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Il merlo bianco
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E-book446 pagine6 ore

Il merlo bianco

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Info su questo ebook

Rispolverando il fortunato protagonista del suo romanzo d'esordio – risalente al 1865 – Anton Giulio Barrili ci riporta nel mondo colorito del capitan Dodéro, che stavolta racconta le prodezze vissute da suo padre Giovan Battista, gran viaggiatore che aveva affrontato ogni sorta di avventura fra Istanbul, l'India, la Cina e il Giappone. Con il divertito sguardo di un grande narratore, Barrili scandisce così, in una serie di episodi che hanno quasi del picaresco, le tappe di una storia intrisa di esotismo, dal fascino immortale. Come un nostrano Melville, ricorrendo alla sua penna così visionaria, l'autore ci mette in guardia dall'inseguire sogni irraggiungibili. Per citare Guido Mazzoni, che ne introdusse l'edizione del 1929, "Non siamo tutti dei cacciatori che, durante la vita, da un capo all'altro, andiamo in cerca di un merlo bianco?". -
LinguaItaliano
Data di uscita19 set 2022
ISBN9788728468036
Il merlo bianco

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    Anteprima del libro

    Il merlo bianco - Anton Giulio Barrili

    Il merlo bianco

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1879, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728468036

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    A TOMMASO MARCHESANI.

    Il tuo nome recò fortuna al mio Capitan Dodèro, che ha fatto oramai parecchi viaggi felicissimi, e alcuni di questi di lungo corso. Or dunque, il nuovo libro, in cui l’amico nostro, da figlio riverente, celebra le prodezze giovanili di suo padre, s’intitoli anch’esso a Te, confermandoti l’antico e non mutabile affetto del tuo

    Di Genova, il 14 febbraio del 1878

    Anton Giulio Barrili.

    IL MERLO BIANCO

    PROLOGO.

    — Se almeno si potesse star sicuri che capitan Dodèro ne raccontasse una vera! —

    Questa esclamazione usciva di bocca a Giacomo Duranti, in una brigata d’amici.

    Era di domenica, e pioveva; una pioggerella minuta, persistente, noiosa, di quelle che vengono con tramontana scura in certi giorni di primavera, e a cui non ci si adatta di buona voglia, se non ricordando che esse «giovano alla campagna».

    Gli amici avevano giuocato un pezzo, chi a biliardo e chi a briscola; avevano parlato di noleggi e di avarìe, di politica europea e di amministrazione comunale; avevano provato tutto, e non c’era stato verso di stare allegri, di ammazzare la noia, di far buon tempo, almeno là sotto.

    Là sotto! dove? Scusate, lettori; mettevo il tetto prima delle fondamenta. Siamo nel comune di Quinto al mare, e proprio dalla parte della marina, dove s’è fatta un po’ di passeggiata sul colmo della rupe. Ma non siamo all’aperto, si capisce, poichè ho detto là sotto; siamo nel casino dei capitani, ritrovo geniale di buoni amici, che, grazie alla benevolenza di cui mi onora il vecchio capitan Dodèro, mi hanno aperte le braccia e mi vogliono qualche volta con loro.

    Alla bottata di Giacomo Duranti il mio vecchio amico non rispose lì per lì. Diede in giro l’occhiata serena dell’uomo che sa di avertela accoccata una volta; si lisciò la barba nel modo che sapete; indi, usci fuori con queste parole:

    — Di che vi lagnate? A sentirvi, parrebbe che le mie storie voi le aveste pagate e vi trovaste frodati sul conto.

    — Non frodati; canzonati!

    — Dio buono, e non siete forse voi, voi per il primo, che l’avete voluto? Dite che non era di buona guerra; ditelo, se vi dà l’animo! Vi ho raccontato una fandonia, pel gusto di insegnarvi a non stuzzicare gli amici. Ma posso sempre, quando vogliate, raccontarvi una storia vera, da pigliarla in iscambio magari col quinto evangelio.

    — Animo, dunque, raccontate; io ritiro la mia osservazione.

    — Da bravo, Mauro; raccontate, voi che raccontate così bene.

    — Adulatori! Voi dite la verità, anche senza avvedervene. Ma badate, è una storia lunga, assai lunga.

    — Quanto vorrà durare? Tre ore? Ne abbiamo sette davanti a noi, perchè questo tempaccio non mostra di voler cambiare per oggi.

    — Sentite, — ripigliò capitan Dodèro, che amava mettere alla prova la pazienza degli amici, — mio padre, da cui l’ho avuta, perchè in fatti è storia sua, ci spendeva tre notti a raccontarla. S’intende che andava prima a letto; io e i miei fratelli ci facevamo portare i lettini nella sua camera, e stavamo là intorno a lui, coi gomiti appuntellati sul guanciale, gli orecchi tesi e gli occhi aperti, non volendo perder nulla del suo racconto, neanche una sillaba. Si capisce che ad una certa ora non reggevamo più, e ci si addormentava tutti come ghiri, narratore ed ascoltatori.

