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Nada il giglio
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E-book326 pagine5 ore

Nada il giglio

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Info su questo ebook

Pubblicato per la prima volta nel 1892, "Nada il giglio" è uno dei romanzi in assoluto più famosi di H.R. Haggard. Incentrato sulla figura semi-storica di Umslopogaas, figlio del celebre re Chaka Zulu (1787-1828), il romanzo è chiaramente ispirato alla lunga permanenza in Sudafrica dell'autore, con la particolarità di narrare una storia con soli personaggi africani. Il principe Umslopogaas è innamorato della donna più bella fra gli Zulu, Nada appunto, la quale è soprannominata "il giglio": in un tripudio di magia tribale e spiritismo – che rispondono, chiaramente, al gusto vittoriano per l'esotico e il misterioso – il romanzo rappresenta non solo una storia estremamente affascinante, ma anche l'istantanea di un mondo remoto, tanto nel tempo quanto nello spazio.
LinguaItaliano
Data di uscita28 nov 2022
ISBN9788728514924
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    Anteprima del libro

    Nada il giglio - Henry Rider Haggard

    Nada il giglio

    Translated by Alfredo Pitta

    Original title: Nada the Lily

    Original language: English

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1948, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728514924

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    NADA IL GIGLIO

    INTRODUZIONE

    Anni ed anni or sono — fu durante l’inverno che precedette la guerra detta degli Zulù — un europeo viaggiava nel Natal. Aveva due carri carichi di merci che portava a Pretoria. Il tempo era freddo, e vi era scarsissima erba per i buoi, il che rendeva il viaggio penoso e difficile; ma egli era stato indotto a tentarlo dagli alti prezzi dei trasporti che si facevano in quella stagione dell’anno, e che lo avrebbero compensato di una eventuale perdita di bestiame. Così continuò, nonostante quelle difficoltà.

    Tutto andò bene fino a quando egli non fu giunto a Stanger, cittadina che era stata il kraal, o villaggio, di Ciaka, primo re degli Zulù, il quale era stato chiamato appunto «il Napoleone degli Zulù»: uomo di straordinario ingegno e insieme di una ferocia e di una crudeltà inaudite. Ma nella sera seguente alla sua partenza da Stanger il cielo si coprì di nuvole bianchicce, e l’aria divenne gelida.

    «Se non fossi nel Natal, direi che sta per cadere molta neve — pensò l’europeo. — Spesso ho visto in Iscozia un cielo simile, proprio quando stava per venire una tempesta di neve».

    Ma poi riflettè che da anni non v’era stata che pochissima neve nel Natal; e quindi, dopo aver cenato e fumata la pipa, se ne andò a dormire sotto la tenda attaccata alla parte posteriore di uno dei carri.

    Durante la notte fu risvegliato da una viva sensazione di freddo e da qualche breve muggito dei buoi. Sporse la testa fuori della tenda e vide che tutto il terreno intorno era bianco di neve, e che altra neve cadeva ancora, spinta di traverso da un vento impetuoso. Balzò in piedi, ricoprendosi col mantello, e chiamò i portatori cafri che dormivano sotto i carri. Uscirono subito anch’essi, tremanti di freddo e avvolti in coperte.

    — Presto, volete che i buoi muoiano dal freddo? Staccateli e fateli mettere fra i carri, che almeno siano un po’ riparati — ordinò egli.

    La cosa non fu facile, poichè i cafri avevano le mani intorpidite dal freddo e stentavano a sciogliere i nodi delle corde che trattenevano le bestie; infine vi si riuscì, e i trentasei buoi furono raccolti nello spazio fra i due carri, legati alla meglio. Poi l’europeo ritornò sotto la tenda, e gl’intirizziti indigeni si rifugiarono nell’altro carro, dopo aver bevuto del gin che egli aveva dato loro acciocchè si riscaldassero un po’.

