Il coraggio di sognare
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Anteprima del libro
Il coraggio di sognare - Loreta Venturoli
Loreta Venturoli
Il coraggio di sognare
© 2023 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-3423-1
I edizione marzo 2023
Finito di stampare nel mese di marzo 2023
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
Il coraggio di sognare
A mia figlia Antonella
A Sandro e Livia
Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
Com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
Balenando in burrasca.
Gabbiani
di Vincenzo Cardarelli
(in Poesie, Mondadori 1942):
Prefazione
Sono nata a Budrio, in provincia di Bologna. Ho vissuto i primi anni della mia vita in un casolare di campagna, immersa nel verde dei prati e cullata dal fruscio delle fronde del salice piangente.
Sono cresciuta avvolta nell’amore dei nonni, ma intrappolata nelle regole e nelle costrizioni.
Eppure, io sono nata libera. Questa libertà l’ho riconquistata, passo dopo passo, nel corso del cammino che mi accingo a raccontarvi. Un cammino impervio, ricco di ostacoli e iniziato in tenerissima età, al momento della scelta del mio nome: Loreta, un nome bellissimo e forte, che rivela, però, l’incapacità dei miei genitori di accettare con gioia una figlia femmina. Dovevo essere maschio.
Mi volto indietro, come ogni tanto si fa, e rivedo la mia vita come fosse un film. Mi accorgo che, nonostante tutto, con fatica ho superato ogni stallo, delusione, tristezza. Con gioia ho costruito una vita di passioni e d’amore.
L’essenza della libertà che era in me nei miei primi anni non è andata definitivamente perduta. Il destino ha reso difficile, ma non impossibile, la sua piena realizzazione. Quasi a mia insaputa mi sono riscoperta una donna forte e impegnata. Mi sono ritrovata musicista, mamma, pittrice, segretaria, naturopata, shiatsuka. E finalmente, fra queste maschere che nel corso della mia storia ho indossato, è riemerso un barlume di quella libertà che ormai credevo perduta per sempre.
Mossa dal sogno che da anni tenevo nascosto dentro al mio scrigno di legno, ho infine deciso di raccontare questa storia. A dir la verità, ho sempre scritto per me, di me, dei miei sogni e dei miei desideri. In soffitta ci sono, accatastati e ingialliti dal tempo, quaderni pieni di pensieri e parole nati da un momento di sfogo o di gioia, di paura o di risentimento, e di poesie, nate dall’immediato istinto di tensione creativa...
Ogni tanto salgo in soffitta, apro la cassapanca impolverata, mi metto a sedere isolata dal mondo a rileggere i miei scritti: semplici frasi, appunti di ribellione o invece lamenti gettati sulla carta con rabbia e rancore...
Ultimamente ho scoperto una cosa di cui non mi ero accorta prima. Ho scoperto, cioè, che dalle righe dei miei scritti emergeva potente l’esigenza di comunicare al mondo le mie esperienze di vita, di lavoro, di forza, affinché qualcuno ne potesse beneficiare. Sono una pittrice. Avrei dunque potuto tracciare su tela questa storia, come in un certo senso ho fatto molte volte. Ho scelto di scrivere, però, perché i libri mi sono stati sempre di grande aiuto. Dai grandi classici e dalle acute riflessioni di autori contemporanei ho imparato il coraggio, la fragilità, la speranza, il dolore. Grazie a essi ho appreso molto, facendo tesoro di quanto letto per affrontare gli scogli della mia vita.
All’inizio e alla fine di ogni mia giornata recito le mie preghiere buddiste, dedicando ogni volta un pensiero a un desiderio che da sempre risiede nel profondo del mio cuore: il desiderio di poter aiutare in ogni modo le persone in difficoltà. Nel mio piccolo cerco abitualmente di rendermi utile al prossimo e ne ricavo tanta gioia, rispetto e amore da ognuno di loro.
Così ho pensato di scrivere ancora, ma con una grande novità. Questa volta non scrivo per me stessa, per scoprirmi e scovare i miei segreti, o per liberarmi depositando su carta le mie angosce e le mie paure.
Scrivo per altri, nella speranza che ignoti lettori possano trarre dalle mie parole coraggio e ispirazione. Se anche una sola persona, leggendo queste pagine, sarà più tenace nell’affrontare i suoi problemi, piccoli o grandi che siano, la mia fatica di raccontarmi non sarà stata vana. Narro la mia storia sognando che, con profondità e serietà ma con un velo di sorriso accennato sulle labbra, qualcuno possa pensare: io ce la farò.
Dedico queste mie pagine alla mia adorata figlia Antonella.
Dedico questo libro anche ai miei amici Sandro e Livia Maccagnani, che ringrazio di cuore per aver creduto in me dandomi l’opportunità di realizzare il mio sogno.
Ringrazio infine la mia editor, che mi ha accompagnata lungo questo cammino tenendomi per mano, insegnandomi tante cose e dando vita al mio racconto.
Capitolo primo – All’ombra di un salice
Ricordo ancora l’enorme, solida casa in cui ho vissuto i miei primi anni di vita. Fondata a fine Ottocento, essa si trovava nei pressi di Budrio, in Via di Biscie Martella.
Era una di quelle case di una volta, nelle quali abitavano grandi famiglie i cui membri si aiutavano l’un l’altro: prima i nonni, poi i figli e i nipoti vi hanno risieduto. Vivevamo una vita racchiusa e familiare, al margine del paese. Adesso in meridione esistono ancora famiglie come la mia di allora ma qui, dalle mie parti, sono perlopiù sparite. È un peccato, perché questi quadri parentali infondevano tranquillità e sicurezza, soprattutto nei giovani.