    — Era dunque una storia da bambini?

    — No, vi ho detto che era un pezzo di storia sua. Non capivamo tutto, allora, e molte cose erano sorvolate, molti toni smorzati, per riguardo alle nostre menti bambine. Noi badavamo alla grandiosità della tela, alla stranezza delle avventure narrate; non intendevamo nulla in certę delicatezze, in certe sfumature; non chiedevamo conto delle frequenti reticenze e delle spesse lacune. Il babbo andava, e noi dietro a lui, senza curarci dei salti smisurati del suo ippogrìfo, purchè ci sentissimo in groppa e appiccicati ai suoi fianchi.

    — Avanti dunque l’ippogrìfo! Noi siamo a posto.

    — Ma non vogliamo reticenze.

    — Ma colmate le lacune, per carità!

    — Sì, sì, non dubitate, colmerò. Ma prima di tutto, vi domando un favore.

    — Che cosa?

    — Un atto di fede. La fede è il fondamento. Se non c’è il fondamento, non c’è l’edifizio.

    — Insegnateci dunque l’atto di fede.

    — E poi non ci si ritornerà più, me lo permettete?

    Sarà una di quelle verità che si dànno per provate, in filosofia, e sulle quali si fonda tutto il sistema. Non ho più molta pratica con queste fanfaluche, e non ricordo il vocabolo. —

    Così dicendo, capitan Dodèro si rivolgeva a me, che fumavo in un canto, come un Mongibello in aspettativa, e, peggio di un Mongibello, ardevo dentro di me, dal desiderio di sentire la storia.

    — Non vi confondete, capitano, — gli dissi allora. — Si chiama postulato.

    — Bene, ecco dunque il mio postulato. Sapete che cos’è un merlo bianco? È un merlo come un altro; cioè, mi spiego, un po’ diverso dagli altri, perchè, scambio di avere il becco giallo e le piume nere, ha il mantello tutto bianco, e il becco, l’iride e le zampe color di rosa. Si è negata l’esistenza del merlo bianco; ma ce ne sono pel mondo, come ci sono gli albini nella specie umana, e più frequenti nella razza africana, che è nera per eccellenza. Del resto, si neghi quanto si vuole; mio padre ne ha veduto uno.

    — Capitan Dodèro vuol farci viaggiare, alla caccia dell’uccello fantastico; — interruppe uno della brigata. — A Marsiglia si racconta la medesima storia. Anzi, mi ricordo che Giuseppe Mery ci ha fatto su una novelluccia graziosa.

    — Se la sapete, raccontatela voi; — gridò il capitano stizzito.

    — No, certamente; «transeat a me calix iste». Vecchia o nuova, voi la racconterete sempre meglio di me. —

    Capitan Dodèro si rabbonì a quel complimento dell’amico.

    — A molti, — proseguì egli gravemente, — il merlo bianco ha fatto quella burletta. E ciò prova che il merlo bianco esiste. È il merlo più canzonatore della sua specie; vi tira dietro a sè coi canti e coi voli; vi fa perdere ogni idea del tempo e dello spazio; vi fa dimenticare le noie e i grattacapi della vita quotidiana; talvolta vi salva anche dal peggio. È in certo qual ir odo la fantasia che vi trascina da un lato, e il buon senso che vi allontana da un altro. È il merlo bianco, insomma, e non occorrono altre spiegazioni. Il racconto vi chiarirà meglio ogni cosa.

    — «Tacquero tutti e intente avean le ciglia» — disse uno degli astanti.

    — «E il padre Enea così diede la stura», — soggiunse un altro.

    Il padre Enea si pettinò leggermente la barba col sommo delle dita, e incominciò la sua storia.

    I.

    COME SI PREPARASSE BATTISTA DODÈRO A RICEVERE IL SETTIMO SACRAMENTO.

    Mio padre non era stato ancora chiamato all’onore e alle noie di avermi per figlio, quando gli avvennero i casi che ho il piacere di raccontarvi. Era un giovanotto di ventiquattro anni e ne aveva già otto di navigazione, debitamente segnati nel suo libretto di matricola. Sarebbero stati di più, senza le lunghe fermate che egli aveva fatte a casa; prima per gli studi, perchè da noi, lo sapete, si studiava tutti, ricchi e poveri, lo stesso latino; poi perchè, amando il mare, e correndolo volentieri, non disprezzava punto la terra.