    Per qualche tempo vi fu silenzio, rotto soltanto dal quieto muggire che facevano di tanto in tanto i buoi: muggiti che parevano lunghi, penosi gemiti. E l’europeo pensava:

    «Se la neve continuerà perderò le mie bestie. Mai potranno sopportare un freddo simile».

    Ed ecco che poco dopo il carro cui era appoggiata la sua tenda fu scosso. Si udì un sordo, pesante calpestìo; ed egli di nuovo si protese a guardare fuori. I buoi si erano liberati dalle corde che li trattenevano, e stretti insieme fuggivano nella notte, come cercando per istinto un rifugio contro il freddo. Un mezzo minuto appena, ed erano scomparsi lontano. Ormai non v’era più nulla da fare, e bisognava aspettare il giorno.

    Giunse, finalmente, l’alba; e si vide sino a perdita d’occhio il paesaggio coperto di neve. Tutte le ricerche che l’europeo e i cafri poterono fare non approdarono a nulla: i buoi erano scomparsi, e le loro tracce erano cancellate da altra neve caduta. Così l’europeo volle tener consiglio coi suoi uomini. Che cosa si poteva fare in una così terribile contingenza? Chi disse una cosa, chi un’altra; ma tutti convennero nel sostenere che bisognava aspettare attendati là fino a che la neve non si fosse liquefatta.

    — O fino a che non saremo tutti morti assiderati, stupidi che non siete altro! — replicò l’europeo, il quale era irritato per la perdita del bestiame, che rappresentava un valore di quattrocento sterline, per quei tempi una somma assai rilevante.

    Allora parlò uno zulù, il quale fino a quel momento aveva taciuto: era il conducente del primo carro.

    — Padre bianco — disse egli all’europeo, — ascolta la mia parola. I buoi si sono smarriti nella neve. Nessuno sa dove siano andati, nessuno sa se siano ancora vivi. Però in quel kraal laggiù — e così dicendo egli indicava un gruppo di capanne un tre chilometri lontano, posto su un fianco della collina — dimora uno stregone chiamato Zweete. È vecchio, molto vecchio; ma è anche molto saggio, ed è il solo che possa dirti dove siano i tuoi buoi, se pure v’è uomo sulla terra che possa saperlo.

    — Sciocchezze! — replicò l’europeo. — Ad ogni modo, poichè in quel kraal non farà più freddo che qui nei carri, andremo a parlare con questo Zweete. Vieni con me, e porta una bottiglia di liquore e un po’ di tabacco da naso, per regalo a questo cosiddetto stregone.

    Un’ora dopo l’europeo giungeva alla capanna di Zweete. Seduto su alcune pelli era un uomo vecchissimo, un vero sacco d’ossa, con occhi che non vedevano più. Aveva la mano sinistra contorta e come inaridita, bianchiccia.

    — Che cosa chiedi da Zweete, padre bianco? — domandò il vecchio con una vocetta stridula ma un po’ fioca. — Tu non credi alla mia saggezza; e perchè dunque dovrei aiutarti? Pure lo farò, sebbene questo sia contro la tua stessa legge e tu faccia male a venire a domandare a me; ti aiuterò per dimostrarti che vi è verità nella magìa degli Zulù. So che cosa tu vorresti sapere: dove cioè siano andati i tuoi buoi per ripararsi dal freddo. È vero?

    — È vero, stregone — rispose l’europeo. — Hai l’orecchio fino, tu.

    — Sì, padre bianco, ho l’orecchio fino, sebbene si dica che divenga sordo; ed ho anche buoni occhi, sebbene non possa veder la tua faccia. Lascia che ascolti. Lascia che veda.

    Per un po’ egli rimase in silenzio, dondolandosi lievemente; infine riprese:

    — Padre bianco, tu hai una fattoria laggiù presso Pinetown; è così? Vedi: lo sapevo… E ad un’ora di cammino dalla tua fattoria abita un boero che ha quattro dita soltanto alla mano destra. Presso la sua casa è un albero di mimosa, e dopo di questo un burrone. In quel burrone troverai i tuoi buoi: a cinque giornate di cammino da qui. Tutti, bada, meno tre, che sono morti nella neve… No, non voglio nulla da te: io non opero per ricompensa. Perchè lo farei? Sono ricco.

