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Amore che uccide
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E-book375 pagine4 ore

Amore che uccide

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Info su questo ebook

"Amore che uccide" – pubblicato originariamente nel 1916 col titolo "Oltre l'odio" – prende le mosse dal 1845, abbracciando poi tutti gli ultimi decenni dell'Ottocento. Nell'Appennino umbro-marchigiano, alle falde del monte Catria, si stende la valle del Metauro, dove da secoli regnano le grandi famiglie dei conti Galluri e dei marchesi Fabiani: i primi hanno la loro residenza nell'"Assolata", un bel castello che si trova a pochi chilometri dalla "Dranga", residenza dei Fabiani. Quelli che attendono i protagonisti del romanzo sono anni di forti cambiamenti, dall'Unità d'Italia alla costruzione delle prime ferrovie. Sullo sfondo, quindi, di un mondo antico che muore, sotto l'effetto centrifugo della modernità, sopravvivono antichi intrighi, vecchie discordie che ci proiettano ben presto in un universo di vendetta... -
LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2023
ISBN9788728513453
Amore che uccide

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    Anteprima del libro

    Amore che uccide - Flavia Steno

    Amore che uccide

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1946, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728513453

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Il pranzo era stato ottimo e inaffiato da un vinetto frizzante, che Rocco Mele e il suo compagno di viaggio avevano trovato eccellente.

    — Roba del paese? — aveva chiesto il giornalista al Padre guardiano che aveva date all’ospitalità concessa ai due viaggiatori una larghezza superante il semplice dovere di carità cristiana.

    — Roba del paese, sì. Vigna del Convento. Non e più il toscano che troverete di là dalla Bocca Trabaria, verso San Sepolcro, ma è migliore senza dubbio di quello che troverete scendendo a valle lungo il Metauro.

    — Avremmo dovuto trovarlo stasera il Metauro — disse Rocco Mele — senza quell’incidente al motore. Però sarei di pessimo gusto se me ne lagnassi, data la cortesia che ho trovato qui.

    — La vostra missione potrebbe essere pregiudicata dal ritardo forzato? — chiese il Cappuccino.

    — Affatto. La mia missione, poichè il mio amico è molto semplice, è altrettanto attraente. Dopo la traversata della Siberia in automobile, che il mio grande collega Luigi Barzini ha compiuto insieme al Principe Scipione Borghese e della quale avrete certamente udito narrare anche voi, sono venuti di moda i viaggi in automobile. Tutti i giornali escogitano qualche scorribanda più o meno lontana da narrare ai loro lettori. Il mio Direttore non ha voluto che il nostro giornale fosse da meno e mi ha detto: «Parti e vai dove vuoi; purchè tu trovi del materiale interessante da narrare ai nostri lettori».

    — Magnifico! — osserva il Padre guardiano. — E voi, che itinerario avete scelto?

    — Io mi sono semplicemente proposto di andare alla coperta dell’Italia. Mi sono detto: «Devono esserci, fuori dalle vie battute dalla ferrovia, infiniti posti bellissimi ai quali si riconnettono ricordi» Sono già stato in Umbria e nell’Abruzzo. Ora, voglio scoprire le Marche.

    — Ottima idea.

    — Questo paese è sempre stato un po’ fuori dalle vie battute e ancora non ha un rete ferroviaria interna che lo ricolleghi alle grandi arterie del litorale. Mi hanno parlato di una piccola città che è come morta, con strade che sono tutte vecchi conventi ormai quasi disabitati, dove terminano di vivere o di morire, come più vi piace, delle vecchie monache che vi erano entrate giovinette all’epoca della dominazione pontificia.

    — Ho capito; volete parlare di Urbania. È una cittadina interessante, infatti. Ma di ricordi interessanti è ricca tutta la vallata. Anche qui…

    S’interruppe, il Padre, come se a un tratto si fosse pentito dell’accenno.

