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I_sole: Così ha inizio la vita. Da una mancanza.
I_sole: Così ha inizio la vita. Da una mancanza.
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E-book132 pagine1 ora

I_sole: Così ha inizio la vita. Da una mancanza.

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Info su questo ebook

Quattro storie. Quattro donne si mettono a nudo nella loro umanità e affrontano il momento più difficile della propria vita ritrovando se stesse proprio quando pensavano di essersi perse. Con singolare intensità espressiva ogni storia racconta la forza generatrice (e rigeneratrice) di cui le donne sono capaci. Sullo sfondo, l'isola: metafora dell'universo unico e meraviglioso che rappresenta ognuno di noi. Luogo ideale in cui rifugiarsi, elaborare, proteggersi, per poi ri-trovarsi rinnovati. Storie al femminile rigorosamente non vietate agli uomini. “Dal sogno alla favola la scrittura dei suoi personaggi è pervasa di passaggi a volte aspri e mai scontati. La forza del racconto si realizza in una tenace e continua volontà di ritorno alla realtà e alla natura in mezzo a gioie, dolori, lutti, nascite e avventure” (dalla prefazione di Dacia Maraini).

Gabriella Romano (Piano di Sorrento,1960) vive fino all’età di quattro anni in Africa. Annusa da subito il profumo stimolante della differenza. Raggiunta la maggiore età, l’obbligo familiare a spostarsi di continuo a causa del lavoro paterno, si trasforma in passione per il viaggio. é in cerca di un luogo cui appartenere per affinità. Nel 1981 scopre il fascino dell’Andalusia. A Siviglia comincia a scrivere, sollecitata dalla bellezza sensuale e inafferrabile di quella città. Torna nel 1987 a Roma. Conosce e abbraccia il Buddismo. Riaffiora l’amore per la scrittura, coltivato fin da bambina, quasi fosse la realizzazione del suo essere. Madre di due splendidi figli, vive e lavora attualmente a Roma guidata dal desiderio di produrre gioia per sé e per gli altri.
LinguaItaliano
EditoreCooper
Data di uscita29 set 2020
ISBN9788873942504
I_sole: Così ha inizio la vita. Da una mancanza.

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    Anteprima del libro

    I_sole - Gabriella Romano

    zen]

    "La semplicità non è il risultato di una difficoltà evitata, ma il frutto di una difficoltà risolta"

    [Italo Calvino]

    La s-commessa

    A Teresa non era mai importato di vivere in un luogo piuttosto che in un altro. A patto che fosse inondato di luce. Si vantava di essere libera da quel tipo di condizionamento. Che fosse centro o periferia, paesetto o metropoli, strada affollata o deserta, questo o quel paese del mondo. Si dichiarava priva di discernimento in materia topografica. Diceva che era per via del suo prolungato vagare, dei tanti traslochi, cambiamenti climatici, modi di vivere, vicini di casa, portieri, compagni di banco. Quanti primi giorni di scuola! Quante stanzette dai muri deserti da riempire con l’anima! Ogni volta si faceva coraggio pensando Questa sarà per sempre. E puntualmente la vita la smentiva. Trascinandola altrove, in un’altra stanza-forse-per-sempre. A volte si ritrovava a fare sforzi inauditi per abbinare i volti delle persone ai luoghi ove le aveva conosciute. C’era una sorta di disconnessione nella capacità di associare tanta umanità ai molti posti in cui era vissuta. Non appartenere a nessun luogo era la sua esclusiva possibilità abitativa. Essere sola, l’unica condizione esistenziale che concepiva. Giacché la non appartenenza ai luoghi si era ovviamente estesa alle persone. Non sentirsi nessuno in nessun luogo era l’unica maniera di vivere prevista dalla sua volontà. Quella per cui era stata addestrata.

