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Coreůs - Il pozzo della speranza
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E-book430 pagine6 ore

Coreůs - Il pozzo della speranza

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Info su questo ebook

Andalusia, anno 2020. Durante la pandemia del Covid-19, Armando Rosanera, giovane scavezzacollo dal passato burrascoso e dal futuro assai incerto, tenta di sopravvivere come può alle avversità della vita. Immerso nella pace delle affascinanti campagne dell'entroterra, vive una solitaria quotidianità rurale che verrà però presto spezzata da una serie di strane circostanze che lo cambieranno per sempre. Si ritroverà catapultato in un mondo nuovo, costretto a dover fare i conti con una realtà diversa che lo porterà a intraprendere un lungo viaggio per salvare Coreůs e la Terra da una minaccia oscura che aleggia sul loro destino. Così, in un susseguirsi di incredibili avventure, accompagnato da Nänanne, una gatta un po' permalosa, e da Nąsyr, un simpatico dromedario, conoscerà personaggi bizzarri, visiterà luoghi unici e incantevoli e scoprirà intrighi pericolosi e torbidi segreti rimasti nascosti per millenni e capaci di mettere a repentaglio in un solo istante la riuscita della sua nobile impresa.
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2022
ISBN9791221429534
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    Anteprima del libro

    Coreůs - Il pozzo della speranza - Giada Arrigoni

    Capitolo 1

    Era un marzo strano. La pioggia cadeva senza sosta da diversi giorni e il caldo sole dell’Andalusia, quella primavera, sembrava non volersi risvegliare. Il mondo era in lutto, il Covid-19 aveva già fatto tristemente notizia e il 2020 si confermava ancora una volta come uno degli anni peggiori della storia dell’umanità. I disastri ambientali, gli infernali incendi in Australia, la terza guerra mondiale sfiorata e infine il famoso lockdown, sfociato in un’aggressiva crisi economica che aveva colpito tutti. La quarantena implicava la chiusura delle attività considerate non necessarie, solo farmacie e supermercati rimanevano aperti e chi aveva un proprio esercizio si ritrovava di punto in bianco senza poter lavorare. Gran parte degli ospedali era al collasso, mancava materiale medico e i sanitari, costretti a turni massacranti, erano sfiniti. Non c’era pace per nessuno, il pianeta era sull’orlo del baratro e lo scenario apocalittico tanto declamato dai catastrofisti iniziava ironicamente a preoccupare.

    «Questo mondo sta andando a rotoli!» pensò Armando, mentre scorreva le notizie del giornale online, sorseggiando una tazzina del suo amato caffè.

