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Per una fetta di mela secca
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Per una fetta di mela secca
E-book182 pagine2 ore

Per una fetta di mela secca

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Info su questo ebook

Fra l’inizio degli anni Quaranta e quello degli anni Ottanta del XX secolo, in Svizzera vigeva la prassi di affidare, d’ufficio e contro la volontà dei diretti interessati, bambini e giovani a istituti o contadini. I numerosi collocamenti che avvennero in quel lunghissimo periodo interessarono bambini provenienti da famiglie povere, figli illegittimi o appartenenti a situazioni familiari precarie, ragazzi considerati difficili, scomodi o ribelli. Molte delle vittime di tali decisioni di collocamento coercitivo sono state mandate a servizio, sfruttate in aziende agricole, internate in istituti psichiatrici o penitenziari, maltrattate, sottoposte ad adozioni forzate o hanno subito (spesso a loro insaputa) sterilizzazioni.

“Per una fetta di mela secca” racconta la storia di una di questi bambini: Lidia Scettrini. Un nome e una storia di fantasia utilizzati per raccontare quella che è stata la storia di molti.

In seguito al divorzio dei genitori, Lidia resta a vivere con sua madre a Cavaione (un piccolo borgo della Svizzera orientale). Stanca delle prese in giro da parte di alcuni dei suoi compagni un giorno ruba la merenda a Piero. Accusata dai genitori di lui e a causa della povertà in cui lei e la madre vivono, viene mandata in istituto, dove subirà maltrattamenti da parte di alcune delle suore che lo gestiscono e sarà poi data in affidamento a un contadino. Nella nuova “casa” c’è anche Anne, la moglie malata e costretta a letto del contadino, unico spiraglio d’amore per Lidia. Alla morte di Anne, Lidia, ormai diciannovenne e prossima alla maggiore età, può finalmente liberarsi dall’orrore di quella vita e tornare a Cavaione. Da questo ritorno al villaggio, che ormai non sente più suo, parte il tentativo di rifarsi una vita. Con non poche difficoltà costruirà una nuova sé cercando di tenere a bada il dolore dei ricordi.
Nel 2018 e in seguito all’istituzione del fondo di solidarietà istituito dalla Confederazione e dai Cantoni a sostegno di ex vittime delle cosiddette “misure coercitive a scopo assistenziale”, Lidia si troverà a dover compilare il modulo di richiesta, rievocando tutto ciò che le è stato rubato e scoprendo in sé la forza di vivere il presente.

LinguaItaliano
Data di uscita17 mar 2020
ISBN9788831285049
Per una fetta di mela secca
Autore

Begoña Feijoo Fariña

Begoña Feijoo Fariña. Nata a Vilanova De Arousa (Galicia, Spagna) il 7 marzo 1977, a 12 anni si trasferisce in Svizzera, dove tuttora vive. Dopo la laurea in Biologia, lavora per alcuni anni in ambito entomologico.Nel 2015 abbandona definitivamente la professione di Biologa, lascia il Ticino e si trasferisce in Valposchiavo. Da allora si dedica quasi esclusivamente a teatro e scrittura. È cofondatrice della compagnia teatrale inauDita, per cui si occupa prevalentemente di drammaturgia e regia.Ha all’attivo due romanzi: Abigail Dupont (Demian edizioni, Teramo, 2016) e Maraya (AUGH!, Viterbo, 2017). Suoi racconti sono stati pubblicati su Almanacco del Grigioni Italiano (Almanacco del Grigioni Italiano 2018, pp. 128-130) e Carie Letterarie (Speciale bianco e nero, ottobre 2019, pp. 42-46).Nel 2018 ha vinto la borsa letteraria di Pro Helvetia e il Concorso Grandi Progetti del Cantone dei Grigioni, entrambi riconoscimenti per il progetto di questo romanzo. Sempre per questo progetto è stata ospite della Residenza Franz Edelmaier per la letteratura e i diritti dell’uomo (Merano, Italia).È presidente della sezione Valposchiavo della Pro Grigioni Italiano e direttrice artistica della stagione teatrale I MONOLOGANTI di Brusio (Grigioni).