    L’europeo si mise a ridere, incredulo; ma alla fine, tanto è grande il potere della superstizione combinata con l’avidità, egli mandò alcuni cafri alla casa del boero dalle quattro dita.

    Qui bisogna dire che undici giorno dopo, mentre egli rimaneva ancora nel kraal di Zweete, i cafri ritornarono coi buoi, dei quali tre soltanto mancavano.

    Allora l’europeo non rise più.

    Quegli undici giorni egli li aveva passati in una capanna del kraal; ed ogni pomeriggio era andato dal vecchio, rimanendo sino a sera a parlare con lui.

    Il terzo giorno egli domandò a Zweete perchè mai avesse la destra contorta e come inaridita, e chi fossero quelle due persone, Nada e Umslopogaas, di cui a volte lo aveva udito parlare. E allora il vecchio gli fece il racconto che qui segue: un po’ per giorno, finchè l’ebbe finito.

    Questo racconto non è interamente riportato, perchè circostanze ed episodi possono essere stati dimenticati, altri ancora omessi perchè insignificanti; ma nulla vi è stato aggiunto dall’europeo che lo udì dalla viva voce di uno che a quelle gesta e a quei fatti aveva preso parte, e che pareva, anzichè narrare, rivivere nel passato. E poichè la storia di Nada il Giglio e di coloro la cui vita si trovò in un modo o nell’altro ad esser connessa alla sua lo aveva commosso profondamente, egli ha voluto che fosse stampata, affinchè altri potessero giudicare se quella sua emozione era ingiustificata o eccessiva.

    Ora l’europeo scompare; e parla colui che era chiamato Zweete nel suo kraal, ma che aveva avuto un altro nome.

    I.

    La profezia del piccolo Ciaka.

    Tu mi chiedi, o padre bianco, di raccontarti di Umslopogaas, del giovane guerriero dalla scure detta la Tremenda, che fu soprannominato Bulalio, o l’Uccisore, e del suo amore per Nada il Giglio, la bella fra le belle. È lunga, questa narrazione; ma tu sei qui per molti giorni, e te la farò, se vivrò, fino a che l’avrò finita. Ma rafforza il tuo cuore, o padre bianco, poichè molte cose ti dovrò dire che sono dolorose. Vedi, anche adesso basta che io pensi a Nada perchè le lacrime sgorghino da questi occhi che più non vedono la luce.

    Sai chi io sia, padre bianco? No, non lo sai. Tu credi che io sia un vecchio, vecchissimo stregone chiamato Zweete; e così gli uomini credono da molti, molti anni. Ma non è questo il mio nome; quello vero l’ho tenuto chiuso in me, per evitare che, sebbene ormai viviamo soggetti ai bianchi e quindi protetti dalle loro leggi, un assegai¹ possa ancora trovar la via per giungere al mio cuore.

    Cùrvati verso di me, ed ascolta. Io sono Mopo, e questa mia mano — la destra — la vedo, io che più non posso vedere, forte e rossa del sangue di due re. Sì, sono Mopo, colui che uccise il terribile Ciaka, il gran re. Io, l’uccisi; lo aggredimmo insieme, io, Dingaan, che poi fu re, e il principe Umhlangana; ma fu il mio colpo quello che gli tolse la vita. E poi uccisi anche Dingaan, sulla montagna degli Spettri.

    Ma perchè ti dico ciò? E che cosa ha questo a che fare con gli amori di Umslopogaas e di Nada il Giglio? Ecco: uccisi Ciaka per mia sorella, Baleka, madre di Umslopogaas, e perchè egli aveva ucciso le mie mogli e i miei figli; poi io e Umslopogaas uccidemmo Dingaan per amor di Nada, che era mia figlia. Sono nomi grandi nella nostra storia, questi, e molti debbono averli uditi anche fra i bianchi; ma pochi fra i tuoi sapranno come veramente accaddero le cose ² .

