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Goccia d'oro
Goccia d'oro
Goccia d'oro
E-book201 pagine2 ore

Goccia d'oro

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Info su questo ebook

"E dopo un momento entrò nella saletta colei il cui nome era divenuto in quei giorni sinonimo di bellezza e d'amore, la stupenda figlia minore del Granduca, Isabella dei Medici duchessa Orsini di Bracciano, che il padre aveva chiamata per vezzeggiativo, quand'era bambina, Goccia d'oro".In un XVI secolo vivido e crudele, animato da grandi amori e inconfessabili violenze, la giovane Isabella De' Medici è maritata dal padre Cosimo al duca Paolo Giordano Orsini. Affidata da quest'ultimo al cugino Troilo, lei – che è la "Goccia d'oro" che dà il titolo al romanzo – dovrà sottostare a un controllo duro e apparentemente inevitabile. Proprio lei, Isabella, che è così vitale, condannata a un destino simile! Fra intrighi e scandali appassionanti, Alfredo Pitta ci immerge così nelle atmosfere irresistibili del Rinascimento, prendendo le mosse da fatti tanto tragici quanto realmente accaduti.-
LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2023
ISBN9788728552919
Goccia d'oro

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    Anteprima del libro

    Goccia d'oro - Alfredo Pitta

    Goccia d'oro

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1935, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728552919

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    GOCCIA D’ORO

    PARTE PRIMA

    BELDIMONIO

    I. IL BEL MISTERO

    N onostante la notte tepida, una serena e profumata notte di maggio, i due uomini che passavano pel senticruolo che serviva da scoreiatoia alla strada maestra, nel punto in cui essa faceva un’ampia curva, erano avvolti nei ferraioli; e certo per precauzione, avevano la tesa del cappello tirata fin sugli occhi. Precauzione inutile, però, si sarebbe detto, poiché la bassura intorno alla quale la strada girava era deserta, come si poteva vedere al lieve chiarore della luna al suo primo quarto; a meno che qualcuno non fosse stato nascosto fra le felci e i cespugli che ne formavano l’unica vegetazione. A questo parve pensare il piú alto dei due viandanti allorché, a un certo punto, si apri sbuffando il mantello.

    — E che diamine hai, Buffalaccio? — esclamò l’altro. — Tieni proprio a far conoscenza con la forca? Avvolgiti nel mantello, ti dico!

    — Ma se crepo dal caldo! — replicò colui che era stato chiamato Buffalaccio. — E poi, chi volete che ci veda, se siamo quasi in palude, qui?

    — Fa come voglio, e forse acconsentirò a spiegartelo… Oh, cosí! Ed ora, figliuolo, ti dirò ciò che avresti dovuto capire da te, se non fosse anche troppo vero che piú si è grandi e grossi, meno cervello si ha. Non vedi che le felci sono cosí alte e fitte che qualcuno potrebbe esservi nascosto? E se questo qualcuno ci vedesse, non potrebbe dire domani, a cose fatte, che qui è passato un gigante cosí e cosí, con un tale che rassomiglia maledettamente a un certo…

    — Ebbene, e che c’è, ora? — fece Buffalaccio, dopo essere rimasto un momento a bocca aperta per la meraviglia.

    Il suo compagno si era interrotto improvvisamente, ed era corso verso un punto della bassura lontano una trentina di passi. Là egli parve cercare fra le felci, poi, tratta la spada dal fodero, prese a foracchiare qua e là i cespugli. Infine si udirono un gemito di dolore, e un’esclamazione di trionfo da parte di colui che cercava. In quattro salti Buffalaccio fu accanto al compagno; e fu lui che, chinatosi, trasse di fra le felci, tenendolo per la collottola come un can barbone, un ometto smilzo e mingherlino, che si raccomandava a tutti i santi del paradiso, torcendosi come un’anguilla.

    — Sta cheto! — brontolò il gigante; e applicò sulla bocca del malcapitato una manaccia larga come un piattello. Poi gli diede uno scossone da mozzargli il fiato, e soggiunse: — E sta fermo, anche. Con l’agitarti cosí mi fai il solletico.