    Era un uomo giovane, brillante e di bella presenza. Nato a Nizza il 15 febbraio del 1987 dalla nobile famiglia dei Rosanera, era cresciuto fra i benesseri e le ricchezze di una vita agiata, ricevendo fin dalla più tenera età una sana e ferrea educazione. Sempre elegante e ben curato sia nei gesti che nell’aspetto. Era di media statura ma con un fisico atletico e robusto da far invidia a molti, scolpito da anni di equitazione e tennis. Aveva un viso malandrino e fanciullesco dai tratti gentili, reso maturo da un’ordinata barba incolta. Lunghi capelli corvini mossi e luminosi che gli ricadevano leggiadri sulle nerborute spalle e vivaci occhi scuri, profondi ed espressivi, dai quali nel silenzio trasparivano mille indomite emozioni. A 25 anni, seppur riluttante, per volere dei suoi genitori, si era laureato in giurisprudenza ma, al contrario di suo fratello maggiore Giovanni, non aveva mai intrapreso nessuna carriera. Poiché odiava quel settore tanto quanto la monotonia di un lavoro al chiuso fra alte pile di scartoffie e luminescenti monitor dei computer, dopo qualche mese di stage presso uno studio legale, aveva abbandonato tutto per dedicarsi a una delle sue più grandi passioni: viaggiare. Per alcuni anni aveva girovagato per il mondo, visitando città incantevoli e luoghi straordinari, finché, stanco delle continue lamentele della famiglia che lo voleva vedere impegnato, si era trasferito in Spagna con la scusa di voler approfondire e migliorare la lingua. Aveva vissuto qualche mese a Barcellona poi, stufo della frenetica vita di città, si era spostato in Andalusia con la reale intenzione di trovare un lavoro che lo appagasse e rendersi almeno in parte indipendente dai familiari. Giunto nella provincia di Cadice, si era messo subito all’opera per raggiungere i suoi obiettivi e in men che non si dica aveva trovato un confortevole appartamento sulla costa e una modesta occupazione a contatto con la natura che lo soddisfaceva appieno. Assunto come bracciante da una facoltosa azienda agricola, svolgeva svariate mansioni all’interno dell’allevamento di cavalli e bovini, pulendo le stalle e prendendosi cura della salute e del benessere degli animali. Tutto sembrava andare a gonfie vele. Era riuscito a dare una svolta alla sua vita, non gli mancava nulla ed era felice. Nell’aprile del 2018 però, dopo circa tre mesi dall’inizio del suo contratto di impiego, conobbe in fattoria il figlio minore del titolare che, uscito di prigione con uno sconto di pena per buona condotta, era stato reinserito nell’impresa di famiglia. Álvaro Esteban Reyes, questo era il suo nome. Anche noto come Álvarito Ojodevidrio (Occhiodivetro), era un giovinastro ribelle e sfacciato, coetaneo di Armando, che conduceva una vita peccaminosa frequentando cattive compagnie e facendo un uso smoderato di sostanze illecite. I due iniziarono a occuparsi insieme del bestiame e in breve tempo divennero buoni amici. Così il teppistello, entrato in confidenza, una sera lo invitò a bere qualcosa e gli raccontò vari aneddoti del suo torbido passato. Fra questi, gli disse di aver perso l’occhio destro in un incidente avvenuto sul lavoro all’età di 19 anni e, senza remore, confessò di essere stato più e più volte in carcere per una serie di crimini minori. Bravate come le definiva lui. Piccoli furti, detenzione di droga e qualche danno verso terzi, ma ora puntava più in alto. Aveva in mente un fruttuoso progetto al quale il suo nuovo amico non avrebbe mai potuto rinunciare. Armando lo ascoltò attentamente e, seppur restio, a fine serata, complici il buon vino e le ammalianti parole di Álvarito, cadde in tentazione. Nei primi caldi giorni di luglio dello stesso anno, dopo un’accurata pianificazione, i due tentarono un colpo in piena notte ai danni di una gioielleria. Il piano però fu un completo fiasco. L’allarme scattò non appena irruppero nell’edificio e la coppia di malviventi venne arrestata il mattino successivo mentre tentava invano di fuggire verso Jaén a bordo di una vecchia Renault 4 che, a metà viaggio, aveva sofferto di un guasto improvviso. Entrambi finirono a processo ma ad avere la peggio fu Armando. Incastrato dal suo finto amico e complice, al termine dell’udienza ricevette una condanna di 18 mesi e venne subito incarcerato. Cacciatosi nei guai fino al collo, chiese aiuto alla sua famiglia ma, dopo una lunga telefonata con la madre dove si era visto costretto a raccontare tutta la verità riguardo al suo trasferimento in Spagna e ai suoi spostamenti, comprese che nessuno lo avrebbe aiutato.

    «Armando Rosanera, sei il nostro più grande fallimento!» queste erano state le ultime parole che lei gli aveva detto.

    Parole terribili alle quali lui, da buon ruffiano, aveva risposto con:

    «Mamma! Vi prometto e vi giuro che se mi tirerete fuori da qui mi terrò lontano dai guai!»

    Inutile dire che la donna, stanca di quelle continue false promesse e dei comportamenti irrispettosi del figlio, di comune accordo con il marito, aveva deciso di abbandonarlo al suo destino appendendogli il telefono in faccia. Nel freddo mese di gennaio del 2020, scontata la pena e uscito di prigione, l’uomo aveva poi provato in tutti i modi a riallacciare i rapporti con i genitori ma ogni suo tentativo era stato inutile. Per i coniugi Rosanera, Armando non esisteva più. Commettendo quell’atto criminale, aveva tradito la loro fiducia e infangato il nome della famiglia, oltraggiandoli e deludendoli a tal punto da spingerli a troncare i rapporti con lui. Solo Giovanni, di tanto in tanto, si faceva ancora sentire ma, ad ogni richiesta di aiuto da parte del fratello, arricciava puntualmente il naso.

    «Devi imparare a cavartela da solo, Armando! Io non sono benevolo come lo sono stati mamma e papà in passato e loro di certo non ti perdoneranno» così finivano quasi tutte le loro conversazioni, gettando nello sconforto il giovane che, rimasto solo, senza casa e senza un lavoro, si trovava a fare i conti con una nuova realtà fatta di povertà e sacrifici.