    Debbo cominciare dal principio. Io nacqui, prima che gli Zulù fossero un popolo unito, nella tribù dei Langeni. Non era grande, la nostra tribù: e infatti, quando in seguito tutti gli uomini atti alle armi furono chiamati a comporre uno dei reggimenti del re Ciaka, erano fra i due e i tremila; ma in compenso erano molto valorosi.

    La nostra tribù abitava una bella regione; e si dice che ora siano là i Boeri, che noi chiamavamo gli Amaboona. Il capo della tribù era Makedama, mio padre; ma io non ero nato dalla sua principale moglie.

    Una sera, quando ero ancora tanto piccolo da arrivare appena al gomito di un uomo, uscii con mia madre per andare a sorvegliare i servi che facevano rientrare le vacche nel loro recinto. Mia madre voleva molto bene a quelle bestie, e specialmente ad una dal muso bianco, sulla quale soleva mettere Baleka, la mia sorellina che allora era una bambinetta appena, perchè la portasse attorno.

    Rientrate che furono le vacche, mia madre si mise a sedere sull’erba e diede il latte a Baleka. Io giocavo, accanto a lei, e poco lontano era la mucca dal muso bianco, che mia madre aveva fatto rimaner fuori, e che pascolava. A un certo punto vedemmo una donna venire verso di noi. Camminava come se fosse molto stanca, e aveva sulle spalle un fardello come di stuoie, mentre conduceva per mano un ragazzetto press’a poco della mia età, ma molto più robusto di me. Finalmente ella giunse davanti a noi e si lasciò cadere a terra, poichè era realmente sfinita. Dal modo in cui era vestita vedemmo che non era della nostra tribù.

    — Salute a voi — disse.

    — Buona sera — rispose mia madre. — Che cosa vuoi?

    — Un po ’di cibo, e una capanna per dormire. Vengo da molto lontano.

    — Come ti chiami, e qual’è la tua gente? — domandò mia madre.

    — Mi chiamo Unandi, e sono moglie di Senzangacona, della tribù degli Zulù.

    C’era stata guerra, fra la nostra tribù e quella degli Zulù; e Senzangacona aveva ucciso molti dei nostri guerrieri e portato via molto del nostro bestiame. Così, udito che ebbe quelle parole, mia madre balzò in piedi incollerita, esclamando:

    — E tu, moglie di un cane di zulù, ardisci venire da noi a chiedere cibo e una capanna? Vattene subito, o chiamerò le donne perchè ti scaccino via a sferzate!

    La donna, che era molto bella, aspettò pazientemente che mia madre avesse finito di pronunciare quelle irose parole; poi rispose quietamente:

    — C’è là una mucca che ha le mammelle rigonfie; vorresti almeno darmi un po’ di quel latte per mio figlio?

    E così dicendo ella prese dal suo fardello una zucca vuota e la porse a mia madre.

    — No, nulla — rispose questa con fermezza.

    — Siamo assetati dal lungo cammino: non vorrai darci neppure un po’ d’acqua? È da molte ore che non ne abbiamo trovata — insistette la povera Unandi.

    I suoi occhi erano pieni di lacrime, ora, e il tono della voce supplichevole; ma il ragazzo, che aveva conserte le braccia sul petto, ci guardava accigliato e minaccioso. Era bello, con grandi occhi neri e lucenti che talvolta pareva mandassero lampi.

    — Madre — disse egli, — qui non ci vogliono, come non ci vogliono laggiù. — E così dicendo egli accennava verso la contrada in cui dimoravano gli Zulù. — Andiamo a Dingiswayo: la tribù degli Umtetwa ci accoglierà.

    — Sì, andiamo, figlio — rispose Unandi. — Ma il cammino è lungo, e noi siamo stanchi: cadremo morti prima di giungere.