    Del resto, è naturale. Non si va in alto mare per trovare la terra? Sarebbe partito Colombo dal porto di Palos, se il suo genio gli avesse detto all’orecchio: tu non troverai altro nell’Atlantico che le alighe e i granchi del 28o di latitudine?

    Egli amava dunque la terra, e in terra amava la caccia. Col suo fucile ad armacollo, andava ogni giorno per monti e per piani, in cerca di tordi e di lepri. C’erano ancora delle lepri e dei tordi per le nostre colline, quando mio padre era giovane.

    Anche sul mare, non crediate che la passione della caccia andasse dimenticata. Spesso ci aveva la carabina spianata dall’alto del bastingaggio, per tirare ai tonni e ai pescicani. Non tirava mai sui delfini perchè, come vi ho detto poc’anzi, aveva fatto gli studi classici, e sapeva che i delfini sono amici dei poeti.

    Insomma, era una passione violenta, la sua; passione che io non ho ereditata. Dev’essere una malattia come la podagra, che suol fare quasi sempre il salto di una generazione. Mio figlio, per esempio, dovrebbe riuscire un grande cacciatore al cospetto di Dio. Ma vedete la fortuna dei passeri! Dio non gradisce l’omaggio di questo nuovo Nembrotte, perchè, nella sua aita sapienza, ha voluto coltivare nell’animo mio un invincibile orrore pel settimo sacramento.

    A proposito di matrimonio, intenderete benissimo che a questo mondo, e specialmente a ventiquattro anni, non si può vivere soltanto di navigazione e di caccia. Viene un giorno nella vita, che tutti pensate poco o molto a prender moglie, e se non ci pensate voi, ci pensano le ragazze che vi vedono gironzolare oziosi per le vie, gli amici, i parenti, che vorrebbero vedervi fare quello che han fatto loro.

    Negli intervalli delle sue navigazioni, mio padre vedeva ragazze da marito a diecine. Ma egli era in questo come Bertoldo; non trovava mai l’albero adatto. E sì che molte lo avevano adocchiato! Certune gli davano delle guardate da passarlo proprio fuor fuori. Ma lui duro, che non pareva affar suo. Non c’era verso di coglierlo in flagranti di ammirazione, o di simpatia, per una figlia d’Eva. Tutte le sue tenerezze femminili si restringevano a veder di buon occhio una fanciullina di tredici anni, sua cugina, che veniva spesso per casa, e a cui dava i suoi libri da leggere, avendo notato che era molto studiosa. Per tutti gli altri esemplari del sesso debole, il mio futuro padre era un orso marino.

    Ma che farci? In casa, tutti volevano ammogliarlo. Sua madre gli cantava ogni giorno su tutti i toni che una famiglia, o presto o tardi, bisogna pur farla; che il marinaio sta male solo, quando è in terra, e peggio in mare, se non ha chi lo aspetti a casa e faccia voti per lui; che infine egli non l’avrebbe mica avuta eternamente lei, a rattoppargli i calzoni e a mettere il pepe nella biancheria, per preservarla dalle tignuole.

    A farla breve, mio padre era, una buona pasta di ragazzo. Gliene dissero tante, che egli finì col cedere.

    — L’avete in pronto, la donna? Datemela e non se ne parli più.

    Grande allegrezza in famiglia, quel giorno. Subito gliene proposero una, figlia come lui di marinai, discretamente provveduta, discretamente bella e bofficiona a quel modo; savia, poi, costumata, senza grilli pel capo, una vera pasta di zucchero. E lui, che non aveva predilezioni, ammise che fosse meglio d’un’altra.

    Non si era riscaldato il sangue, neppure dopo averla veduta per via. Ma anche qui non c’era niente di male. La famiglia aveva detto:

    — Non importa; l’amore verrà dopo. Già, quando si è perdutamente innamorati d’una ragazza prima di sposarla, il matrimonio risica di non essere felice. Avrai una buona massaia, che non ti farà dar volta al cervello; e questa è la felicità vera.

    — Andiamo dunque alla felicità; — disse mio padre, chinando contritamente la testa.

    Accettò il partito; fu presentato alla famiglia di quella pasta di zucchero, che si chiamava col poetico nome di Bibiana. La ragazza abbassò gli occhi e si fece rossa. Egli balbettò una mezza dozzina di parole, in cui c’entrava la fortuna, l’onore, il piacere, e tornò a casa per levarsi il basto di dosso.

    Il basto era l’abito nero che aveva dovuto indossare, per recarsi a fare la domanda solenne.

    Sua madre sorrise, come sanno sorridere le mamme quando si fa a modo loro. La cuginetta gli saltò sulle ginocchia e gli disse:

    — Vorrai bene anche a me, quando sarai ammogliato?