    Dopo un mese dalla sua scarcerazione, ormai rassegnato al proprio destino, aveva deciso di lasciare l’economico ostello dove alloggiava per stabilirsi in una umile casetta di campagna sperduta fra i dolci colli dell’entroterra. Di proprietà del signor Antonio Díaz, un anziano contabile debilitato da una grave malattia cardiaca che gli impediva di lavorare la terra e accudire gli animali, il podere di oltre 15.000 metri quadri veniva dato in comodato d’uso in cambio solo di qualche semplice lavoretto. Armando, vista l’inserzione su un noto portale d’annunci e contattato il proprietario, aveva colto l’occasione al volo e vi si era trasferito il giorno stesso. La casa, in stile tipico andaluso, di forma quadrata e con il tetto piatto, nel complesso non era niente di speciale. Costruita negli anni Settanta, conservava ancora il suo carattere vintage attraverso gli infissi d’alluminio scorrevoli, le peculiari porte a riquadro in legno massello e il logoro pavimento in graniglia di marmo. Arredata alla buona con mobili cigolanti e di scarsa manifattura, si suddivideva fra una camera da letto buia e angusta, un salottino disadorno, un bagno alquanto antiquato, umido e stantio, e un claustrofobico cucinino rivestito di piastrelle. Un alloggio rustico e senza tante pretese, lontano dalla civiltà e privo di qualsiasi modernità ultratecnologica, che era però in grado di offrire al suo fortunato dimorante qualcosa di unico e speciale. Tramonti di fuoco, limpide notti stellate, aurore pastello e una vista eccezionale sulle vaste campagne andaluse che si estendevano a perdita d’occhio. Questi erano solo alcuni dei sublimi doni che quell’umile casupola eretta su di un alto poggio coltivato ogni giorno gli destinava. Un paesaggio mozzafiato dai mille colori, composto da grandi oliveti, vigne ordinate, immensi campi lavorati e colline infinite, del quale Armando ben presto si era follemente innamorato. Sognava una vita a cuor leggero, lassù, circondato dalla pace idilliaca che scandiva le sue giornate ma, sebbene quel desiderio fosse già diventato una solida realtà, sapeva benissimo che a lungo termine ciò non sarebbe stato possibile. Rimasto senza il supporto dei suoi cari, presto o tardi avrebbe dovuto trovarsi per forza un lavoro e lasciare quella casa, ma fino a quel momento si era ripromesso di godersela appieno. D’altronde il Covid-19 aveva preso tutti alla sprovvista. Ottenere un impiego in tempi brevi era utopia e, anche se ci fosse stata una remota possibilità di essere assunto da qualche parte, l’idea di ritrovarsi rinchiuso in un appartamento durante il tempo libero o peggio lavorando in smart working lo nauseava. Nel suo piccolo angolo di paradiso immerso nella vita di campagna non gli mancava nulla e, a dirla tutta, aveva diverse cose da fare.

    Finito di leggere le notizie, Armando guardò l’ora. Era tardi, anzi tardissimo. Erano già le 09.30 del mattino e gli animali dovevano ancora mangiare. Allora corse in camera, si vestì in fretta e furia, infilò stivali, impermeabile e cappello, acciuffò le chiavi del magazzino poste sul mobile d’entrata e si fiondò fuori casa. Le campagne erano vuote, tristi e silenziose. L’aria era fredda e pungente, la pioggia cadeva a dirotto e il vento sibilava rabbioso scompigliando le folte fronde del pino marittimo che, con la sua secolare imponenza, sovrastava il piazzale di cemento adiacente all’abitazione. L’uomo richiuse la porta alle sue spalle, si mise una mano sul copricapo e iniziò a correre verso il deposito posto sul retro, seguito dallo sguardo attento dei quattro grossi muli che, al riparo sotto la loro ampia sosta di legno, aspettavano con impazienza di ricevere la loro colazione.

    «Maledizione!» esclamò poco dopo, fermo davanti al portone serrato, frugando nelle profonde tasche del pastrano. «Dove diavolo sono finite le chiavi?»