    — Anche qui? — interrogò il giornalista, subito interessato. — Ditemi, Padre; se avete qualche cosa di curioso da narrarmi, non avrò più nessuna ragione di deplorare l’interruzione del mio viaggio.

    — In questo caso, non si tratterebbe di qualche cosa di curioso ma di molto drammatico, invece.

    — Perbacco! Avanti, dunque; narratemi.

    Il Padre Guardiano sorrideva.

    — Vi piacciono — disse — le storie di banditi?

    — Nientemeno!

    — Proprio così: questo Convento, cinquant’anni fa, era ancora un covo di banditi.

    — Ma se ha l’aria di un vecchio castello!

    — E lo era. Si chiamava «La Dranga». Ma — riprese il Cappuccino — se volete leggerne la storia, interessante come un romanzo, posso darvi il manoscritto che venne trovato nella biblioteca del castello quando questo venne comprato dai primi Cappuccini venuti qui.

    — Ve ne sarei molto grato.

    Il frate si allontanò e ritornò dopo poco con una grossa cartella piena di fogli manoscritti ingialliti dal tempo.

    — Ecco — egli disse porgendola al giornalista. Soggiunse: — È un po’ lunga. Vi consiglio di ritirarvi presto se volete leggerla.

    Mezz’ora dopo, magnificamente adagiato in un ottimo letto, fra lenzuola un po’ ruvide ma di vecchio lino. Rocco Mele apriva il manoscritto vergato da una mane che da tanti anni, ormai, era cenere…

    PROLOGO

    Il castello dei Galluri, in una gola dell’Appennino Umbro-Toscano, dai versante delle Marche, proprio sotto la Bocca Trabaria, il famoso valico che Garibaldi passò seguendo la via Flaminia da Roma a Castelfidardo. Dietro il castello, su verso la montagna, nessun villaggio più, solo la macchia fitta, cupa, sino alla vetta del valico: di là dal versante, San Giustino d’Umbria; in lontananza. Città di Castello e tutta l’ampia valle tiberina ancora alla sorgente; davanti al castello dei Galluri, verso oriente, la melanconica valle del Metauro che, da Lamoli d’Urbino sino a Sant’Angelo in Vado, corre triste e stretta, chiusa da due enormi muraglioni granitici: l’Appennino Toscano a sinistra e i monti delle Marche a destra.

    All’orizzonte, le vette del Catria poetico.

    È una serata deliziosa d’agosto del 1845: la data equivale a una spiegazione storica.

    Vale a dire che il paese era retto ancora a sistema feudale: il governo pontificio, fiacco e incurante, trovava comodissimo il sistema: sopra la turba dei servi regnava il padrone delle terre e delle macchie, dominante dalle finestre ogivali di qualche vecchia bicocca in rovina, e sopra il signorotto imperavano ancora i briganti, sovrani della macchia, quelli, e a volta giustizieri e terrore dei baldanzosi.

    Così in quell’anno 1845, in tutta l’alta valle del Metauro regnavano due famiglie ugualmente rispettate: quella dei conti Galluri e quella dei marchesi Fabiani.

    L’Assolata, il castello dei Galluri, distava appena tre chilometri dalla Dranga, la casa dei Fabiani.

    All’epoca in cui incomincia il nostro racconto, la Dranga era chiusa e disabitata da circa due anni: i vecchi marchesi Fabiani erano morti, e dei due figli. Guido e Giulia, rimasti soli, nessuno sapeva più nulla.

    Anche l’Assolata era rimasta chiusa per circa due anni: e anche qui i vecchi conti eran morti: dei tre figli rimasti, Roberto, il secondogenito, correva il mondo; la contessina Vera era andata sposa al marchese Spano da Gubbio, ed Enzo, l’erede del titolo e della fortuna paterna, era tornato da pochi giorni appena dopo un’assenza di quasi due anni.

    Il suo ritorno era stato un avvenimento di cui s’era parlato a dieci leghe intorno, molto più ch’egli aveva portato con sè la sposa, una fanciulla bionda, bella come una madonna.