    Era vissuta ovunque, in ben tre continenti: Europa, Africa, America. Il lavoro di suo padre l’aveva resa nomade. Lui era così appassionato al suo mestiere e così convincente che per lei era sempre una festa quando lo vedeva tornare annunciando a tutti la sua nuova destinazione. La scena si ripeteva sempre uguale: lui entusiasta e pieno di sé per il nuovo, lusinghiero incarico di responsabilità, pioniere in ogni luogo. Mentre parlava, era già lì con la mente. Lei si arrendeva senza remore al suo fascino e lo guardava come si guarda un eroe in procinto di affrontare il prossimo drago. Sua madre alzava gli occhi al cielo e assumeva l’aria della martire perché mancava del coraggio per riconoscere che quei continui cambiamenti di programma facevano bene anche a lei. Troppo impegnata a fare finta di essere quella che non era. I fratelli erano sempre un po’ spaventati, ma col passare del tempo impararono a reagire con una punta di salvifica indifferenza. Modi in apparenza diversi di sopportare uno stesso dolore. Non essere visti e riconosciuti.

    Adattarsi alle circostanze di vita è risorsa preziosa della specie umana e animale. A volte però, negli umani, si trasforma in rinuncia e dimenticanza dei propri desideri. Si perde la voglia di cambiare nel tanto cambiare. E’ come un’anestesia perenne. Una condizione mai mortale del tutto, mai vitale fino in fondo.

    Così i suoi fratelli si lasciavano portare, sua madre giocava a fare l’infelice moglie del giovane uomo pieno di speranze. Teresa lo seguiva indomita nella sua inarrestabile marcia verso la successiva meta.

    Lui procedeva a tre passi da tutti urlando: «Chi mi ama mi segua!».

    E lo amavano sempre.

    Tanto sarebbe andato comunque. Anche senza di loro.

    Così lei apprese l’arte del conformarsi, nella sua forma più subdola e seduttiva. Ma apprese anche l’arte del gioire dell’altrui gioia, che molte volte le risultò utile e fu utile agli altri. E poi faceva bene alla sua vita cogliere sempre l’aspetto positivo delle cose. In alcune occasioni rese la sua esistenza sopportabile in circostanze del tutto avverse.

    Ma la luce! Guai se il qualunque posto dove si ritrovava a trascorrere i suoi giorni mancava di quell’elemento. Su questo non aveva dubbi. Sul resto poteva anche chiudere un occhio. L’importante era che, nel riaprirlo, ci fosse l’onda di luce.

    Lavorava in un grande magazzino. Abbigliamento Donna. Reparto Accessori.

    Vivere (perché praticamente ci viveva) in un negozio era come abitare in un acquario. Lei, pesciolino, tra l’altro fuor d’acqua, dentro quel gran contenitore cui tutti avevano libero accesso per guardare, girare, portarsi via cose, nascondere carte di caramelle o bicchieri usati e ancora pieni di liquidi sugli espositori, appiccicare irremovibili gomme da masticare sotto le mensole, mettere fuori posto ciò che lei ogni giorno e più volte al giorno riordinava diligentemente seguendo categorie di colore, stile, dimensioni, forme, funzioni d’uso e stagionalità.

    «Posso aiutarla?»

    «No, sto solo dando un’occhiata».

    Questo era per lei il dialogo più frequente e più odioso tra i vari, demenziali approcci con quegli umani in cerca di non so che. Seguivano nell’ordine:

    «Dove sono questo e quello?»

    «Il bagno per favore?»

    «Potrebbe fare un annuncio? Ho perso il mio bambino».

    Ogni volta rispondeva prima con uno sguardo incredulo. Mai nessuno che si degnasse di introdurre la domanda con un gentile, niente affatto banale: «Buon giorno, mi scusi».

    L’educazione! Altro bene prezioso e mal distribuito per il genere umano.

    Successivamente, vinto lo sgomento per la rinnovata costatazione dell’altrui ignoranza, schiudeva le labbra in un sorriso disarmante ma anche fuorviante nel caso in cui l’avventore del momento avesse provato un improvviso, insperato rimorso per la propria malcreanza. Rispondeva con perizia e cortesia e accompagnava con lo sguardo il cliente che le si era affidato come unico vate in grado di rivelargli l’ubicazione di calze, calzini, mutande e magliette, toilette, bambini smarriti. Lei ottemperava al suo dovere di oracolo dei grandi magazzini, superando nello spazio di un sospiro l’imbarazzo provocato dall’arroganza dell’invasore in cerca di non so che.