    Le trovò solo qualche minuto più tardi e le provò tutte. Ahimè, non ricordava mai quale fosse quella giusta. Sbuffò poi finalmente, bagnato fradicio, dopo l’ennesimo tentativo, riuscì a entrare. Accese la luce e si tolse il cappello, guardandosi attorno rassegnato. Quello stretto localino era a dir poco caotico. C’erano vecchi attrezzi e ciarpame sparsi ovunque. I finimenti dei muli, figli di un’altra epoca, giacevano a terra pieni di polvere e muffa. Gli armadietti, ruggini e scricchiolanti, traboccavano di roba mentre scope, rastrelli, pale e forche erano tutte buttate in un angolo accanto a quella che sembrava la sagoma malridotta di un tosaerba sepolto ormai da anni sotto una spessa coltre di pattume e cianfrusaglie. L’aria era densa e opprimente, a tratti quasi irrespirabile, la luce era fioca e, una volta varcata la soglia, non c’era nemmeno il minimo spazio per muoversi. Raggiungere la finestra risultava un’impresa così come arrivare ai sacchi di mangime degli animali che si trovavano ammucchiati alla rinfusa gli uni sugli altri nel cantuccio più scomodo e inarrivabile del magazzino. Tutti i giorni era dunque la stessa storia. Armando doveva destreggiarsi in quel tugurio polveroso e pieno di ragnatele senza rompere nulla e, se possibile, senza peggiorarlo. Un giorno, appena trasferitosi, si era offerto di sistemarlo ma l’anziano proprietario glielo aveva proibito perché sosteneva che in quel piccolo disordine tutto era al suo posto. Raggiunto e porzionato il foraggio, si infilò di nuovo il cappello, raccolse i quattro secchi e uscì sfidando le intemperie. Gli animali, come lo videro rispuntare, drizzarono le lunghe orecchie e sbuffarono sommessamente. Erano quattro muli davvero fantastici. Tutti bai scuri, quasi neri. Forti, possenti e muscolosi. Avevano una bella groppa, dei colli corti e un petto ampio. La testa era leggera, dritta. Gli occhi scuri, grandi ed espressivi, il muso color nocciola, soffice e vellutato e i crini scarsi, tenuti sempre tosati come per tradizione. In quei due mesi, Armando aveva imparato a conoscerli bene. Triana, il capo branco, l’unica femmina del gruppo nonché la sola ad avere una stella bianca sulla fronte, era sempre scontrosa. Passava le sue giornate con le orecchie appiattite e l’espressione ostile. Tutti la temevano, anche il signor Antonio che l’aveva affettuosamente soprannominata La Víbora (La Vipera). Lei odiava tutti, sia uomini che animali, e mordeva chiunque le capitasse a tiro. Húngaro e Carbonero, invece, erano gentili e affettuosi, quasi invadenti quando si trattava di ricevere coccole e attenzioni, mentre Gorrión, il più piccolo ed esile del quartetto, era timido, schivo e diffidente.

    Versato il mangime nelle mangiatoie e scampato il pericolo Triana, l’uomo si diresse verso il pollaio, liberò le galline, gli diede una manciata di grano e in seguito raggiunse il magazzino. Rientrò con tutti i secchi in mano, li sistemò nell’unico cantuccio accessibile del locale, dopodiché, infreddolito e ormai zuppo dalla testa ai piedi, si voltò, felice dell’idea di poter ritornare al calduccio in casa. Spense la luce e socchiuse il portone. Vi si affacciò poi si ritrasse, fuori diluviava. Detestava la pioggia, la detestava proprio con tutto il cuore. Rimase immobile per alcuni istanti, pensieroso, finché d’un tratto un rumore sordo alle sue spalle non lo fece sussultare. Si girò di scatto, aguzzò la vista e intravide un’ombra scivolare silenziosamente fra il disordine del locale. Accese la luce un’altra volta, sospirò, scosse il capo e alla fine sorrise.

    «Tu devi essere Chiquita, Chiqui per gli amici, vero?» disse l’uomo, accovacciandosi.

    Il felino miagolò, uscì dal suo nascondiglio e gli si sedette davanti. Era esile, sottile e minuta. Poco più grande della metà di un gatto normale. Aveva occhi tondi, verdi e luminosi, le orecchiette piccole, dritte, di forma triangolare, la coda lunga e sinuosa e il pelo corto, assai lucido. Il mantello era bicolore, tigrato grigio scuro, con le zampe, il ventre, il petto e il simpatico musetto bianchi. Malgrado il signor Antonio gliene avesse parlato, Armando non l’aveva mai vista prima. Poco si sapeva di lei in verità. Ciò che era certo è che non avesse padrone e che nessuno della zona sapesse da dove fosse sbucata. Girovagava sempre sola per le campagne, andava e veniva, spariva e riappariva come un fantasma, ripresentandosi nella proprietà con una cadenza regolare, ogni due o tre mesi al massimo. Non chiedeva né cibo, né attenzioni. Il più delle volte si sdraiava a sonnecchiare sul davanzale della finestra di cucina o al di sotto del tavolino di bambù che vi sostava accanto e dopo alcune ore scompariva ancora.

    La gatta lo fissò dritto negli occhi. L’uomo allungò una mano per accarezzarla ma lei, in tutta risposta, gli diede due zampate ben assestate.