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    Anteprima del libro

    Per una fetta di mela secca - Begoña Feijoo Fariña

    Sono stata seminata al confine fra il bosco e la radura, in una notte di fine febbraio, poche ore dopo quella che sarebbe stata l’ultima neve della stagione. La notte in cui i miei genitori mi concepirono, un vecchio e solitario camoscio si era spinto in basso, a pochi metri dal loro piccolo orto. Se il motivo di quel viaggio giù per i pendii fosse stata la fame o la curiosità non mi è dato di sapere, così come non dovrei sapere ciò che accadde dopo. Eppure, lo so. Mi venne raccontato quand’ero molto piccola, come si raccontano le favole ai figli, quando si è capaci di leggere. Oppure le si inventa. Mia nonna era bravissima in questo, o almeno così diceva papà. A me non ne ha raccontate mai.

    Certo è che fu la curiosità di mia madre e di mio padre a portarli fino a quel confine con il bosco buio e fitto. Mossi dal desiderio di vedere ancora l’animale solitario, uscirono di casa nella notte e camminarono, percorrendo lentamente in salita i prati, che d’estate s’indorano e si falciano. La neve soffice, caduta poche ore prima, rifletteva la luce della luna quasi piena. Si tenevano per mano e di tanto in tanto i loro sguardi di poco più che fanciulli e innamorati si posavano uno dentro l’altro, portando l’incedere dei piedi a rallentare. Arrivati al confine con il bosco, attesero in silenzio un rumore, mentre con gli occhi cercavano fra gli alberi un movimento che dicesse loro sono io, sono qui, guardatemi. Quel movimento non ci fu ma ci fui io. Non volendo rincasare subito, e nonostante il freddo, tuo padre decise di darmi il seme da cui saresti nata e io lo accettai e cominciai ad avere cura di te, come si fa con i germogli nell’orto in primavera. È con queste parole che mia madre finiva il racconto che ogni sera le chiedevo di ripetermi. Capitava talvolta che aggiungesse dettagli che non avevo mai sentito o non ricordavo. Allora io, come spesso fanno i bambini, dicevo non è così la storia. Lei mi guardava con i suoi grandi occhi sorridenti, cercando di restare seria e mi sfidava. Ah, sì? diceva E com’è allora? Dai raccontamela tu. In quelle occasioni ero io a raccontare a lei la storia della mia semina e lei ascoltava attentamente, come se la storia che stavo raccontando non fosse la sua, come non l’avesse mai non solo vissuta ma neanche sentita.

    Sono stata seminata con la neve, dunque. Ed è con la neve che sono nata. Ebbi fretta di venire al mondo e nacqui prima di quando mi si aspettasse, prematura come quella neve di inizio novembre. Nacqui in casa, riscaldata dal fuoco del camino e accolta alla vita dalle urla di mia madre non ancora ventenne. Poche ore dopo giacevo addormentata sul suo petto sotto calde coperte, cullata dalla sua voce e dal fischio del vento fra i rami spogliati dall’autunno. Mio padre mi rivide solo dopo tre giorni. Tanti furono infatti i giorni che stette fuori casa. Festeggiò la mia nascita da solo, senza me e senza la sposa che gli aveva dato quella figlia che avrebbe voluto maschio e nacque femmina.

    Venne riportato a casa da un gruppo di uomini che mia madre conosceva bene. Abbandonato sulla soglia un secondo dopo aver bussato con forza nella notte, come si farebbe con un messaggio che si è costretti a recapitare controvoglia. Mio padre cadde a terra appena la porta si aprì e mia madre, ancora esausta e con me in braccio, lo trascinò vicino al fuoco che ardeva nel camino e là lo lasciò, ubriaco e addormentato. Il mattino dopo, quando ci svegliammo, lui era sotto le coperte insieme a noi e la nostra vita insieme poté iniziare.

    Non so dire se sia stato felice o tormentato, quel primo anno di vita. Non ne ho ricordo e quasi nulla mi venne raccontato. Mio padre scendeva a Brusio ogni mattina e rientrava a casa solo all’ora di cena. Io e la mamma stavamo molto tempo sole. Mi amava e il mio cuore di cucciolo imparava ogni giorno ad amare lei un po’ di più. Sono stata ben nutrita, cullata, lavata nell’acqua calda ogni sabato sera e baciata ogni mattina. Non ne ho memoria ma lo so. Poi venne il tempo delle prime camminate e dei ricordi che si fissano e sopravvivono all’usura degli anni e all’accumulo di altri ricordi.