    Udii queste parole, e il cuore mi si strinse. Avevo pietà di quella povera donna e del figlio, che parevano in realtà stanchissimi. Così, senza una parola, tolsi a Unandi la zucca e corsi a riempirla a una non lontana sorgente, ritornando subito dopo. Mia madre volle afferrarmi, poichè era ancora irritata; ma io l’evitai, e riuscii a dare al ragazzo la zucca piena d’acqua. Mia madre non si oppose più, ma continuò a sferzare la povera Unandi con aspre parole, rinfacciandole il male fatto dal marito ai nostri kraal, e dicendo che certo altro male maggiore sarebbe venuto alla nostra tribù da quel suo figliolo. E il suo presentimento era esatto. Se quel giorno Unandi e il figlio fossero morti di sfinimento, quanti dolori si sarebbero evitati, quanto sangue non sarebbe stato sparso!

    Presa la zucca, il figlio di Unandi non la offrì alla madre, ma se la portò alla bocca. Bevve, e bevve; in verità credo che avrebbe bevuto tutto, se prima non si fosse completamente dissetato. Soltanto allora diede la zucca alla madre, la quale bevve il poco che egli aveva lasciato. Poi si avanzò verso di noi, tenendo nella destra un corto randello.

    — Come ti chiami tu, ragazzo? — mi domandò, col tono di un ricco che si rivolga a un mendicante.

    — Mi chiamo Mopo — risposi, come soggiogato. — E qual’è il nome della tua gente?

    — Siamo della tribù dei Langeni.

    — Bene, Mopo; ed ora ti dirò il mio nome. Io sono Ciaka, figlio di Senzangacona, della tribù degli Amazulù. E ti dirò anche un’altra cosa. Oggi io sono piccolo, e piccola è la mia tribù; ma diverrò grande, e così grande che la mia testa toccherà le nuvole: tu guarderai verso di me, ma non potrai scorgermi bene, poichè la mia faccia ti abbaglierà. Grande diverrà anche la mia gente, e conquisterà gli altri popoli intorno. Allora, quando avremo calpestata la terra fin dove ci sarà stato possibile giungere, mi ricorderò della tribù dei Langeni, che non ha voluto dare a me e a mia madre un po’ di latte quando eravamo stanchi e assetati. Vedi quella zucca? Per ogni goccia di latte che può contenere, sarà versato il sangue di un uomo della tua tribù. Te soltanto risparmierò, Mopo, perchè ci hai dato dell’acqua; ti risparmierò, e ti farò partecipe alla mia grandezza. Diverrai grasso alla mia ombra, e a te soltanto non farò mai del male, anche se peccherai contro di me: questo lo giuro. Ma quanto a quella donna — ed egli accennò col bastone verso mia madre — si affretti a morire, altrimenti sarò costretto ad insegnarle quanto può tardare la morte allorchè la si desidera. Ho detto.

    Mia madre stette per un po’ a guardarlo in silenzio; poi esclamò, col fiato mozzo per l’indignazione:

    — Piccola vipera, che parla come parlerebbe un gran guerriero! Il vitello che mugge come il toro… Ma ti farò cantare in un altro tono, profeta di malaugurio!

    E, mettendo sull’erba la piccola Baleka, ella corse contro il ragazzo. Questi stette a guardarla tranquillamente finchè ella si fu avvicinata; poi alzò rapidamente il randello e la colpì così fieramente alla testa, da farla cadere. Dopo di che si mise a ridere e si allontanò con Unandi.

    Queste, padre bianco, furono le prime parole che udii pronunciare da Ciaka: ed erano parole profetiche, poichè si avverarono.