    «Ahi!» esclamò, ritraendo la mano di scatto. «Perché lo hai fatto?» A quel punto l’animale si alzò in piedi, si scrollò allegramente e trotterellò in direzione del portone. Armando, incuriosito, lo seguì con lo sguardo. Il felino d’improvviso si fermò a pochi passi da lui, si girò e lo osservò di nuovo.

    «Che c’è?» le chiese sbuffando. «Io non ti capisco!»

    Lei miagolò sottovoce, uscì di corsa dal magazzino e scomparve. Il giovane allora si rialzò, si passò una mano sul volto, spense la luce e infine se ne andò anch’egli, richiudendo il pesante portone di ferro. Tolse le chiavi dalla toppa, le infilò in tasca e si mise a correre verso l’uscio di casa. Girò frettolosamente l’angolo, la pioggia cadeva a dirotto e il vento non accennava a placarsi. Afferrò la maniglia della porta, la abbassò poi, con la coda dell’occhio, vide qualcosa alle sue spalle e si voltò. La gatta era là, seduta in mezzo a quel freddo piazzale, con gli occhi socchiusi e la pelliccia tutta arruffata. Armando, sorpreso, le si avvicinò. Lei alzò lo sguardo e lo scrutò con aria speranzosa, quindi, si incamminò con calma verso il bianco pozzo ornamentale al limitare dello spiazzo, girandosi di tanto in tanto a guardare l’uomo come per assicurarsi che fosse ancora lì. Lui rimase stupito. Mai prima d’ora aveva visto un gatto comportarsi in quel modo e aveva come l’impressione che l’animale stesse cercando di comunicargli qualcosa.

    «Ridicolo!» si disse, scuotendo il capo. «Armando, sii razionale!

    Quello è solo un gatto!»

    Rientrò così in casa ridendo di sé stesso. A quanto pare aveva bisogno di un’altra bella tazza di caffè amaro e di un buon libro, validi alleati che lo avrebbero aiutato a combattere la noia di quella piovosa giornata.

    Capitolo 2

    Lo sfrigolio del pollo che rosolava in padella e il rumore della vecchia cappa aspirante sovrastavano in parte la musica anni Cinquanta che risuonava con allegria per tutta la casa. Armando, armato di mestolo e grembiule, faceva avanti e indietro per la cucina muovendosi nervosamente fra i tegami. Odiava cucinare, era negato e lo sapeva bene. Preparava solo piatti semplici e veloci seguendo passo a passo i ricettari online per evitare di fare casino. Quella sera stava sperimentando qualcosa di nuovo: straccetti di pollo al limone con riso selvaggio. Il profumo era delizioso e l’operato all’apparenza sembrava sotto controllo. Ne era soddisfatto, eppure non si fidava. Continuava a sbirciare con ansia nelle pentole come se dovessero esplodere da un momento all’altro. Guardò l’orologio e sospirò. La cena era quasi pronta. Si tolse dunque il grembiule e si affacciò distrattamente alla finestra. Fuori piovigginava. Il piazzale era buio e silenzioso e le fronde degli alberi ondeggiavano sinuose sospinte dal vento. Chiuse gli occhi, fece un respiro profondo per scacciare i timori della sua guerra gastronomica poi li riaprì. Diede ancora una rapida occhiata al mondo esterno e fu allora che, scrutando con disattenzione quel candido pozzo ornamentale che brillava nell’oscurità, notò una sagoma distinta sostare immobile su di esso. Aguzzò la vista e la vide di nuovo. La gatta era là, rannicchiata sul bordo della struttura, accanto a una delle due alte colonne di pietra a punta piramidale che sostenevano la carrucola e il secchio. Stupito, la fissò per un istante. Lei alzò la testa con pacatezza, come se avesse capito che lui la stesse osservando. I loro occhi si incrociarono ancora per qualche secondo, finché d’un tratto il rumore dell’acqua che bolliva fuori dalla pentola non lo distrasse. Armando sussultò, scattò verso i fornelli e abbassò subito la fiamma.

    «Santa pazienza!» borbottò fra sé e sé; quindi, si affacciò ancora una volta alla finestra e si spaventò.

    L’animale aveva attraversato l’intero piazzale in un batter d’occhio e se ne stava ora seduto sul davanzale, scrutandolo con espressione dubbiosa.

    «Sei inquietante!» disse. «Davvero!»

