indifferenza ad altre realtà e vite che non erano iniziate con odore di talco e letti comodi. La tua vita è stata dura, nonna, ma eri tutto fuorché debole. Sei riuscita a far sgorgare amore attraverso le fessure del concreto e rendere possibile un mondo senza disgusto per una bambina nera che cercava il senso della vita. Ma sarebbe stata una perdita di tempo spiegare alla vicina che non eravamo noi le responsabili della durezza della vita, occupata com’era con le offerte del supermercato e senza neanche la voglia di accennare a un banale passerà.

    L’altra occasione in cui ho tentato di parlare delle mie sofferenze è stata al centro spirituale che frequentavo, uno spazio molto importante nella mia vita. Ci arrivai attraverso un’amica di scuola di quando avevo diciassette anni. Frequentai la Gioventù Spirituale e la Escola de Aprendizes do Evangelho, trovando riparo spirituale per un po’ di tempo. Quando mia madre morì, nonna, cercai una delle dirigenti del centro per parlare. Le raccontai delle difficoltà che stavo affrontando, della tristezza che sentivo e di come, con il rientro di zia Edna a casa sua (dopo alcuni mesi in cui si prese cura di me e dei miei fratelli), tutto era davvero troppo difficile per i miei vent’anni. Lei ascoltò con attenzione, mi diede dei consigli ma, forse, avendo io dei problemi così lontani dalla sua realtà, finì per cadere nel luogo comune: «Se la vita ti dà limoni, fanne una limonata».

    Sappiamo, nonna, che nella nostra famiglia le donne hanno già fatto caraffe intere di limonata con solo mezzo limone – come quel detto popolare che dice di aggiungere acqua ai fagioli. Il nostro popolo ha inventato la feijoada con gli scarti del maiale e l’ha trasformata nel piatto più conosciuto del paese: una specie di miracolo della moltiplicazione. Non nego la genialità della creatività, ne sono grata; metto però in discussione questa fissazione per la scarsezza.

    In qualche modo capii che la risposta della dirigente del centro spirituale assomigliava molto a quella data dalla mia vicina: difficile. Le persone sono abituate a ripetere frasi d’effetto pensando di dispensare pillole di saggezza. Invece tutto quello che desideravo – e di cui avevo bisogno – era qualcuno che mi potesse dedicare alcuni minuti prima di tornare metodicamente ai suoi impegni e che mi dicesse semplicemente: «Piangi, non c’è nulla di male nell’essere tristi»; o semplicemente di mani che mi concedessero un abbraccio in silenzio, accogliendo i miei singhiozzi mentre buttavo fuori il mio dolore e la mia nostalgia.

    Invece, al contrario, quello che vidi fu la crudeltà di aspettarsi che una giovane di vent’anni fosse forte nel giorno in cui doveva dire addio a sua madre. Ho imparato a non piangere per non disturbare, a controllare le lacrime in pubblico – fino al punto di farle seccare tutte, anche per me stessa. Ho creduto di dovere essere forte e mi sono rifiutata di entrare in contatto col dolore.

    Nonna, confesso che dopo che te ne sei andata ho perso un po’ la voglia di andare a Piracicaba. Sono tornata solo tre anni dopo, ed è stato difficile passare davanti a casa tua e non piangere. Renata, la figlia di zia Edna, è rimasta a vivere lì. Ancora oggi ho paura di entrare e non vedere più il luogo che mi ha accolta con tanto amore – e per questo non sono mai più andata a visitarlo. Vado dai miei zii, ma non riesco a entrare in quella bella casetta bianca nel quartiere di São Dimas. Preferisco mantenere intatte le memorie dei giorni trascorsi ad annusare il profumo del boldo, a sentire la terra umida del cortile sotto i piedi quando pioveva e il gusto della torta alla zucca la domenica. Non voglio neanche chiederti che ne è stato dell’albero di mango. È lì che ritorno nei miei giorni tristi.

    Quante storie avrei potuto conoscere, quanti abbracci mi sono persa. Ma soprattutto, quanto non ho conosciuto di te e di dona Erani come donne, al di là del ruolo di nonna e madre. Non ho avuto tempo di raccontarvi delle mie frustrazioni d’amore, di mostrarvi quanto mia figlia, Thulane, assomigli a voi due. Eppure credo che raccontare la mia storia sia un modo di rivivervi, di mantenervi vive. Voglio scrivere di te, nonna, e raccontare quello che

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