    — Ma sì, Giovannina, ma sì! Che ci ha a vedere nell’affetto di tuo cugino una moglie di più, o di meno?

    — E mi darai sempre i tuoi libri da leggere?

    — Sicuro, e te ne porterò ancora degli altri, ad ogni viaggio che farò.

    — Ed io, vedi, — rispose la bricconcella, — ti cucirò con le mie mani un’altra cacciatora.

    Gli arnesi da caccia erano il debole di mio padre. Chi pensava a’ suoi fucili, alle sue fiaschette, alla sua carniera, poteva esser certo della sua benevolenza. E la Giovannina, che lo sapeva (già, i fanciulli sanno sempre ogni cosa), gli dimostrava la sua gratitudine, toccando abilmente quel tasto.

    Mio padre.… ma qui permettetemi di fare una parentesi e un leggiero cambiamento. Che si tratta di mio padre, lo sapete; ma siccome vi racconto di cose anteriori alla mia nascita, non è bene che io lo indichi sempre con questa qualità familiare, che invecchia il personaggio e confonde il narratore. D’ora innanzi lo chiamerò pel suo nome di Giovan Battista Dodèro, che egli ha portato onestamente per settant’anni alla fila.

    Battista, adunque, partiva ogni mattina da casa per andare al suo passatempo favorito, e tornava ordinariamente per l’ora della cena. Il suo pranzo lo faceva sui monti, o in qualche osteriuccia da cacciatori, od anche all’aperto, con un tozzo di pane e una cipolla. Tanto in lui poteva la passione cinegetica! Dopo cena, egli soleva passare un’oretta dalla sua fidanzata. Faceva due complimenti alla suocera futura, salutava la ragazza, che cuciva e taceva; indi se ne ritornava al suo covo e si metteva a letto, per essere in piedi avanti l’alba, e andare, secondo l’uso, a sentir cantare le pernici.

    La via dell’ Imene non poteva essere più facile e piana di così.

    Venne finalmente il gran giorno. Tutto era stato preparato per la cerimonia sacra e per le sue conseguenze civili. Un prete, congiunto della famiglia, voleva sposarli lui, e fu, come potete immaginarvi, accettato. Alle undici si doveva essere in chiesa.

    — Che cosa farò io dalle quattro del mattino alle undici? — domandò il fidanzato a sè stesso.

    La risposta la diedero i fatti. Assai prima delle quattro era già in piedi, aveva indossato la stia bella cacciatora, stretta la borsa della munizione intorno alla vita, messa la fiaschetta della polvere ad armacollo, impugnato il fucile e infilate le scale.

    Quando fu in istrada, gli ritornò la coscienza di ciò che faceva.

    — Come? Anche quest’oggi a caccia? E perchè no? Viva l’abitudine. Dalle quattro alle undid, sono sette ore di buono. Dò una scorsa in Fasce, e ritorno. Purchè io mi trovi in paese alle dieci e mezzo, avrò sempre tempo d’avanzo per risciacquarmi la faccia e mettere il basto. —

    Vedete che po’ po’ di filosofo era mai Battista Dodèro!

    Fatta quella conclusione tutta sua, se ne andò allegramente in su, per la valle di Sturla, avviato al Vesuvio genovese; Vesuvio spento fin dai tempi preistorici, ed anche prima d’allora, ma che io vi chiamo con questo nome, perchè infatti il monte delle Fasce sta a Genova come il Vesuvio a Napoli, in una certa rispondenza di postura e di proporzioni.

    Ho detto allegramente, e avrei dovuto dire con giubilo. Quello era infatti il suo ultimo giorno di caccia, da scapolo, ed egli poi non sapeva quando mai avrebbe potuto ripigliare il fucile. Quelle benedette lune di miele riescono qualche volta così lunghe! Vedete il nostro Giacomo Duranti. Ha sessant’anni, o giù di lì; sua moglie ne ha venti meno di lui (almeno, debbo crederlo, perchè alle donne non si accresce mai la dose); ed è sempre tutto moglie, che pare uno sposo del primo trimestre.

    Quella mattina, il monte delle Fasce e il suo buon amico e vicino, monte Moro, non ci avevano neanche uno scricciolo da offrire ad un cacciatore di buona volontà. Tirava una brezzolina sottile che a Battista Dodèro faceva due tanti più cara la sua cacciatora di velluto; la luna falcata splendeva a ponente, tirandosi dietro la stella di Venere, che pareva sospesa a lei come la perla all’orecchino; il mare sembrava un lago d’argento liquefatto. Ma la bellezza di quello spettacolo non era tale da consolare Nembrotte di quella assenza di selvaggina.