    Lei miagolò, annusò l’aria e alla fine decise di andarsene. L’uomo, rassegnato, scosse il capo, scolò il riso ormai scotto, prese un piatto, si servì la cena e si mise a mangiare. Più tardi guardò un po’ di TV e in seguito andò a letto. Si addormentò subito e fece uno strano sogno. Trasformatosi in un maestoso falco bianco, solcava i cieli infiniti al di sopra delle nubi immerso in una profonda quiete. Attorno a lui non c’era nulla, solo il sole, caldo e immenso, fisso all’orizzonte che lo aspettava. Batté rapidamente le ali per raggiungerlo e percepì la forza del vento che lo spingeva in avanti. Si sentiva libero, felice e leggero come mai lo era stato prima. Continuò a volare spensierato fino a che, d’improvviso, le candide nuvole non iniziarono a diradarsi facendo apparire la terra sotto di lui. Incuriosito, abbassò lo sguardo ma non riuscì a vedere nulla se non i vivaci colori della primavera e allora decise di scendere in picchiata per avvicinarsi. Si appiattì e si tuffò nel vuoto. Precipitò in linea retta come un proiettile, fendendo l’aria per qualche breve secondo, quindi, dispiegò di nuovo le ali e riprese a volare parallelo al suolo mentre il mondo si stagliava magicamente davanti ai suoi occhi. Sorvolò le colline e le campagne andaluse che tanto amava, le antiche pinete secolari, fitte e odorose e le grandi città frenetiche e piene di vita poi vide l’oceano. Vi volò sopra e per la prima volta in vita sua si accorse davvero di quanto vasto e meraviglioso potesse essere il mondo. Planò e continuò il suo viaggio sfiorando il pelo dell’acqua fino a quando un intenso bagliore di luce eterea giunto dal nulla non lo accecò. Chiuse gli occhi e riprese subito quota. Quando li riaprì si trovava sopra a una catena montuosa in parte innevata. Stupito, scese verso la terra e scorse un piccolo villaggio costruito in una valle ma, quando fu abbastanza vicino da poterne carpire i dettagli, le immagini iniziarono a farsi sempre più veloci, disordinate e confuse. Avvistò dei colli, una città, un fiume enorme, una foresta tropicale, il mare, un deserto e infine ancora quel chiarore che lo avvolse completamente. Lo attraversò e quando esso si dissolse non era più un falco ma era di nuovo sé stesso. Si guardò attorno spaesato ma non vide nulla se non una spessa coltre di nebbia che silente lo circondava.

    «Certo che avere le ali adesso sarebbe comodo!» si disse, alzando gli occhi al cielo. Sbuffò e pensò per un attimo sul da farsi, quindi, scelse di avviarsi verso l’ignoto nella vana speranza di riuscire a emergere da quella maledetta foschia. Camminò senza sosta per diversi minuti poi si fermò e scosse il capo. Non era cambiato nulla, si trovava nello stesso punto di prima. Le sue orme continuavano davanti a lui e finivano alle sue spalle. In poche parole, senza accorgersene, non aveva fatto altro che girare in tondo. Sospirò e alla fine si arrese ma, proprio in quel momento, udì delle urla in lontananza. Si voltò nella loro direzione e, speranzoso, iniziò a correre.

    «Ehi!» esclamò. «Mi sentite?»

    Nessuno però rispose e a quelle grida si aggiunsero anche il rombo degli zoccoli di alcuni cavalli e il sordo rumore metallico delle armi.

    «È una battaglia!» pensò.

    Atterrito, si bloccò dunque all’istante, si volse e riprese a correre nella direzione opposta. Tuttavia, nella fretta di allontanarsi, benché la confusione di quel misterioso conflitto si fosse già fatta distante, inciampò e cadde a terra. Cercò invano di rialzarsi finché non vide un’ombra dritta davanti a lui celarsi nella caligine. Allora iniziò a udire delle voci inquietanti che bisbigliavano parole in una lingua strana, a lui sconosciuta, poi quella sagoma oscura gli si avvicinò ringhiando sottovoce. Riconobbe i tratti di un canide e scorse la sua testa nera e aguzza, le sue sottili orecchie a punta ripiegate sul collo muscoloso e i suoi intensi occhi gialli che lo fissavano. L’animale gli si approssimò, il vocio si fece più forte e la nebbia sopra di loro cominciò a diradarsi. Armando alzò lo sguardo e vide due carte geografiche, una della Terra e una mai vista prima, sovrapporsi e successivamente bruciare mentre il brusio aumentava sempre più di intensità fino a diventare insopportabile. Si coprì le orecchie e iniziò a urlare, pregando perché quel rumore smettesse. La candida luce allora oltrepassò i due atlanti in fiamme e lo illuminò. Il cane guaì e fuggì nella nebbia. L’uomo venne sollevato verso il cielo e catapultato indietro nel suo viaggio. Ripercorse tutto a ritroso fino ad arrivare all’immagine paradisiaca di lui che volava libero sopra le nubi. Sospirò, felice dell’idea di essere salvo, fino a che quelle maestose sembianze di falco che aveva acquisito non rimutarono all’improvviso nelle sue di uomo. Così iniziò a cadere nel vuoto privo di ogni controllo. Varcò le nubi e vide la terra avvicinarsi rapidamente, chiuse gli occhi e quando li riaprì era tutto buio. Si svegliò di soprassalto nel suo letto, sudato e in preda al panico. Si mise a sedere e guardò l’ora, erano le 02.45 del mattino.

