Gli amori malvagi: Dieci storie di ordinaria violenza
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Info su questo ebook
Frutto di una ricerca sul campo durata tre anni in vari centri antiviolenza, il libro raccoglie dieci testimonianze (sulle oltre cento ascoltate) di donne violate da fidanzati, mariti, presunti amici.
Le protagoniste si raccontano con onestà e crudezza, dopo percorsi spesso segnati da rassegnazione, istinto protettivo nei confronti dei figli, denuncia dei carnefici, sensi di colpa, timore del giudizio altrui e depressione.
Cristallizzato in un istante infinito di dolore, il racconto della violenza subita puntando il dito sull'incapacità manifestata da molti uomini, e spesso in situazioni considerate normali e ordinarie, di costruire con le loro compagne rapporti maturi e di reciproco rispetto.
Dieci racconti nudi e crudi, feroci e drammatici, scritti con iperreale narrazione da Anna Macrì, attrice, scrittrice e poetessa.
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Anteprima del libro
Gli amori malvagi - Anna Macrì
© 2024 Bibliotheka Edizioni
www.bibliotheka.it
I edizione, gennaio 2024
Isbn 9788869348952
e-Isbn 9788869348969
Tutti i diritti riservati
Anna Macrì
Attrice versatile, ha ricoperto ruoli drammatici e brillanti, tragedia e commedia dell’arte, teatro danza e dell’assurdo.
In nomination al David di Donatello per il cortometraggio Onora la Madre, vincitore Best Short 2018 di Matera, è stata nel cast del film di Volfango De Biasi Nessuno come noi.
Per il teatro ha scritto e rappresentato Cria da Marè su Marielle Franco, politica, sociologa e attivista brasiliana assassinata nel 2018.Attore e finto sceneggiatore
della serie cult Boris.
Se lo lasciassi sarei persa, non so fare altro che la bestia da soma di un uomo. Non so che cucinare, rassettare, stirare, rammendare e aprire le gambe quando vuole
.
Prefazione
Rovesciare i poteri asimmetrici
Prima o poi avrei dovuto incrociarmi con il suo sguardo e trovare in esso anche la mia direzione. Gli occhi con cui Anna osserva sono quelli, senza filtro, della verità. Al dolore cerchiamo sempre una qualche mediazione. Un’attrice lo rappresenta nella sua essenza, vivo, pulsante come l’anima che è stata tradita dalla violenza. Lunghe telefonate alla ricerca di un filo logico del discorso, ma la violenza non appartiene all’orizzonte della logica e ora la mano che mi fa scorrere lungo questo foglio bianco è l’empatia. A essa ho affidato il compito di avvicinare alla lettura e alla comprensione di questo testo.
L’empatia, d’altra parte, è il vero filo conduttore di queste storie allucinanti. Quell’empatia che ti scorre nelle vene quando incontri tua sorella e a pelle percepisci quello che per lei significano le parole. Sentimenti ed emozioni che creano una relazione profonda, da sorelle che hanno condiviso l’esperienza drammatica della violenza, delle tante violenze che ogni giorno la donna deve subire. Per questo ogni violenza che colpisce una donna è come se le colpisse tutte. Quell’empatia è anche rispecchiamento di sé e di altre donne, quelle rappresentate, quelle che leggono e che ritroveranno nelle pagine di Anna verità inascoltate. Sordo il dolore che si esprime nella sua essenza più profonda, cruda, priva di scrupoli. Non si può edulcorare il dolore. È quello, drammaticamente.
Ho chiesto ad Anna il perché di questa scelta. È una scelta di campo. Se decidi che il dolore deve essere il protagonista incondizionato, non si può velare, ma deve emergere senza giustificazioni di fondo; deve poter esprimere l’asimmetria di potere, il dominio esercitato sulla donna da un sistema malato che la riduce ad oggetto e vittima. Anche se poi ogni donna troverà il proprio canale di sfogo, sublimazione o razionalizzazione, la gratuità del male che si sprigiona nella violenza si traduce in banalità del male, irrazionale, incomprensibile. Quell’attimo, diventa l’attimo
della propria vita di fronte al quale evapora come in un incantesimo la propria storia, la propria identità. La violenza che genera orrore dovrebbe almeno trovare una risposta nella giustizia. Neppure quella riesce a ricomporre l’infranto. La giustizia si esaurisce in un senza giustizia
, la vittima rimarrà tale per sempre. Sbiadito ogni legame con il passato e con sé stessa cosa rimarrà alla donna? Il lento portarsi avanti di sogni rubati, aspettative negate, speranze tradite, che attendono di essere ricomposte.