Una foto ingiallita rende indelebile la presenza dei molti famigliari che ruotavano attorno alla casa.
La guardo, e mi pare di esser lì. Una trentina di persone sono riunite davanti alla facciata della casa. L’intonaco scrostato lascia emergere gli antichi mattoncini, forse rossi o color ocra. Una grande pianta d’edera s’arrampica e raggiunge le finestre del piano superiore. Ci sono il nonno, la nonna e mio papà. Ci sono ragazzi e ragazze, bambini di ogni età, giovanotti baldanzosi e donne fiere e sorridenti.
Una neonata è cullata tra le braccia di una donna che indossa un grembiule, mia mamma.
Devo essere io.
Era una casa bella, con una grande aia, con un prato enorme e un salice piangente ancora impresso nella mia memoria. Dietro al salice il pollaio, il macero e, sulla destra, una grande stalla.
Il nonno Amedeo, il padre di mio padre, viveva lì con i suoi tre figli. Cresciuto tra le due sorelle, mio padre, unico maschio della casa, ricevette un’educazione signorile che lo rese poco incline al lavoro e alle responsabilità della vita. Mio padre non conosceva un mestiere; e nemmeno mia madre.
È nell’enorme casa di campagna che, nel 1951, sono venuta alla luce. Erano anni molto faticosi, la Guerra era finita da poco. Sono cresciuta in una famiglia campagnola. Non eravamo però contadini, perché il nonno commerciava in tori da monta, mucche e cavalli. Eravamo un po’ più agiati della media, e conosciuti in paese perché il nonno era solito andare al mercato a comprare e vendere animali. In quel periodo c’era possibilità di crescita sociale, fervore, interesse, che però riguardavano prevalentemente chi già era in una buona posizione economica e sociale. Noi fummo più sfortunati e, al contrario di molti in quel periodo di boom, dovemmo affrontare un tracollo dovuto a una brutta malattia che colpì il nonno.
I ricordi che ho di quella casa sono sfumati. Pochi, più che altro fugaci impressioni e sensazioni, sono i miei; gli altri li ho costruiti nel tempo, ascoltando i racconti dei nonni e dei miei genitori.
Quando, più avanti, ci trasferimmo tutti a Bologna, la nonna Adelina non faceva che ricordare la sua vita di campagna. Pregandomi di non diffondere il suo segreto, mi confessò quanto le mancasse la sua casa di Budrio, immersa nel verde.
Era la casa nella quale aveva vissuto con il nonno, anche se per breve tempo, e nella quale vide i suoi tre figli sposarsi. Fu lì che le due figlie e la nuora, mia madre, partorirono le mie due cugine e me.
La nonna chiudeva gli occhi e riviveva gli istanti più belli di quella vita passata. Ricordava la campagna e le lacrime affioravano sul suo viso, dense di nostalgia.
Mi raccontava di quando si svegliava all’alba per preparare la colazione al nonno. Prima di scendere le scale, mi prelevava dalla culla mentre la mamma ancora dormiva. Ero solita piangere tutta la notte tenendo tutti svegli. Così, per lasciar riposare un poco i miei genitori, la nonna mi prendeva in braccio e mi portava con sé in cucina, nel silenzio della casa addormentata. Con un braccio mi cullava, e con l’altro preparava la colazione del nonno. Poi lui arrivava e mi prendeva sulle sue ginocchia. Quando aveva finito di mangiare, la nonna mi riprendeva in braccio e assieme andavamo a scrutare il mondo che ci circondava. E così, a mia insaputa iniziai a conoscere quella casa grande, robusta e accogliente, la sua edera che si arrampicava sul muro formando dei graziosi ghirigori, il salice piangente che mi cullava con lo stormire delle sue foglie a ogni alito di vento, e gli uccellini che mi hanno sempre cantato con il loro cinguettio la più dolce ninna nanna... poi mi portava a vedere i cavallini appena nati o i vitellini di pochi giorni e me li faceva toccare con le mie manine; andavamo dalle galline poco distanti dal salice e dai pesciolini rossi che babbo aveva vinto alla festa del paese e buttato poi nel macero, sapendo che lì avrebbero vissuto bene.
In questa bucolica cornice di ricordi altrui rivedo, a distanza di quasi settant’anni, i momenti della mia prima infanzia. Tutto, in quella campagna, ha tracciato a mia insaputa un solco di letizia dentro di me, ha indirizzato i miei sogni, cullato le mie speranze, annebbiato le mie paure. I primi affetti, i primi giochi, le prime emozioni e paure hanno avuto luogo nel casolare di Budrio così come l’ho edificato nella mia memoria.
Ciò che sarei divenuta in futuro, nella mia vita dedita all’amore e all’aiuto del prossimo, è originato lì, in quegli anni. Le mie forti radici corrono sotterranee a fianco alle radici centenarie del salice piangente.
Iniziai da subito ad aggrapparmi alla vita.
Il luogo fatato in cui nacqui fu il primo teatro delle mie mille scoperte.
Da quando, guidata dalla mamma, poggiai per la prima volta il mio piccolo piede sul suolo scosceso della campagna budriese, iniziai a camminare. Avevo soli nove mesi.
Non imparai prima a gattonare e poi a camminare, come ci si aspetterebbe da una bimba di quell’età. Mossa già da un’ardente sete di avventure, imparai subito ad andare spedita sulle mie gambine per i prati, cullata dal vento di libertà che già soffiava dietro di me, dispiegando le mie ali.
Lì iniziò, in tenerissima età, l’esplorazione del mondo. Trotterellavo e scappavo; mi perdevo a giocare nell’aia, o all’ombra del salice, o ancora nelle mille stanze o nella campagna vicina. Il primo contatto dei miei sensi col