    «Era solo un sogno» farfugliò sbadigliando; quindi, si abbandonò di nuovo al sonno che a gran voce lo chiamava.

    Il mattino successivo si alzò come sempre alle 08.00 e, senza dare troppo peso a quell’avventura onirica che aveva agitato il suo riposo, iniziò la giornata. Fece colazione sfogliando il giornale virtuale, si vestì, indossò l’impermeabile, gli stivali e il suo amato cappello e infine uscì di casa. L’aria era fresca, piovigginava, il vento si era placato e le campagne sembravano finalmente un po’ più luminose rispetto ai giorni precedenti. Richiuse la porta e si incamminò con l’intento di raggiungere il magazzino. Girò l’angolo accompagnato come di consueto dal ragliare spazientito dei muli e là se la ritrovò un’altra volta davanti.

    «Ancora tu!» esclamò.

    La gatta gli si avvicinò e lo guardò fisso negli occhi per alcuni brevi istanti.

    «Che c’è?» le chiese.

    Lei miagolò poi passò oltre. Armando si voltò stupefatto e la osservò mentre attraversava il piazzale trotterellando.

    «Senti, non so cosa tu voglia da me ma sappi che, qualunque cosa sia, io non riesco a capirti!»

    L’animale si fermò di colpo, si girò e lo osservò di sbieco come per ammonirlo. Il giovane sospirò e alla fine, incuriosito, cedette a sé stesso e decise di seguirla. Malgrado si sentisse uno stupido, la raggiunse. Lei alzò lo sguardo e gli fece le fusa come per ringraziarlo.

    «Va bene! Quindi, Chiqui?»

    Il felino si scrollò, dopodiché si diresse verso il pozzo, salì sul bordo di pietra e là si sedette ad aspettarlo. Lui, titubante, rimase immobile e scosse il capo. Per qualche attimo pensò di essere impazzito. Parlava con un gatto, cercava di dare un significato a ognuna delle azioni dell’animale e, ancora peggio, le interpretava e agiva di conseguenza. Logica e razionalità lo avevano abbandonato.

    «Stai delirando, Armando! Te ne rendi conto?» si disse.

    Lei miagolò ancora in segno di protesta. L’uomo la squadrò. Non era possibile, sembrava che quel bizzarro felino gli stesse dando degli ordini. Sorrise nervosamente e alla fine obbedì. Le si avvicinò e la fissò dritta negli occhi. Fece per aprire bocca, pronto a lamentarsi di nuovo, poi udì quegli strani sussurri inquietanti del sogno e si bloccò. Sussultò di terrore e si guardò subito attorno. C’era qualcosa che non andava. Il cielo si ottenebrò, la pioggia si interruppe all’istante e un vento freddo e ostile mai visto prima si levò dal nulla sibilando rabbioso. I bisbigli crebbero di intensità, apparvero delle ombre nere e terrificanti che iniziarono a muoversi in cerchio attorno a lui in modo caotico e disordinato e in seguito il pozzo alle sue spalle vibrò all’improvviso. Si girò di scatto e, con grande stupore, rivide quella splendida luce onirica protrarsi con eleganza verso il cielo e illuminare le tenebre che lo circondavano. Alzò gli occhi meravigliato e la seguì con lo sguardo finché, fra la sua aurea bellezza, non intravide le due carte geografiche apparirgli davanti. Aguzzò la vista. Le vide sovrapporsi e infine bruciare. Allora la terra tremò, le immagini si dissolsero e quelle sagome orripilanti iniziarono ad avanzare stringendolo in una morsa oscura. Armando cercò di resistergli e di divincolarsi con tutte le sue forze. Si aggrappò al bianco parapetto di pietra della struttura in un ultimo disperato tentativo di sfuggire a quella malefica presa e fu in quell’istante che scorse la gatta tuffarsi nella luce. Così, senza indugio, decise di seguirla. Si liberò scalciando via quei dannati spettri e si gettò anch’egli nel pozzo. Cadde nel vuoto, perplesso e terrorizzato, pregando per la sua vita mentre fantasia e mistero lo avvolgevano in un caldo abbraccio di speranza.