    — Posalo a terra — ordinò il suo compagno; — ma tieniti pronto a strozzarlo se alza la voce o fa qualche scherzo.

    Buffalaccio ubbidí; ma dovette sorreggere lo sconosciuto, perché a questi le gambe tremavano tanto, che non avrebbe potuto stare in piedi. Poi fu il meno alto dei due che cominciò, con voce breve, una specie d’interrogatorio, al quale l’ometto rispondeva a voce bassa e tremante.

    — Chi sei, prima di tutto? E rispondi a tono.

    — Messere… Sono un pover’uomo… Mi chiamo Cecco…

    — Cecco che cosa?

    — Cecco dell’Abate…

    — E che cosa fai? La spia?

    — Oh, la spia, messere! No, no…

    — E che cosa allora? Sbrigati, ché non ho tempo da perdere. E dimmi anche che cosa facevi qui, appiattato come un coniglio.

    — Ecco, messere… — E l’ometto tremava come se avesse la febbre terzana. — Ecco, io sono un povero servitore… E il mio padrone mi ha ordinato… di star qui nascosto a vedere se… Insomma, messere, si tratta di una dama, ecco…

    — Ah! Se non ho capito male, tu vorresti darmi a intendere che il tuo padrone e la sua dama hanno appuntamento qua, fra le felci. Sarebbe carina, in verità! Orsú, parla chiaro, o non avrai neppure il tempo di pentirtene. Chi è il tuo padrone?

    — E sbrigati — soggiunse, con la sua vociaccia fonda, Buffalaccio, avanzando minacciosamente la mano.

    — Misericordia! Ma… ma se parlo sono morto!

    — Piú certamente morto sarai se taci — soggiunse quietamente il compagno di Buffalaccio. — Per l’ultima volta, vuoi parlare, sí o no?

    Il disgraziato Cecco dell’Abate volse attorno gli occhi, forse per vedere se potesse sperare in un aiuto, forse per accertarsi che nessuno lo vedesse tradire il suo padrone; poi si alzò in punta di piedi e susurrò un nome all’orecchio dell’interrogante. Questi fece uno sforzo come per ricordarsi di qualche cosa, poi sorrise e riprese:

    — Credo di aver capito, se però è vero ciò che si dice. E allora la dama sarebbe?…

    — Per amor del Cielo, messere, non parlate cosí forte! Vi giuro sull’anima mia che non so chi sia la dama… No, no, certo non quella che pensate voi… Sapete che arrischio di farmi squartar vivo?

    — Bene, bene, la cosa non sarebbe poi tanto terribile per me; quanto a te, o prima, o dopo… E ora dimmi che cosa dovevi fare qui.

    Ancora una volta l’ometto esitò; poi parve risolversi, e di nuovo susurrò qualche parola all’orecchio dello sconosciuto. Questi scrollò la testa pensosamente, e per un po’ parve rimanere a riflettere; infine concluse:

    — Bene, bene, fa dunque il tuo sozzo mestiere, e rimani dove sei. Ma bada, se dicessi una mezza parola soltanto di quest’incontro che hai fatto, non vi sarebbero né santi né granduchi a salvarti. Per persuadertene ti farò a mia volta una confidenza: io sono…

    E questa volta lo sconosciuto si chinò lui all’orecchio del suo tremante ascoltatore a susurrargli un nome. L’ometto rabbrividí, stralunò gli occhi, e fece per fuggire; ma la salda mano di Buffalaccio lo rattenne, non tanto però che egli non cadesse in ginocchio, giungendo le mani e balbettando parole incoerenti pel terrore.

    — Siamo intesi, allora — concluse quietamente lo sconosciuto. — Acqua in bocca, se tieni alla pelle. E un altro consiglio: se odi un po’ di fracasso, non ti curare di accorrere.

    Buffalaccio diede un ultimo scossone al disgraziatissimo Cecco, poi si allontanò col suo compagno senza neppure volgersi indietro.

    — In verità, messer Vanni — brontolò poi egli quando furono giunti di nuovo nel sentiero, ed ebbero ripreso a camminare verso il punto in cui la strada maestra, compiuta la curva, ritornava diritta passando in un rado boschetto — credo che sia stata un’imprudenza bell’e buona, la vostra. O non dovevate dire il vostro nome a quel briccone, o bisognava torcergli il collo subito dopo. Se poc’anzi temevate che ci vedessero!