    — Si adorano, — diceva la gente del villaggio, e nessuno stentava a crederlo.

    Nella sera in cui incomincia il nostro racconto, la contessa Clara, la moglie di Enzo, soffriva il primo e più gran dolore della sua vita. Essa aveva dovuto separarsi per ventiquattr’ore dallo sposo adorato e, tutta sola per la prima volta dopo il matrimonio recente, non sapeva darsene pace. Pure, bisognava rassegnarsi.

    Enzo era andato a San Giustino d’Umbria, di là dalla montagna, a ricevere due cavalli portati dalla Maremma da un colono che s’era ammalato a mezza via.

    Così diceva almeno il biglietto ch’egli aveva ricevuto due giorni prima e in seguito al quale avrebbe dovuto partire.

    Sarebbe tornato l’indomani. Ventiquattrlore di assenza soltanto, ma che alla contessa Clara sembravano l’eternità.

    L’assenza di Enzo significava per lei la solitudine, e la solitudine lassù, nel cupo castello perduto nella macchia, era cosa da dare i brividi.

    Enzo era partito da due ore soltanto, imbruniva e con la notte era calato un temporale violento.

    Ritta, presso una delle grandi finestre, la contessa aspettava immobile la fine della bufera: il suo viso pallido e angosciato rivelava tutto lo strazio dell’anima inquieta, le mani istintivamente congiunte in atto di preghiera tremavano un poco come le labbra.

    Fuori, la pioggia continuava a battere furiosamente sui vetri.

    I servi sparecchiavano silenziosi, osservando tratto tratto la loro signora.

    — Accendete le lampade, Pietro, — osservò Fanny, la cameriera della contessa. E, avvicinandosi poi a Clotilde, una vecchia domestica della casa: — Che ne dite? — sussurrò.

    La donna alzò gli occhi interrogando.

    — Del tempo? Brutto. Il padrone passerà un cattivo quarto d’ora.

    — Pensate che non troverà nessun asilo sulla montagna?

    — Eh, dipende! — continuò Clotilde senza mostrarsi troppo inquieta. — Se il tempo li ha presi passato il valico, sì, ma altrimenti…

    Scosse il capo con una smorfia significante, ma mentre Fanny si sentiva gelare il sangue all’idea d’una disgrazia possibile, Clotilde non pareva troppo commossa.

    Il suo freddo occhio azzurro guardava calmo e pungente con una punta di crudeltà, che la giovane cameriera rivelò.

    — Povera la mia signora! — sussurrò soltanto, guardandola.

    — Fanny, — chiamò in quel momento la contessa volgendosi verso le due donne, — ho paura, Fanny.

    Pareva una bambina invocante pietà.

    — Fatevi coraggio, signora, non sarà nulla. Anche la Clotilde dice che non c’è da spaventarsi.

    La contessa si rivolse alla governante:

    — Davvero?

    — Eh, signora! — fece questa leggermente sprezzante, — dovete vederne altre in questi posti se vi fermerete!

    Poi, malgrado i cenni disperati di Fanny perchè stesse zitta, cominciò a narrare episodi, uno più truce dell’altro, con uno scilinguagnolo tanto inesauribile che la contessa doveva a momenti socchiudere gli occhi sotto quella tempesta di parole.

    Ma narrava bene, era romana, aveva la parola facile ed abbondante, la pittura viva, la fantasia pronta.

    A volte diceva cose orribili che invece di tranquillizzare la contessa riuscivano a darle brividi di spavento.

    Così quando raccontò d’un certo viaggio del conte Enzo da Crosio a Canoscio: in una macchia cupa i briganti gli avevano sparato contro parecchie fucilate secche andate tutte a vuoto; egli s’era salvato cacciando gli sproni nel ventre del cavallo, eccitandolo colla voce a una fuga disperata, e alla uscita della macchia il cavallo era caduto morto.

    — Basta! per carità, — sussurrò la contessa alla fine del racconto.