    Mi accostai a mia madre e l’aiutai a raddrizzarsi. Ella rimase seduta, con le mani al viso. Il sangue che sgorgava dalla ferita fattale da Ciaka le scorreva fin sul petto, e io lo asciugai con una manciata d’erba. Così ella stette per qualche tempo, mentre Baleka piangeva; infine riabbassò le mani e mi guardò, dicendo:

    — Mopo, figlio mio, in questi momenti ho avuta una visione. Ed ho visto Ciaka, quel ragazzo che mi ha colpita, divenuto un gigante, dagli occhi che mandavano lampi. Teneva in mano un piccolo assegai stillante di sangue. Prendeva una tribù dopo l’altra e le stritolava, poi passava sui loro kraal calpestandoli e distruggendoli. Davanti a lui era il verde dei campi, dietro di lui tutto arso, come quando nell’estate il fuoco divora le erbe. Poi ho vista la nostra tribù: non era che un ammasso di ossa; e Ciaka stava accanto a quelle ossa e rideva, rideva. Ho visto anche te, Mopo, divenuto uomo. Tu strisciavi dietro Ciaka, il gigante, e con te strisciavano altri uomini, che dall’aspetto si sarebbero detti re. Poi tu l’hai colpito con una piccola lancia, ed egli è caduto, ritornando piccolo; è caduto e ha imprecato contro di te. Ma tu gli hai risposto con un nome, quello di Baleka tua sorella: ed allora egli è morto… Ritorniamo a casa, ora, Mopo, ritorniamo a casa. Cade la sera.

    Così ci alzammo e ritornammo alla nostra capanna.

    Io tacevo, perchè ero molto, molto spaventato.

    II.

    Noma Io stregone.

    Ora, padre bianco, ti dirò che mia madre fece ciò che il piccolo Ciaka aveva detto, e morì subito. Infatti la ferita prodotta dal randello non si chiuse, produsse un ascesso, e l’ascesso operò internamente. Fu come se le mangiasse il cervello. Così ella morì. Io piansi molto molto, poichè le volevo tanto bene, ed era terribile il vederla così, fredda e irrigidita, che non mi rispondeva per quanto urlassi e urlassi chiamandola.

    Basta; ella fu seppellita, e presto dimenticata. Io soltanto mi ricordavo di lei; io soltanto e nessun altro, nemmeno Baleka, che era troppo piccola per comprendere. Quanto a mio padre, si prese un’altra giovane moglie, e fu contento. Ma dolente ero io, poichè i miei fratelli non mi volevano bene, dato che era più intelligente di loro, più abile nel maneggio dell’assegai, più veloce alla corsa. Così essi avvelenarono contro di me l’animo di mio padre, che prese a maltrattarmi.

    Baleka ed io, invece, ci volevamo molto bene, poichè eravamo come isolati da tutti, ed ella si aggrappava a me come fa un rampicante con un albero rimasto solo nella pianura; e, sebbene giovane, allora imparai questo, che cioè essere sapienti significa essere forti. Colui che sa tenere in mano un assegai uccide, ma colui che con la sua mente dirige la battaglia è più grande di colui che uccide.

    Mi accorsi anche che gli stregoni erano temuti nella contrada, sicchè, davanti ad uno di essi che teneva in mano soltanto un bastoncello, dieci uomini armati d’assegai fuggivano; e quindi risolsi di divenire uno stregone di quelli che chiamiamo anche medici. Lo stregone sa guarire e sa uccidere.

    Così, quando ebbi vent’anni, e dopo avere imparato nel maneggio delle armi e nella corsa tutto quanto un uomo può imparare da sè, andai a stare col capostregone della nostra tribù, che si chiamava Noma, ed abitava accanto a noi. Era vecchio, con un occhio cieco, ma molto sapiente. Da lui imparai molte cose vere e molte cose che sono null’altro che trucchi; e tanto mi avanzai in queste conoscenze, che alla fine egli divenne geloso di me, e volle tendermi un tranello perchè vi cadessi.

    Accadde un giorno che un uomo di una tribù vicina, un capo molto ricco, perdesse del bestiame; ed allora egli venne da Noma con doni, pregandolo che gli facesse sapere dove quel bestiame fosse. Noma cercò di «vedere», ma non vi riuscì. Allora il capo s’irritò, e volle che gli si restituissero i suoi doni. Noma non restituiva mai ciò che gli si dava; e così vi furono da una parte e dall’altra parole dure. Il capo disse che avrebbe ucciso Noma, questi rispose che lo avrebbe stregato.