    Tirando innanzi per la cresta del monte, era già andato in vista di Viganego. Tutto ad un tratto sentì un frussi frussi in una macchia di corbezzoli, che gli cagionò un dolcissimo batticuori.

    — Ah, finalmente! — diss’egli. — Ecco un uccello! — E tenendo con le due mani il fucile per averlo più pronto alla mira, andò guardingo verso la macchia.

    Poco stante udì una voce argentina che gli diceva:

    — Bacciccia!

    — To’, un merlo! — disse il cacciatore tra sè.

    — Sapete che Battista nel dialetto genovese si sforma, o si trasforma, in Bacciccia. E i merli debbono essere animali eminentemente liguri, perchè nel loro verso abituale chiamano sempre Bacciccia.

    — Ah sì, aspetta a me; — pensò il cacciatore; — te lo darò io il buon giorno. —

    Guardando attentamente, aveva veduto tra il chiaro e il fosco muoversi qualche cosa sulla vetta d’un ramo. Spianare il fucile, prendere la mira e premere il grilletto, fu un punto. La pietra focaia andò a battere contro l’acciarino; si destò la scintilla, ma il colpo non partì altrimenti.

    — Diavolo! — esclamò Battista Dodèro. — Che avessi dimenticato di mettere la polvere nello scodellino? —

    Accostò allora il fucile agli occhi; guardò il congegno e vide ancora nello scodellino gli avanzi della polvere che lo scattare dell’acciarino aveva sparpagliata. O come era andata che il colpo non era partito? Il cacciatore pensò giustamente, che forse la polvere aveva sentita l’umidità della notte.

    — Baociccia! — ripeteva frattanto il merlo, saltellando sulla frasca.

    — Sì, sì, aspetta; te lo darò io il Bacciccia! — mormorò il canzonato, accostando allo scodellino la sua fiaschetta da polvere.

    Il motteggiatore non era rimasto là ad aspettarlo. Pareva che egli intendesse a puntino tutte le fulminee promesse di quell’operazione, perchè, spiccato il volo dalla macchia dei corbezzoli, era andato a ficcarsi in un cespuglio, cento passi più lunge.

    — Va là, va là; ti coglierò ad ogni modo; — disse il cacciatore, dopo averlo seguito degli occhi fino al suo nuovo riparo.

    E sicuro questa volta del fatto suo, perchè aveva assaggiata la polvere, andò guardingo verso il cespuglio.

    — Eccolo là lo. sciocco! — pensò. — Si dondola sul ramo come se non avesse la morte alle calcagna. —

    Infatti, il sommo di un ramo si agitava mollemente, sotto il peso di un uccello, il cui profilo nero spiccava sull’azzurro del cielo.

    Battista Dodèro accostò il fucile all’omero, tolse la mira e lasciò andare il colpo.

    Qualche cosa era caduto, o uccello, o ramo, o tutt’e due. Battista non aveva il cane con sè, e dovette fare da bracco egli stesso. Rovistò la terra sotto il cespuglio, e trovò infatti il ferito, che aveva ricevuto il colpo sotto l’ala. Ma ohimè, non era un merlo; era un fringuello.

    — Diavolo! — borbottò il cacciatore un po’ sconcertato da quella scoperta inattesa. — Che i fringuelli abbiano preso a rifare il verso dei merli? —

    Intanto, lo sparo improvviso aveva messo in fuga tre o quattro uccellini, che, battendo rapidamente le ali e stridendo dalla paura, erano andati a rifugio in un fitto di roveri.

    II cacciatore era rimasto lì come Tenete, rimuginando su quel problema di storia naturale, ma non già meditando di scriverne una memoria per l’Accademia delle Scienze. Se anche ci avesse, pensato, il disegno gli sarebbe morto subito nella mente.

    Difatti là, da quel fitto di roveri, giungevano al suo orecchio le tre note squillanti:

    — Bacciccia!

    — Ecco un merlo che si burla di me! — pensò il cacciatore, rimanendo un istante sospeso.

    Ma poi, data una crollatina di spalle, come uomo che ha presa una risoluzione, ricaricò il suo fucile alla svelta, e andò verso i roveri, badando a riuscirci dall’alto, per essere più sicuro del fatto suo.

    Intanto, la luna era tramontata; insieme col suo astro fedele; e dal balzo d’oriente, che era nel caso nostro la catena dei monti Apuani, di là dallo scoglio di Portofino, si vedevano spuntare e crescere i barlumi dell’alba. A grado a grado il cielo schiariva e si mutavano intorno i colori delle cose.

    — Meglio così! — diceva Battista Dodèro. — Ti ravviserò più facilmente, merlo briccone!