    — Eh, non bisogna pensarci, signora! Dapprima si capisce che fa un po’ impressione, poi ci s’abitua e non ci si bada più. Nessuno ci pensa qui.

    Un furioso latrar di cani fuori nel cortile l’interruppe.

    Le tre donne si guardarono.

    — Enzo! — esclamò istintivamente la contessa balzando in piedi.

    Ma Clotilde più pronta l’aveva già prevenuta.

    — Impossibile, signora, — disse avviandosi per aprire.

    — Mandate Pietro a vedere.

    — Esco io, signora.

    La sala aveva due uscite: una sul corridoio, l’altra in cucina.

    Clotilde prese la prima; nell’atrio incontrò Pietro che con una lampada in mano s’avviava già per vedere.

    — Vado io, Pietro, — disse la donna, respingendolo.

    — Come, vuoi?

    Era strano ch’essa uscisse sola con quel tempo d’inferno.

    — Sì, la signora sarà più persuasa.

    Il garzone l’osservò un attimo, tentennando il capo: gli parve un po’ sospetta quella premura così umile, ma non disse parola e rientrò in cucina lieto d’essersi risparmiata una doccia.

    Clotilde depose in terra la lampada che si spense appena aperta la porta: una raffica di vento furioso la investi respingendola un momento, poi s’avanzò di nuovo e gettò un’occhiata nel cortile deserto; i due cani legati alla catena erano però sempre ritti colla testa alzata, le orecchie tese e brontolavano sordamente.

    Verso il muro di cinta, un’ombra nera strisciò un istante rasente terra, poi scomparve sotto una tettoia che serviva da ripostiglio e da legnaia.

    Clotilde vide distintamente l’ombra: un attimo il cuore le battè forte ed ebbe anche l’idea di gridare. Poi brontolò una frasaccia e, acquetati i cani con una carezza, raccolse la lampada e rientrò in salotto.

    Era tutta fradicia.

    — Nulla, — disse, — sforzandosi di sorridere. Ma era pallidissima e tremava un poco.

    — Povera Clotilde! avete avuto paura, vero? — domandò la contessa premurosamente.

    — Che! Paura d’un po’ di acqua?

    — Cosa avevano dunque i cani?

    — E chi lo sa? A volte un nonnulla basta per inquietarli: un gatto, l’ombra d’una pianta, un rumore lontano. Sono tanto attenti i barboni del signor conte!

    Disse tutto nervosamente con l’occhio più vivo e l’accento secco.

    Intanto il temporale s’era calmato un po’: fuori, al campanile lontano del paese, batterono le nove.

    Anche la contessa pareva più tranquilla.

    — Come sono lente queste serate, — sussurrò, come parlando a se stessa.

    — Eh, tutto dipende d’abituarcisi, — replicò ancora Clotilde.

    — Sicuro! Voi ci siete abituata, vero? Ci siete da tanti anni qui?

    Era strana la domanda: strano che la contessa non sapesse da quanto tempo una donna era nella casa di suo marito.

    Enzo le aveva bensì detto che all’Assolata ella avrebbe trovato una donna fida, cresciuta colà e affezionatissima, ma tutta assorbita dalla sua felicità recente, ella non si era mai troppo occupata della servitù.

    Clotilde aveva arrossito violentemente.

    — Ci sono da quindici anni, — mormorò.

    E per la prima volta la contessa l’osservò bene: era ancor giovine la Clotilde; poteva avere trent’anni al più, e bella di quella bellezza sana e rigogliosa propria delle donne romane. Alta, forte di petto e di fianchi, bionda e colorita, vero ritratto di donna fiorente.

    E quella donna da quindici anni stava nella casa di suo marito, lo aveva conosciuto quasi ancora bambino, ne sapeva le abitudini, le prodezze, il passato tutto.

    — Da quindici anni! — ripetè piano quasi pensando. — È molto.

    Clotilde tacque.

    — Avete conosciuto allora i parenti del conte?