L’amore non è mai malefico, non potrebbe, per struttura semantica, tradursi nel suo contrario. E così il malamore
è l’ossimoro che rappresenta dolore e svuotamento di ogni alternativa.
La violenza produce linguisticamente un ossimoro, che nell’esistenza si traduce in dolore, rassegnazione e colpevolezza. La contraddizione irrisolvibile come un enigma a più incognite. L’amore diventa il suo contrario, una condizione dell’essere, non semplicemente una qualifica.
Anna racconta storie. Immergendoci nella lettura ci chiediamo se davvero possa esistere una tale vergogna, oggi che questo termine è stato stralciato dal vocabolario dei sentimenti. Vergogna da parte del carnefice che freddamente bracca la sua preda, divenuta oggetto di desiderio, vittima di inganni. Isolata dal mondo intero, che si staglia come sfondo di indifferenza e impassibilità. Una tragedia nella tragedia quotidiana, quella di dover affrontare il mostro da sola.
«Ci si abitua a tutto – afferma Rita – ed ho scoperto che l’ipocrisia del mondo rende più facile la mia sopravvivenza e il perpetrarsi del crimine».
Il trauma della violenza non è mai isolato, si esprime in un poliedrico gioco di tinte diverse nel sociale. Ne diventa l’espressione più rumorosa, di fronte alla quale dobbiamo avvertire il fastidio, per poter cambiare un sistema costruito su impalcature di potere asimmetrico, ai cui confini viene relegata la donna. La ritroviamo braccata in un angolo anche laddove l’emarginazione è vissuta da gruppi sociali e subculture. Insomma, sempre ancora ai margini dei margini sociali, subisce. Ma anche il dolore più sordo riesce ad esplodere in questo testo con tutta la sua carica di accuse rovesciando la relazione di potere nel suo contrario.
«Aspetto le parole di dissuasione, di velata minaccia, dolci come un veleno che mi corroderà l’anima. E arrivano, eccole, mi sommergono come un fiume in piena, come la merda che mi ha lasciato dentro quel bastardo. Lo vedo aleggiare su di noi con quel sorriso sbilenco, te l’avevo detto amor mio!
. Sì, me lo avevi detto amor mio... Non li ascolto, non voglio ascoltare, mi sozzano peggio della violenza subita. Non posso subire questo insulto, non voglio. Serpenti, serpenti velenosi che mi avvolgono nelle spire malefiche delle loro melliflue parole. Parlano, parlano, mi mostrano la vergogna sbandierata, il sospetto della gente, l’ingiuria del giudizio, il marchio sulla pelle, il turbamento di mio figlio. Sono immobile nel mio tormento con il cuore in tumulto».
A parlare è Marta, ma con lei tutte le donne che si sentono strette dentro ruoli che non appartengono loro, che ripudiano consuetudini e tradizioni conclamate, che si ribellano a un marchio e a una condizione di umiliazione e subalternità.
La ribellione personale verso pregiudizi e scontate condanne si ribalta in un affresco che ricorda quello più noto di Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi. La parola come il pennello diventano armi di rivincita. Il poetico sublima il dolore.
Rosina, Cristina, Rita, Marta, Francesca, Sabrina, Manuela, Rossella, Federica, Giovanna non sono più donne, sono grida. Ognuna di loro è come una candela che arde di dolore. Quelli di Anna non sono racconti e neppure auto narrazioni. È carne sanguinante di spasimi che si fa inchiostro per testimoniare abusi di mariti, amanti, padri. La violenza sulle donne assume le sembianze di un fantasma che trascina nella notte della vita la sua catena. Il segno è indelebile. Qualcuno lo chiama ancora amore malato
, che diversamente dall’ossimoro sostantivato malamore
, è assurdo perché giustifica una disumanità presente in una relazione dove è sparita, ma forse non c’è neppure mai stata, l’empatia, il riconoscimento, il rispetto dell’altro. Non appartiene all’essere un amore malato
, ma solo a un immaginario che falsifica la realtà, offrendone in cambio pregiudizi e stereotipi, come quello che la gelosia possa appartenere alla dimensione dell’amore e, dunque, offrire il fianco a una considerazione accettabile della violenza