    Giunto alla macchia dei roveri, diede la sua guardata di fuori e non vide nulla. Si cacciò sotto alla frasca e spiò da ogni banda, ma senza essere più fortunato. Ad un tratto, e mentre già perdeva la speranza, ricevette all’orecchio un colpo di «Bacciccia». Era il suo merlo, che si spiccava allora allora da un ramo, a dieci passi distante da lui.

    Battista Dodèro era pronto di mano. Spianò il fucile e lasciò andare la botta. Ma sì, il merlo maledetto fuggiva difilato verso tramontana.

    — Per tutti i diavoli! — gridò Battista inviperito. — Gli ero troppo sotto e debbo aver calcato troppo la carica. —

    Mentre si lamentava così, vide cadere volteggiando qualche cosa dai rami. Per una foglia di rovere gli parve troppo poco. Guardò attentamente; erano due pennoline.

    — Ah, manco male; ho un po’ del tuo pelo! —

    Così dicendo, raccattò le penne da terra. Erano bianche.

    Un altro problema di storia naturale! Battista Dodèro aveva sentito parlare di merli bianchi, ma sempre per celia, e non credeva che ce ne fossero di autentici.

    Ma lì non ci cadeva più dubbio. Aveva ravvisato l’uccello sul bruzzico, sentito il verso del motteggiatore, e vedute finalmente cascare le penne.

    Non erano penne maestre, ma appartenevano tuttavia all’ala dell’animale. Non era dunque probabile che egli potesse andare molto lontano. Se per un pallino due penne erano cadute, non si doveva argomentare che un altro pallino avesse guastato qualche parte migliore dell’apparato volante?

    — Andiamogli dietro; — disse Battista. — Un merlo bianco non s’incontra mica tutti i giorni. —

    Detto, fatto, corse dietro al suo merlo. Lo vedeva spesso; ma una volta era troppo lontano per fare un colpo utile, un’altra più vicino, e lo aveva fallito. Il cacciatore più giusto fallisce anche lui sette volte al giorno.

    E così, salendo senza posa per le cime dei monti, discendendo nelle forre, spiccando salti di camoscio da un masso all’altro, sempre allettato dai voli brevi della sua preda fuggitiva, Battista Dodèro andò innanzi, sprecando la polvere, ma di colpo in colpo più invelenito che mai e risoluto ad impadronirsi del merlo canzonatore.

    Per altro, ad un certo punto della sua corsa arrangolata, gli sovvenne di ciò che lo aspettava in paese, e guardò l’orologio. Erano le sei e dieci minuti.

    — Fortuna! Il tempo mi era parso più lungo. Ho ancora due ore di buono e poi tornerò. Andiamo a scovare questo assassino d’un merlo! —

    E via come un disperato dietro al suo fuggitivo, che di tanto in tanto si fermava su qualche corbezzolo o su qualche ginepro, dava una beccatina alle frutte disseminate nei boschi dal buon Dio, per uso e consumo della spensierata famiglia dei volatori, e sguizzava via allegramente, fischiando il suo saluto al persecutore affannato.

    II.

    SI PERDE UNA DONNA E SE NE TROVANO DUE.

    Il mio futuro padre era uno de’ più svelti camminatori della Liguria. Ma da un pezzo non ne poteva più e reggeva l’anima co’ denti. Si fermò adunque per raccogliere il fiato.

    E in quel mentre, gli venne veduta una vecchia grinzosa e curva, che camminava a stento, appoggiandosi ad un bastoncello di salcio.

    Da dove era sbucata? Così di schianto gli compariva dinanzi, che egli pensò, senza volerlo, a quelle scatole di Norimberga, donde, sol che premiate inavvertentemente una molla, vi balzano fuori i fantocci più strani, in forma di orchi, di versiere, o di maghi. Dalle scatole di Norimberga e dai maghi, per naturale associazione d’idee, il pensiero gli corse alle streghe, terrore della sua fanciullezza.

    E quella donna non poteva essere una strega? Ne aveva le grinze, il mento e il naso adunchi, i capelli scarmigliati, i cenci e le toppe dattorno, come tutte le vecchie male in arnese, che il volgo battezza per ganze del diavolo, facendo un grandissimo torto ai gusti di questo nobilissimo personaggio, a cui certo, come a voi e a me, le donne piaceranno giovani e belle.

    Battista Dodèro non era superstizioso; da un pezzo gli erano uscite dal capo le ubbìe dell’adolescenza; perciò rimandato il pensiero delle streghe in compagnia di tutte le sciocchezze che possono venire anche in mente ad un savio, ma che si scacciano senz’altro, diede alla vecchia il buon dì, con una grazia ed una amorevolezza di cui ella parve essergli grata oltremodo.

    — Buon dì e buona caccia! — rispose la donna. — Già indovino che cosa andate cercando.