    — Se li ho conosciuti? Credo bene! la contessa mi voleva bene come a una figliola; la contessina Vera mi teneva come una sorella. E il sor Roberto dunque! Era piccino piccino come un frugolo quando io venni qua. Me lo davano perchè lo custodissi e vi so dire che n’aveva dell’argento vivo addosso! Tutto il giorno quant’è lungo era un correre e gridare su pei greppi, nella macchia, pei fossi! Non si poteva tenerlo quel figliolo!

    La contessa sorrise.

    — Gli vorreste bene allora, eh?

    — Come a un mio figliolo! — sospirò la Clotilde. — Quando partì so io se ne feci del piangere!

    Davvero pareva commuoversi ancora.

    E la contessa sembrava interessarsi a quel cognato lontano, solo per il mondo.

    Un desiderio ardente la prendeva ora di conoscere un po’ l’intimo passato del marito, ma non sapeva come interrogare.

    Finalmente trovò:

    — Quando andò sposa la contessina Vera, — disse, — rimaneste sola qua?

    — Oh no; — disse la donna corruscando la fronte, — c’era pure il conte Enzo.

    — E non s’annoiava solo quassù?

    — Eh, — replicò la Clotilde, — allora c’era il marchesino Fabiani che gli teneva compagnia; erano sempre insieme su per la macchia, a caccia; facevano molte gite a cavallo, sovente andavano insieme a Vallalba e vi restavano delle settimane.

    La contessa sorrideva.

    Sì, essa conosceva tutto quel passato: così le aveva pur narrato il suo Enzo, di una gioventù austera trascorsa tutta nella rude e sana vita dei monti, vergine di cuore e di spirito, altero e coraggioso come un eroe di leggende antiche.

    Così le era apparso un giorno negli splendidi saloni di, una delle prime case fiorentine, conquistandola subito colla franchezza dello sguardo, col largo sorriso sempre fiorente sotto i fini baffi nerissimi.

    La dolcezza dei ricordi l’assorbì un poco e, abbandonandovisi tutta, finì quasi per assopirsi nell’ampia poltrona antica.

    Un’altra volta la vasta sala ricadde nel silenzio.

    Un’altra volta suonarono lontano le ore: le undici.

    Le due domestiche lavoravano silenziose accanto al tavolo sotto la raccolta luce del paralume. Nessun rumore più neppur fuori. Tratto tratto, un colpo sordo e forte veniva dalla rimessa: una zampata di cavallo, che tutti conoscevano, che non spaventava più nessuno.

    Però a un tratto s’udì distintamente uno scricchiolio secco ed improvviso.

    La contessa, destata di soprassalto dalle sue dolci fantasticherie, trasalì.

    — Che è? — domandò turbata tendendo l’orecchio.

    Fanny guardò la governante. Anche questa era impallidita, ma con calma umile disse:

    — Perdonate, signora contessa, sono stata io colla sedia.

    — Ah! m’era parso fuori! Che spavento!

    — Anche a me era parso fuori, — disse. — No, fu proprio la sedia.

    — Che ore sono? — chiese ancora la contessa.

    — Le undici suonate, signora, — s’affrettò a soggiungere Fanny che cascava dal sonno.

    — Le undici? È ora d’andar a dormire allora. Passerà più presto la notte.

    Tutta premurosa Clotilde domandò:

    — La signora non ha bisogno di nulla?

    — No, grazie, Clotilde; Fanny m’aiuterà a spogliarmi. Voi date un’occhiata agli usci che sieno tutti ben chiusi e poi andatevene pure a dormire.

    — Non dubiti la signora.

    Stette a vederla uscire, s’avvicinò anche alla porta per udirla salire le scale seguita dalla sua fida cameriera e solo quando ebbe la certezza che l’uscio dell’appartamento sopra era stato chiuso, ritornò nel mezzo della sala. Il suo viso s’era trasformato: pallida come una morta, aveva tutta la vita e la forza concentrata negli occhi. Le tremavano non poco le mani e pareva inquietissima.