    — Non aver paura, so quel che faccio — rise l’altro. — E piuttosto affrettiamo il passo, ché se non mi sbaglio, stanotte ci sarà da menar le mani.

    Buffalaccio non replicò che con un indistinto brontolio; ed entrambi proseguirono piú rapidamente, finché non furono giunti alla strada maestra. Là colui che era stato chiamato Vanni si volse a guardare verso la bassura, e nulla vide: Cecco dell’Abate doveva essersi rintanato di nuovo, se pure non aveva perduto i sensi dal terrore. Poi egli parve scrutare attentamente la strada, che ora si svolgeva diritta come un nastro per un mezzo miglio e che la falce della luna illuminava debolmente: nessuno. A un cinquanta passi, a destra e un po’ indietro, era una vecchia casa, si sarebbe detto meglio un palazzotto di puro stile del trecento, dai muri nerastri e che cosí, a occhio e croce, pareva quasi cadente. Nessuna delle cinque o sei finestre che la punteggiavano irregolarmente appariva illuminata, e si sarebbe potuto credere che il piccolo edificio fosse disabitato.

    — V’interessa la Pinolaia, messer Vanni? — susurrò Buffalaccio, accennando col capo al palazzotto.

    — Sta zitto, e vieni con me — rispose Vanni, mettendosi la mano aperta dietro l’orecchio, come a cogliere qualche lieve rumore in quel gran silenzio intorno.

    Ma nulla si udiva; e poco dopo i due uomini, a passo di lupo, entravano nel boschetto, dirigendosi verso quella che era stata chiamata la Pinolaia.

    La quale disabitata non era, come avrebbe potuto accertare chi si fosse trovato sulla bella loggetta al primo piano, che girava attorno a due lati dell’edificio. E infatti nell’angolo rientrante di essa, che sarebbe stato visibile solo dal boschetto, una porticina socchiusa lasciava filtrare un tenue raggio di luce.

    Era là una stanza sontuosamente quanto semplicemente arredata; vale a dire che i mobili erano scarsi, come comportava l’usanza del tempo, ma di gran pregio artistico, e alle pareti pendevano arazzi di squisita fattura, venuti di Fiandra. Accanto a un tavolino di legno prezioso era una specie di lettuccio a sdraio, e stesa su questo una donna dalle vesti ricchissime, che dall’insieme, e da ciò che si poteva vedere del viso, si sarebbe creduto dovesse essere giovanissima e bella. Aveva una mascherina di raso nero. I capelli, vere matasse di seta del color dell’oro vecchio, erano raccolti in una reticella di filo d’oro tempestata di perle. La luce delle tre candele infisse in un candelabro d’oro ne illuminava le forme perfette, e metteva come una nota calda su quella parte del petto che la scollatura quadrata lasciava scoperta e che forse sarebbe apparsa troppo bianca. Dai fori della maschera si vedevano, ora brillare ora socchiudersi come in languore, due stupendi occhi neri.

    A un certo punto ella mandò un profondo sospiro, e stese la mano delicata a prendere un libro. Ma lo aveva appena aperto, scorrendone alcune pagine con fare distratto, che si udí picchiare lievissimamente alla porticina che dava sulla loggetta.

    — Avanti! — E la dama si raddrizzò a sedere, coprendosi rapidamente la testa con un velo che aveva a portata di mano.

    La porticina si apri lentamente, e ne entrò un giovane cavaliere vestito di velluto nero, avvolto in un breve mantello anch’esso nero. Egli si tolse rispettosamente il berretto quando era ancora sulla soglia, richiuse pianamente, poi andò a inginocchiarsi davanti alla dama, che gli stendeva le mani con un sorriso che mostrava i denti piccoli e bianchissimi, in vivo contrasto col nero della maschera. Coperti com’erano dal velo, non si vedevano piú i bei capelli del color dell’oro vecchio; e gli occhi neri erano socchiusi, per quel sorriso che scavava due fossette nelle guance rosee.