    — Davvero? — chiese Battista, con aria d’incredulità.

    — Sì, cercate il merlo bianco; — soggiunse la vecchia.

    — Per l’appunto; — rispose egli, inarcando le ciglia. — E voi, come lo sapete?

    — Oh, non c’è niente di miracoloso in tutto ciò. Non siete cacciatore? E che cos’altro verreste a cercare, se non è selvaggina! Poco fa, mentre svoltavo il sentiero, ho veduto fermarsi un merlo bianco, a tre passi da me, su questo ramo di frassino. Mi pareva un po’ stanco. Non so se per aver visto me, o per aver sentito voi che salivate da questa parte, ha raccolto le sue forze ed è fuggito in quel bosco, di là dal fossato.

    — Ancora! — esclamò Battista Dodèro. — Ma sapete, voi, sposa, che quel merlo maledetto è la mia disperazione da due ore?

    — Eh, eh! — disse la vecchia, facendo ballare tutte le sue grinze in un solo sorriso. — I merli son furbi. Amano l’uomo, ma difficilmente si lasciano cogliere. In questo somigliano molto alle donne.

    — Lo credete? Foss’egli almeno come quella che mi aspetta a Sturla!

    — Siete ammogliato?

    — No, ma devo prender moglie quest’oggi nella chiesa dell’Annunziata.

    — Siete dunque voi che vi fate cogliere; — notò accortamente la vecchia. — Ragazzo mio, credete all’esperienza dei vecchi; imitate quel merlo.

    — Che consiglio mi date!

    — Il consiglio di chi ha vissuto settantasei anni e veduto matrimoni a centinaia. Del resto, buon cacciatore, cattivo marito. Perdete il tempo pei boschi, dietro ai voli d’un uccello o ai salti di una lepre, e le donne possono aspettarvi un bel pezzo!

    — Eppure, io prenderò moglie quest’oggi. Che si direbbe di me, se io mi dèssi alla macchia? —

    La vecchia sorrise di bel nuovo, guardandolo con due occhietti arguti donde traspariva un’intenzione discretamente canzonatoria.

    — Bene; — diss’ ella; — poichè avete promesso, andate. —

    E messo avanti il suo bastoncello di salcio, fece l’atto di riporsi in cammino.

    — Accettate qualche cosa; — le disse il cacciatore. — Non mi parete ricca, brava donnina!

    — Non lo sono, difatti, ed accetto dai giovani quanto mi basta a vivere per poterli servire con la mia esperienza. La presenza dei vecchi fa bene al mondo, sebbene ci sia chi non lo crede ed è impaziente di prendere il posto loro. —

    Battista Dodèro chinò la testa in atto di approvazione, e, cavate di tasca alcune monete, le porse alla vecchia. Era stato generoso, ed ella, poichè ebbe contate le monete cogli occhi, ringraziò il donatore.

    — Se permettete, — aggiunse, — faremo un cambio. —

    Così dicendo pose le mani in seno e trasse fuori un sacchettino, fatto con due pezzetti di pannolano, alla foggia degli abitini della madonna.

    — Prendete; — diss’ella; — vi porterà fortuna.

    — Che cosa c’è dentro?

    — Due grani di cuor contento, chiusi in una scatolina di ferro. Ma badate, non vi venga la tentazione di aprirla, se non quando vi troverete in condizione di non aver più bisogno, nè desiderio di nulla. Per l’uso quotidiano vi basterà di portarlo indosso. —

    Battista Dodèro sorrise, a quella prova d’ingenuità, ma non seppe ricusare il presente. —

    — E voi, — diss’egli, — non ne avete forse bisogno, che vi private di un così prezioso talismano?

    — No, — rispose la vecchia, — non ho più bisogno neanche di portarlo indosso. Non vi ho detto che i vecchi vivono per utile dei giovani? E poi, non dubitate, conosco l’erba da cui si cavano quei grani miracolosi.

    — Grazie, dunque, e li accetto. Ma debbo avvertirvi che mi dureranno poco. Appena avrò detto di sì, aprirò la scatolina e spartirò con mia moglie.

    — Troppo presto, troppo presto! — gridò la vecchia. — Non dite quattro finchè non è nel sacco. —

    E se ne andò per davvero. Battista si fermò un tratto per vederla passare. Alla svolta del sentiero gli disparve dagli occhi ed egli credette essere stato vittima di una allucinazione. Per altro, l’abitino lo aveva ancora tra le mani; il dubbio non era possibile.

    — Basta; — conchiuse egli, per farla finita; — andiamo in traccia del merlo. —

    E qui, poichè gli tornava in mente la questione del tempo, guardò l’orologio. Le lancette segnavano le sei e dieci minuti; ond’egli disse tra sè:

    — Ce n’ho d’avanzo per tentare l’impresa e poi tornare.