    Stette un poco come dubbiosa, pensando; poi andò in cucina: da un armadio fisso nel muro che serviva di rastrelliera ai molti fucili del conte, trasse una rivoltella, la caricò, la pose nella tasca del grembiulone ampio da massaia: accese una lanterna cieca, ritornò in salotto, spense il lume sopra la tavola, poi molto cautamente uscì nel corridoio che metteva nel cortile. Prima d’aprire l’uscio di questo s’accertò che tutti, garzoni, servo e giardiniere dormissero. Stette un momento in ascolto.

    Attraverso l’uscio che metteva nelle stanze terrene occupate dagli uomini, si sentiva russare sonoramente. Respirò.

    Aperse pianissimo la porta assicurata da due sbarre di ferro incrociate, poi richiuse. Accarezzò i due cani che pronti s’erano alzati al suo comparire, li acquetò, depose la lampada presso l’uscio e, impugnata la rivoltella, si avvicinò cautamente alla legnaia dove, due ore prima, aveva veduto strisciare l’ombra sospetta.

    Non udì il minimo rumore.

    Quando rientrò, dopo pochi minuti, e raccolta la lampada s’avviò verso la sua stanza da letto, il suo volto, già pallido, era divenuto cadaverico: gli occhi avevano una strana luce crudele, e le mani tremanti ebbero appena la forza di togliere lentamente le capsule della rivoltella e di rimetterla al posto dove l’aveva presa.

    Ciò fatto si spogliò nervosamente e si cacciò sotto le coltri.

    Intanto, sopra, nell’appartamento della contessa, Fanny finiva la toletta notturna della sua signora. Bellissima nell’accappatoio azzurro, coi biondi capelli raccolti In una treccia copiosa, la giovane sposa pareva più una bimba che una donna.

    Quand’ebbe finito, vedendo che la contessa non si alzava dalla poltrona, la cameriera rimase un momento immobile in mezzo alla camera aspettando gli ordini.

    Ma gli ordini non venivano ad essa cascava dal sonno.

    — La signora desidera che io la spogli?

    — No, mia buona Fanny, non ho sonno e non dormirò così subito. Vai pure a coricarti farò da me. Addio.

    Buon riposo alla signora, — disse rispettosamente la fanciulla, e felice di potersi riposare se ne andò. Dieci minuti dopo, essa dormiva già profondamente e tutta la casa era immersa nel silenzio e nell’oscurità più profonda.

    La contessa rimase ancora un poco immobile, poi s’inginocchiò sul suo inginocchiatoio e piamente cominciò le preghiere.

    Era triste ancora e un po’ inquieta, in fondo, pensando al marito lontano.

    Quella camera nuziale, ampia e severa, col gran letto tutto nascosto dalle cortine, era troppo malinconica: vi si stava tanto bene in due, ma sola, sola, oh, quanto era triste!

    — Non potrò dormire, — pensò.

    S’avvicinò un istante all’ampia finestra che metteva su un balcone, ma mentre stava per aprirla, pn lampo solcò l’azzurro del cielo e la fece rabbrividire.

    — Ricomincia il temporale — mormorò, — sarà meglio ch’io vada a letto; se non potrò dormire, leggerò.

    Da una piccola biblioteca, appesa nell’angolo, trasse una Bibbia finemente rilegata e la depose sul tavolino accanto al letto.

    Ciò fatto, slacciò lentamente la vestaglia azzurra e apparve bianca, fine come un giglio flessuoso.

    Mentre si chinava per raccogliere l’accappatoio caduto, un colpo aspro, secco, di vetro spezzato, la fece trasalire.

    Si volse palpitante e il terrore, che la paralizzò tutta, le strozzò in gola un grido d’angoscia.

    La finestra del balcone s’era spalancata e di fronte a lei, ritto nel vano buio stava un uomo mascherato.

    — Una sola parola, un grido, e siete perduta! — disse lo sconosciuto avvicinandosi e puntando verso il suo petto la canna lucida d’una rivoltella.