    Nel nido, dentro alla loro casetta di assi e pietra, le galline ci facevano trovare talvolta due e talvolta anche sette uova. La più bella fra loro, che all’età di quattro anni battezzai con il nome di Dadina, era rossastra e grossa più del gallo di Padre Pietro. Morì una sera d’estate, uccisa dalla volpe, ma non senza combattere. Trovammo infatti la volpe, a pochi metri da casa, agonizzante. Giaceva sopra una piccola chiazza rossa, formata dal sangue rappreso che aveva perso nelle ore notturne. Non la piansi, Dadina. Mamma mi disse che quello era il destino di tutti, animali e uomini. Vivere e morire. Così non la piansi, ma per molti giorni mi capitò di cercarla prima di ricordare che non c’era più e allora, in quei momenti di nuova scoperta dell’assenza, il mio viso smetteva di sorridere e sentivo qualcosa a cui ancora non sapevo dare un nome.

    L’avrei scoperto in seguito, il nome di quella sensazione. Era tristezza, simile a ciò che avrei provato anni dopo quando, risvegliandomi al mattino o nel cuore della notte, ci avrei messo qualche secondo prima di ricordare dov’ero, qual era la mia nuova vita e quale la nuova assenza dolorosa.

    Una sera di cinque anni dopo quel seme piantato, papà non rincasò. Aspettammo a cenare fino a molto tardi. Poi io mangiai e aspettò solo mamma, dopo avermi rimboccato le coperte e baciato la fronte. Aspettò inutilmente perché quella notte papà non dormì in casa. Oggi so dove dormì. Oggi che non ha più importanza. Oggi che ho perdonato, quasi tutto.

    Poi ci fu la partenza per il lavoro in Ticino, gli arrivi di sabato pomeriggio e le ripartenze la domenica dopopranzo. Due pasti da consumare con papà. Gli altri erano solo nostri. Fra tutte le compagnie che potevo avere a Cavaione preferivo quella di mamma e delle mie galline. Aiutavo mamma nell’orto, in cucina e, seduta accanto al camino, nel rammendo. O almeno così credevo, perché era lei a farmelo credere. Era brava mamma a farmi sentire utile e stare buona. Papà tornava sempre meno. Una domenica ogni tanto. Arrivava di mattina, pranzava con noi e ripartiva. Non baciava più la mamma e la mamma non lo guardava più sorridente e a testa alta. Poi semplicemente smise di tornare. Lo vidi il giorno del mio quinto compleanno e fu allora che sentii quella parola. Per le volte udita fuori dalla chiesa, per gli sguardi bassi della donna cui era rivolta e per come i suoi figli erano diventati ogni giorno più tristi, anche solo il suono mi faceva vergognare. Poi la donna se n’era andata da Cavaione e quella parola non l’avevo sentita più. Fino al giorno del mio quinto compleanno. E fu papà a pronunciarla, seduto sul letto in cui ero nata, mentre spiavo dal buco della serratura. Divorzio. Mamma non disse nulla. Credo ci siano cose per cui una donna sa di non dover spendere se stessa. L’uomo è braccio, è forza, è soldato ed è cacciatore. L’uomo combatte, urla e batte i pugni, a volte, per difendere le sue ragioni, anche quando vincere è impossibile. La donna no, o almeno non mamma. Mamma sapeva capire quando lottare non sarebbe servito e non lottò. Disse solo vattene e fu con quel vattene che iniziò a sfilarsi la corda che ci teneva unite. Ma la colpa non fu del Vattene e non fu nemmeno del Divorzio. La colpa fu di tutti ed essendo di tutti non fu di nessuno.

    Sono stata seminata con il freddo e con il buio ed è con il freddo e con il buio che avrei dovuto fare i conti per molto tempo.

    Indice

    Indice

    Dodici anni prima che mamma morisse

    I

    Arrivo a casa di corsa, dopo scuola, e piango. Mamma interrompe il suo lavoro a maglia e mi guarda. I suoi occhi chiedono perché piangi? ma la sua testa forse già lo sa perché la bocca dice solo non li devi ascoltare, vieni qua e mi prende in braccio. Stiamo in silenzio per un po’, la mia testa appoggiata al suo petto. Stare così, abbracciata a mamma, è la cosa più bella del mondo. Sento il suo cuore battere sotto il mio orecchio destro, mentre la sua mano accarezza piano le mie.