    — Madonna! Madonna! — susurrò il nuovo venuto, baciando e ribaciando quelle mani piccole e bianche con una specie di avidità. — Temevo… temevo che il vostro fosse un crudele scherzo. Oh, come mi sarei potuto aspettare quest’ora di paradiso?

    — Aspettate a chiamarla di paradiso, messer Lanciotto — replicò la dama a bassa voce; e si sentiva che quella voce doveva essere fresca e dolce, sebbene ella la smorzasse in modo da farne poco piú che un susurrio.

    — Oh, madonna! E non è già un paradiso l’essere qui alle vostre ginocchia, a baciarvi le mani, quando ho dovuto accontentarmi di vedervi da lontano e di udirvi susurrare appena qualche parola? Ora almeno posso dirvi quanto, quanto vi amo! Ma non volete togliervi la maschera per me? Temete certo che la vostra bellezza mi abbagli… Ma sempre la maschera, sempre il velo…

    — Ecco che divenite troppo ghiotto — rise pianamente la dama. — Ma ora, via, mettetevi a sedere qui, accanto a me, e parliamo. Ma parliamo seriamente, eh?

    Ed ella minacciava scherzosamente con l’indice il giovane, che ora la guardava un po’ istupidito, da vero innamorato. Egli afferrò quel piccolo dito e se lo portò alle labbra; ma la dama ritrasse prontamente la mano.

    — No, no: seriamente, vi ho detto — susurrò ella; e intanto, femminilmente, lo guardava con quei suoi stupendi occhi neri che pareva chiedessero e promettessero amore. — Ho qualche cosa da raccontarvi: ed è per questo che vi ho fatto venir qui.

    — Per questo soltanto! — mormorò messer Lanciotto dolorosamente.

    — Ingrato!

    — Oh, è vero, è vero! Avete ragione, madonna! Quella sera, a Calendimaggio, quando mi sfioraste il viso con la rosa che avevate in mano, e mi gettaste con gli occhi un incantesimo che durerà fino alla morte, mi sarei ritenuto beato se avessi potuto soltanto toccarvi la punta delle dita; ed ora… Oh, ma vedete, vi amo tanto! Ed incantesimo dev’essere questo, poiché non so chi siate, non conosco il vostro viso, non so neppure quale sia il colore dei vostri capelli, per via di codesto velo che mi toglie anche questa gioia, eppure morirei per voi. Siete bruna, vero, madonna? Ditemelo, mio bel mistero, e io andrò ad ammirare tutte le sante di maestro Giorgio, che sono brune, per avere la gioia di dire che nessuna ha la vostra splendida bellezza…

    — Non vi piacciono le bionde, allora? — sorrise la dama.

    — Oh, sí! Si dicono tante cose della bellezza di Madonna Isabella, che io non ho avuto mai occasione di vedere… Ed ella è bionda, a quanto ho udito, di un color d’oro opaco che ha fatto ammattire maestro Lapo quando ha voluto ritrarlo sulla tela…

    — Con quanto entusiasmo parlate di madonna Isabella! — interruppe la dama. — E dite di non conoscerla? Debbo crederlo?

    — No che non la conosco, sull’anima mia! Ripetevo soltanto ciò che se ne dice… Ma voi la conoscete certo, poiché siete delle dame della Corte, vero?

    — Certo che la conosco, per quanto non corra molto buon sangue fra lei e la mia signora…

    — E chi è dunque la vostra signora?

    — Eleonora di Toledo, indiscreto che siete. Ve lo dico perché altrimenti non sapreste spiegarvi come mai ho potuto avere le chiavi della Pinolaia per venirci ad attendere, a tarda sera, un certo curioso che non mi lascia dirgli ciò che debbo dirgli.

    — Oh, perdonatemi, perdonatemi, madonna! Ma se sapeste come sono assetato di udire la vostra voce, la vera, di vedervi il viso, di sapere almeno il vostro nome, che dev’essere dolcissimo a pronunciare, quel nome col quale potrei chiamare il meraviglioso fantasma che vedo sempre, sempre…

    — Zitto! — interruppe vivamente la dama mascherata, afferrando la mano del giovane cavaliere, che le si era posto a sedere accanto. — Non avete

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