    Si era fatta spostare nel reparto Accessori proprio perché si trovava all’ingresso dei grandi magazzini. Vicino all’uscita, vicino alla strada, dove la luce naturale, visibile da quel punto, le risolveva il disagio di essere in un luogo senza tempo e senza cielo. Con luce finta, musica finta, annunci ammalianti. Finta cortesia, finta bellezza, armonia fittizia e costruita per convincerti a comprare. Sempre uguale e sempre perfetto. L’acquario: prevedibile e visibile a tutti.

    La sua casa, situata in un quartiere popolare, all’ultimo piano di una palazzina color rosso terra, era per lei il rifugio dall’acquario. Ci tornava a sera, avendo lasciato la sua residenza acquatica. Nel gesto di aprire la porta sentiva ogni volta rinnovarsi la volontà di riappropriarsi di sé. Il suo spazio, il pavimento a quadri bianchi e neri ove poggiare i piedi nudi, stanchi di scarpe. I suoi libri, che accarezzava con lo sguardo. La sua musica, che la faceva volare. Il suo letto, semplice e comodo, i colori di tende e cuscini. L’odore che da lei emanava, trasferendosi all’ambiente. Le due finestre da cui finalmente guardare tutto il cielo. Il suo cane: un non meglio definibile meticcio recuperato all’angolo di una strada i cui occhi raccontavano la triste storia dell’abbandono. Nel suo librarsi nell’aria, a ogni rientro dell’affidabile nuova padrona, ripeteva ogni sera un necessario rito di gratitudine che nel contempo serviva a esorcizzare l’ossessivo quesito: tornerà?!?

    Il divano giallo oro, che si stagliava al centro di un grande salone quasi vuoto di mobili, imponendo la sua presenza, sembrava affermare ogni volta: «sdraiati, riposa questo corpo sempre in piedi, sempre teso, lascia che io accolga la tua anima sempre attenta, sempre in cerca». Lei lo guardava ogni sera e cercava di resistere a quell’attrazione fatale. Sapeva che era l’ottimo rimedio per tanta stanchezza ma ci metteva sempre un po’ prima di ammetterlo. Quasi a volersi scusare, quasi a volersi negare il giusto conforto dalla fatica di vivere una vita non sua. Dopo tanti inutili, effimeri accessori (quelli venduti al negozio) sorgeva in lei l’urgenza dell’essenziale.

    Buffa la vita no? Ci sfida in modo talmente inequivocabile che a un certo punto non possiamo sfuggire all’inevitabile domanda: Che ci sto a fare qui?

    In quell’acquario, su questo divano, in questa stanza, in questa casa, in questo quartiere, in questa città, in questo paese del mondo, su questo pianeta, in questo cosmo. In questa Vita. La ricerca gradualmente si estende, commisurata all’espandersi dell’anima e alle sue necessità.

    "La mia vita dentro la Vita.

    La mia isola in questo mare.

    Cosi un giorno partiamo

    per quel viaggio senza ritorno

    che ci riporta a noi e ci allontana

    dalla vita che abbiamo inventato

    per sopportare la vita stessa".

    ACCESSORIO: Oggetto che serve a completare, abbellire, rendere più funzionale o confortevole l’elemento essenziale cui si accompagna.

    Insieme di singolari concetti: l’accesso, l’eccesso, il cessare, l’aggiunta, la modifica, l’evidenziare, il particolare sul generico. Superfluo ma necessario. Importante ma non indispensabile. Il complemento del resto. Finale sottolineatura del quadro generale. Inutile ma determinante. Quello che fa la differenza e distingue. L’aggiunta che dà un senso e completa, definisce, abbellisce, nell’ossessivo timore di non essere abbastanza. Abbastanza bello, abbastanza elegante, abbastanza evidente, abbastanza originale, a svantaggio dell’idea di base. Segno distintivo che ci illude di essere riconosciuti e visti per mezzo di dettagli e non per sostanza.

    Era così che si sentiva la maggior parte del tempo. Qualcosa di prezioso aggregato ad altro. Mai sostanziale, mai

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