    La scuola è iniziata solo da poche settimane e io, che non vedevo l’ora di andarci, già non la sopporto più. I bambini grandi se ne fregano di me. Non mi guardano mentre percorro la strada fino a scuola e non mi prendono in giro quasi mai. Sono piccola e come me ce ne sono altri. Fra tutti Piero è quello che detesto di più. Eravamo amici e ora mi rende la vita impossibile. Maestro Lidia di qua e maestro Lidia di là. Sbaglio di continuo e il maestro mi mette in punizione quasi tutti i giorni. Quando usciamo non mi avvio subito verso casa, anche se Renata non vuole giocare più con me. I primi giorni stavamo sempre insieme poi sua madre l’ha chiamata un giorno che, mentre tornavamo a casa, ci siamo fermate a giocare con i sassi. Avevamo ricostruito la classe. Il maestro era il sasso più grande e Renata lo imitava facendo la voce grossa. I sassi più piccoli eravamo noi bambini, fra loro ne avevamo scelti due davvero belli. Uno era Renata e l’altro ero io. Ma poi sua madre l’ha chiamata. L’ho vista dirle qualcosa, ho visto Renata provare a ribattere e poi essere trascinata per un braccio dentro casa. È stata l’ultima volta che abbiamo giocato insieme. Ma ho altre amiche e anche se giocare con Renata mi piaceva, va bene così. A volte però mi fanno piangere lo stesso.

    Stando in braccio a mamma mi tranquillizzo e dopo un po’ dice vai a prendere i tuoi aghi. Sto imparando a fare la maglia anch’io. Così ora stiamo sedute una accanto all’altra. Lei fa una giacca per me e io una sciarpa per lei. Sono dello stesso colore, la lana l’abbiamo presa da un maglione che papà ha lasciato qui. Tanto non verrà di certo a riprenderselo ha detto. L’abbiamo disfatto e abbiamo creato delle piccole matasse rotonde e dure. Non credo che la lana di un maglione di papà possa bastare a fare una sciarpa per la mamma ma lei dice di non preoccuparmi, che anche se sarà corta la userà lo stesso.

    Dopo cena la aiuto a lavare i piatti e andiamo a letto. Da alcuni giorni abbiamo ripreso ad accendere il fuoco nella stufa, anche se il mucchio della legna è sempre più basso e non c’è papà a tagliarne di nuova. Mamma sa farlo. Bisogna solo far arrivare qui i grossi tronchi, poi ci penso io ha detto. Gli ultimi scoppiettii mi accompagnano mentre mi addormento, disturbata dall’immagine di Piero che canticchia divorziata, divorziata mentre giochiamo a nascondino e di me che scappo piangendo su per il sentiero e fino a casa. Allora decido che domani glielo faccio vedere io, non me lo deve dire divorziata. Io non sono divorziata. Lui è stupido e non lo sa ma è la mia mamma a essere divorziata e non è nemmeno colpa sua. È papà che l’ha deciso, ho sentito il maestro che ne parlava con la mamma di Renata e ha detto così. Non è colpa sua, ha detto.

    La colazione ha un gusto diverso stamattina. Niente paura di andare a scuola. La decisione presa ieri sera mi fa sentire forte. Inzuppo il pane nel latte caldo e penso che il pane di segale della mamma è il più buono del mondo. Lei ride quando dico è il pane di segale più buono del mondo. Mi racconta di come quel pane sia stata la prima cosa che ho mangiato. Non il latte, mamma? le chiedo. No, il latte non conta. Quello lo prendevi qui, dal mio petto. Poi m’infila giacca e cappello e mi manda a scuola. Mentre cammino giù per il sentiero penso ancora al suo pane di segale. Ho mangiato il pane di nonna, l’estate che era venuta a trovarci, e non era buono come il suo. Ho mangiato il pane della mamma di Piero e anche quello della mamma di Sergio. Niente. Nulla a che fare con il pane di mamma che è il più buono del mondo e basta.

    A lezione spio Piero tutto il tempo e quando va alla lavagna prendo di nascosto dalla sua borsa il fazzoletto dove tiene la merenda. Dentro c’è solo una fetta di mela secca. Probabilmente si è mangiato tutto il resto strada facendo. Lo odio. Sto per rimettere il fazzoletto nella borsa quando si gira per tornare al posto, allora lo nascondo velocemente in tasca. Uno dei bambini grandi mi sta guardando, non ricordo il suo nome. Ancora non li ho imparati tutti. Piero si siede, la lezione finisce e usciamo tutti fuori. Io esco lentamente, Renata gioca con Elda come fino a pochi giorni fa giocava con me. Me ne sto lì a guardarle e ho voglia di piangere. Vedo Piero parlare con il maestro, mi guardano e iniziano a camminare verso di me. Vorrei scappare ma queste gambe non si muovono. Correre. Andare a casa. Dire mamma ed essere protetta dal suo abbraccio. Dire mamma ed essere baciata sulla fronte. Dire mamma e finire la sciarpa che

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