    — Calmatevi — intervenni io, poichè temevo che si versasse sangue. — Calmatevi, e lasciate provare me. Forse potrò «vedere» dov’è il bestiame.

    — Tu non sei che un ragazzo — osservò il capo; — e può un ragazzo avere sapienza?

    — Questo potremo accertarlo subito — risposi; e presi in mano quegli ossicini di animali che noi stregoni usiamo nei nostri riti, padre bianco, gettandoli a terra come voi fate con quelli che chiamate dadi.

    — Lascia stare gli ossicini! — urlò Noma. — Non muoveremo più un dito, per questo cane!

    — E io ti dico che se non lasci fare a questo ragazzo ti farò un buco nel corpo col mio assegai! — urlò a sua volta il capo, alzando la lancia.

    Allora mi affrettai, gettando gli ossicini sul pavimento. Il capo era seduto a terra davanti a me, e rispondeva alle domande che gli andavo facendo. Tu sai bene, padre bianco, che talvolta gli stregoni possono riuscire a sapere dove siano le cose smarrite. Così potei «vedere» le bestie di quell’uomo, e gliele descrissi, l’una dopo l’altra. Gli dissi anche dov’erano, e che una di esse era caduta in un fiume e là giaceva ancora, annegata, con le zampe anteriori impigliate in una radice forcuta. Tutto, insomma, gli rivelai di ciò ch’egli voleva sapere.

    Il capo fu molto contento, e disse che se avevo «visto» bene, e se egli avesse ritrovato il bestiame, avrebbe tolto a Noma i doni da lui portati e li avrebbe dati a me. Si volse anche ai presenti, che erano molti, a domandar loro se questo non fosse giusto; e tutti risposero che sì, era giusto, e che così si sarebbe dovuto fare. Noma taceva, ma mi guardava di traverso: sapeva che avevo indovinato bene, e ne era profondamente irritato. Certo, se il bestiame fosse stato ritrovato dove avevo detto, tutti mi avrebbero creduto più sapiente di lui, che non era riuscito a «vedere».

    Era già notte, e la luna non si era levata ancora; così il capo disse che avrebbe dormito nel nostro kraal, e che all’alba sarebbe partito con me per andare là dove avevo detto che erano le bestie. Dopo di che uscì dalla capanna.

    Me ne andai anch’io nella mia, e mi stesi sulle pelli per dormire.

    Fui risvegliato ad un tratto da una sensazione come di soffocamento. Volli drizzarmi a sedere, ma sentii qualche cosa pungermi alla gola. Allora ricaddi steso e guardai. La porta della capanna era aperta, e la luna appena levatasi, bassa sull’orizzonte, pareva una palla di fuoco i cui raggi giungevano sin sul mio giaciglio. Scorsi così il viso sinistro di Noma. Egli si era seduto su me, e mi teneva appuntato alla gola un coltello.

    — Serpente che mi son cresciuto in seno perchè poi mi mordesse! — mi sibilò egli all’orecchio. — Tu hai osato indovinare là dove io non ero riuscito, eh? Bene, bene, adesso ti mostrerò come tratto i cuccioli tuoi pari. Prima di tutto ti forerò la lingua alla radice, per non farti latrare, poi ti taglierò a pezzi lentamente, e domattina dirò alla gente che sono stati gli spiriti a far questo, per punirti di aver mentito. Poi ti staccherò anche le braccia e le gambe. Sicuro, voglio che sembri un tronco d’albero. E poi ancora…

    Così dicendo cominciava a spingermi piano il coltello sotto il mento. Spaventato, e poichè ora mi faceva veramente male, esclamai:

    — Abbi pietà di me, Noma! Abbi pietà di me, e farò ciò che vorrai, qualunque cosa.

    — Dici davvero? — fece egli, ma senza ritirare ancora il coltello. — E andresti a cercare le bestie di quel cane, per condurle in

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