    La contessa non pensava certo a gridare: pallida e tremante, orribilmente spaventata, ella si sentiva perduta. Non sarebbe stata neppur capace di muoversi o d’articolare parola. Tutte le orribili e truci storie di assassini, di rapimenti, di briganti le si affollarono a un tratto confusainente nel cervello come una vertigine.

    E nell’atroce spavento di quell’apparizione un’idea sola chiara e viva: un bandito!

    — Guardatemi, — riprese lo sconosciuto, — non voglio farvi alcun male.

    E suo malgrado, colpita dallo strano tono di quella voce quasi gentile, tanto diversa da quella imperiosa e terribile di pochi istanti prima, la povera smarrita osò alzare gli occhi.

    L’uomo s’era strappata la maschera e apparve allora qual era — un bellissimo giovane di forse venticinque anni. — Malgrado lo strano e rozzo costume di fustagno blu e il cappellaccio calato tutto sugli occhi, la posa e il gesto rivelavano in lui l’origine non ignobile. Pallido e bruno, aveva gli occhi fosforescenti e la bocca tumida e contratta.

    Un attimo, quando il suo sguardo incontrò quello della contessa smarrito e pieno d’angoscia, parve esitare; poi, un’espressione d’odio feroce gli fece stringere i denti e currugare la fronte.

    — Contessa Galluri, — disse freddo con voce cupa, stranamente contrastante colle parole che pronunciava, — non v’ucciderò.

    Clara, che queste parole rianimarono un po’, cadde a ginocchi e, giungendo le mani verso il bandito:

    — Pietà! — esclamò.

    L’occhio di lui la percorse tutta da capo a piedi e la sua bocca pronunciò una sola frase:

    — Siete bella assai!

    — Pietà! — ella ripetè, tremando.

    — Siete bella e vi amo! — replicò il bandito chinandosi verso di lei.

    Raccolse fra le braccia una creatura svenuta che pareva essere già stata toccata dalla morte.

    A quell’ora il conte Enzo Galluri giungeva a San Giustino.

    Sorpreso dal temporale, egli aveva dovuto fermarsi, poco dopo superato il valico, in una vecchia rimessa lasciata sulla montagna a comodo dei viaggiatori. Così, invece di arrivare alla meta prima di notte, vi giungeva poco prima dell’alba.

    Ma lo attendeva una sorpresa inaspettata: l’uomo da lui mandato in Maremma era giunto nella notte stessa coi cavalli tutti sani e forti ed egli stesso non era per nulla indisposto.

    Se da una parte gli recava assai piacere la certezza di vedere il colono e i cavalli tutti sani, dall’altra, il conte Enzo non sapeva però spiegarsi come mai e da chi venisse quello scherzo di cattivo genere, nè comprendere il perchè di quel falso messaggio.

    Dopo un inutile fantasticare, si coricò volendo riposare almeno qualche ora prima di riprendere la via di Crosio. Ma, malgrado la fatica del viaggio, non potè addormentarsi.

    Il pensiero dell’inganno tesogli lo teneva assai inquieto: qualcuno certo doveva aver avuto interesse ch’egli facesse quel viaggio: ma chi era questo qualcuno?

    Pensò a un tiro da banditi; lo volessero depredare?

    In tal caso come spiegarsi il viaggio fatto tutto senza molestie?

    Avessero intenzione d’aggredirlo nel ritorno per rapirgli i cavalli?

    Anche questa supposizione non lo persuadeva; i briganti avrebbero anzi fatto meglio il loro giuoco aggredendo solo il garzone che faceva da guida.

    Ad ogni modo, però, sarebbe stato in guardia nel ritorno.

    Così disposto, chiuse gli occhi e passò un paio d’ore in un dormiveglia riposante.

    Quando s’alzò spuntava già il sole lontano dietro le vette del Catria.

    I cavalli furono presto pronti, e siccome nulla di anormale si annunziava, la

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