    Discese a passi svelti il pendìo, trovò il fossato quasi asciutto, e, varcatolo in due salti, si addentrò nel bosco. Era un castagneto, qua e là interrotto da cespugli d’eriche, da ginestre, da roveti e via discorrendo. Nei boschi di Liguria è sempre così; ci vivono in pace e concordia tutte le specie vegetali. Così fosse di tutte le specie d’umori nelle rispettive città I

    In mezzo a quel verde cinguettavano uccelli di ogni sorte; e molti, con lo sguardo accorto del cacciatore, egli ne aveva veduti saltellare tra i rami. Ma il merlo voleva egli, al merlo serbava il suo colpo.

    Non andò guari che intese il suo verso. Lo vide, o credette di vederlo; tolse la mira, scaricò il suo colpo; ma il merlo non cadde.

    — Maledetto! — esclamò. — Sarei forse la vittima di un incantesimo? —

    Una seconda volta fu per tirare, ma, prima che egli avesse accostato il calcio del fucile alla clavicola, il merlo spiccò il volo verso levante. Battista lo vide passare attraverso una radura del bosco, con le sue candide penne spiegate, che pareva l’angelo del figliuol di Tobia quando si dileguò all’orizzonte, dopo aver restituito ai focolari paterni il suo giovane amico.

    — E adesso, gli terrò dietro ancora? — domandò Battista Dodèro.

    Guardò ancora una volta l’orologio. Erano le sei e dieci minuti.

    Le sei e dieci! Era la terza volta che guardava il suo fido cronometro, ed erano sempre le sei e dieci. Che voleva dir ciò? Non c’era bisogno di pensare ad un altro incantesimo; la verità gli appariva chiara e lampante come la luce del giorno.

    — Che bestia! Iersera, col matrimonio in testa, ho dimenticato di caricar l’orologio. —

    Infatti, questa era stata la sua dimenticanza, la sua infrazione alle consuetudini quotidiane. Il povero strumento, levato dal taschino della sottoveste per essere appiccato alla parete da canto al capezzale, era andato avanti la notte e una parte del mattino col resto delle sue forze; non era sua colpa se non aveva potuto fare di più. Anche le forze degli orologi hanno un limite.

    Alla scoperta dolorosa tenne dietro una domanda, che i miei lettori troveranno ragionevole, spero.

    — E adesso, che ora sarà? —

    Pensa, ripensa, non gli venne fatto di raccapezzarsi. Sfido io! come saper l’ora precisa, quando si ha un orologio fermo?

    Mi direte che di notte ci sono le stelle e di giorno c’è il sole. Bella scoperta! Anche lui ci aveva pensato, lì per lì; ma il sole non si faceva vedere. Il cielo appariva coperto da un denso strato di nuvoli.

    Se fosse stato uno di coloro che hanno l’orologio in testa! Ma questi son doni di natura, e chi non li ha, può farlo colla voglia.

    Per altro, se non ci aveva l’orologio in testa, sentiva nello stomaco qualche cosa.… che non c’era. Aveva fame. E questo poteva dire due cose; o che quella corsa mattutina gli aveva svegliato in corpo un appetito precoce, o che l’ora della colazione era passata da un pezzo.

    Battista Dodèro, tra tutti i suoi difetti (perchè nessuno è perfetto a questo mondo) possedeva anche una qualità singolare; non s’impuntava a volere una cosa quando la vedeva impossibile. In ciò la sapienza sua somigliava molto a quella di un tale, che in materia di lettere anonime aveva adottato un sistema, quello di non risponder mai.

    Ora, applicando il principio, poichè di saper l’ora non c’era verso, e poichè la coscienza gli rimordeva maledettamente all’altezza dello stomaco, Battista Dodèro venne in questa deliberazione:

    — Cerchiamo qualche cosa da ristorare le forze. —

    Un ceppo di case gli appariva da lunge. Andò a quella volta col suo fucile ad armacollo, pensando alla sua caccia come io e voi penseremmo al Gran Turco. Se in quel momento il merlo bianco fosse venuto a posarglisi sulla bocca dello schioppo, ed egli lo avesse visto con la coda dell’occhio, giuro che Battista Dodèro non si sarebbe preso neanche l’incomodo di toccare il grilletto. Ci sono dei momenti di stizza, nella vita dell’uomo, che per tutto l’oro del mondo non si darebbe un’occhiata alla persona o alla cosa, che poc’anzi ci premeva di più.

    Il merlo, per altro, non fece l’esperimento di quel suo umore scontroso; e certo, vedendo la cosa dal lato suo, non gli si potrebbe

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