    Capitolo 3

    Quando Armando si risvegliò, la prima cosa che vide fu il cielo azzurro splendere sopra di lui fra le fitte fronde verdeggianti di alcune possenti querce. Dolorante e confuso, si mise subito a sedere e si guardò attorno per alcuni istanti. La vasta foresta che lo circondava era incantevole e rigogliosa. Il terreno scuro, morbido e in parte nascosto da una rossiccia coltre di foglie secche, era leggermente scosceso, segno che, con molta probabilità, si trovava su di una collina o sul versante di una montagna. Il sottobosco, caratterizzato per lo più da felci e cespugli di bacche, era ricco e folto mentre i robusti tronchi bruni degli alberi erano tappezzati qua e là da qualche ampia chiazza di muschio verde. L’aria era frizzante, primaverile. Gli uccellini, nascosti fra le verdi chiome delle piante, intonavano con allegria le loro dolci melodie e un delicato profumo di frutti di bosco inebriava tutta la selva. Armando scosse il capo. Provò ad alzarsi ma barcollava. Era sporco, spettinato, aveva le vertigini, un taglietto sulla fronte e un gran mal di testa. Si appoggiò a un albero e alzò lo sguardo verso il cielo. Vide il sole, caldo, che lo rischiarava e chiuse gli occhi. Rimase così immobile e in silenzio, totalmente immerso nei suoi pensieri, finché un fruscio fra gli arbusti non attirò la sua attenzione. Riaprì gli occhi e si voltò di scatto. Intravide qualcosa avvicinarsi in modo furtivo alla sua sinistra e trattenne il fiato fino a che la gatta non apparve davanti a lui. Allora tirò un sospiro di sollievo e rise di sé stesso.

    «Grazie al cielo!» esclamò. «Sei tu!»

    L’animale si sedette e lo squadrò dalla testa ai piedi.

    «Perdincibosco! Certo che sono io! Chi pensavate fosse altrimenti? Una locusta mangiauomini per caso?» rispose in tono secco. L’uomo rimase di stucco e la fissò per qualche minuto in silenzio.

    «Non è possibile… tu parli?» balbettò sottovoce.

    «Beh! È ovvio, no?» ribatté la gatta.

    «No, non lo è!» replicò lui.

    «Non lo è? Forse nel vostro mondo! Qui a Coreůs le creature senzienti che vivono a stretto contatto con l’essere umano apprendono fin dalla più tenera età a comunicare e a esprimersi nel suo bizzarro linguaggio» disse il felino.

    «Ok, questo deve essere per forza un sogno» parlottò Armando fra sé e sé, voltandosi disperato verso il tronco grinzoso dell’albero alle sue spalle.

    «Un sogno? Ne siete certo, Messer Rosanera?» chiese l’animale, avvicinandosi lentamente a lui.

    L’uomo si volse e abbassò lo sguardo.

    «Non potrebbe essere altrimenti!»

    I due rimasero poi in silenzio per alcuni brevi istanti.

    «Comunque sia, il mio nome è Nänanne, ma voi, se preferite, potete chiamarmi Gatta!» dichiarò lei.

    Il giovane annuì con un cenno del capo.

    «Dunque, mio caro, diffidente e incredulo viaggiatore di mondi che spera di risvegliarsi da un momento all’altro da quel sogno così assurdo e pazzesco in cui crede di essere finito. Vi do il benvenuto nel magico mondo di Coreůs, Terrae Geminorum per gli antichi studiosi del vostro pianeta, e ora vi invito caldamente a seguirmi. La notte sta per calare e rimanere nelle incantevoli foreste del regno di Gäeliian durante la tenebra, per quanto belle e maestose esse possano essere, non è raccomandabile!» esclamò la gatta.

    «Coreůs? Terrae Geminorum? Gäeliian? Che significa tutto questo?» domandò l’uomo.

    «Tempo al tempo, Armando, tempo al tempo» rispose l’animale. «E ora seguitemi!» aggiunse, dirigendosi poi verso il cuore della foresta.

    «No, Gatta, aspetta! Tu mi devi delle risposte!» ribatté il giovane in tono fermo, affiancandola.

    «Risposte?» chiese il felino, perplesso, fissandolo dritto negli occhi.

    «Risposte!» ripeté Armando. «Altrimenti non ti seguo da nessuna parte!»

    «Come volete, la scelta è vostra. Potete rimanere qui, senza risposte, senza cena e senza un tetto dove passare la notte, oppure potete scegliere di venire con me, rimanere sempre senza risposte ma con la pancia piena e le stanche membra al sicuro fino a domani, che dite?» replicò Nänanne.

    L’uomo sospirò

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