Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Noi, i Biden
Noi, i Biden
Noi, i Biden
E-book351 pagine5 ore

Noi, i Biden

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Valerie Biden Owens è la sorella minore di Joe Biden, allo stesso tempo la sua confidente e consigliera più fidata.
Quella dei Biden non è la storia di una dinastia della politica americana come i Kennedy o i Bush. In questo memoir Valerie Biden Owens apre per la prima volta le porte di casa Biden: l’educazione cattolica, il valore della famiglia, il legame speciale con il fratello Joe, il potere della gentilezza e dell’empatia in un mondo sempre più diviso e arrabbiato. Senza dimenticare le sfide che ha dovuto affrontare, a partire dalle barriere di genere, per affermarsi professionalmente e avere un impatto positivo nella comunità e sulla vita delle altre donne.
Un memoir intimo e generoso, la voce di una donna esemplare che non ha mai smesso di credere nei valori in cui è stata cresciuta e non ha mai rinunciato a realizzare i suoi sogni.
LinguaItaliano
Data di uscita17 feb 2024
ISBN9791254842843
Noi, i Biden

Correlato a Noi, i Biden

Ebook correlati

Biografie politiche per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Noi, i Biden

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Noi, i Biden - Valerie Biden Owens

    1

    Lo stesso giorno, quarantotto anni dopo

    Il sabato sera del 7 novembre 2020 attendevo l’arrivo di mio fratello in mezzo a una folla di elettori festanti davanti al Chase Center on the Riverfront di Wilmington, nel Delaware. Gli altoparlanti diffondevano musica allegra e le luci scintillavano sul fiume Christina. Quel pomeriggio, a urne chiuse da quattro giorni, l’Associated Press aveva finalmente annunciato il vincitore: il voto della Pennsylvania si era ribaltato, dandoci un vantaggio incolmabile su quell’incubo durato quattro anni che rispondeva al nome di Donald Trump. Di lì a pochi minuti, Joe sarebbe uscito dal centro convegni per annunciare la sua vittoria ai numerosissimi sostenitori in attesa, anche se il suo avversario non aveva riconosciuto la sconfitta (e non l’avrebbe mai fatto), e nonostante ci fossero ancora manifestanti che urlavano «FERMATE LO SPOGLIO!» fuori dai seggi elettorali. Il peggio doveva ancora venire, ma al tempo non lo sapevamo. Per quel momento, almeno, le loro proteste non ci toccavano.

    Mi stavo godendo lo spettacolo insieme a Jack, mio marito; come il resto della famiglia, eravamo a bordo di una delle Jeep Wrangler che il comitato elettorale aveva messo a disposizione per l’evento, che si stava tenendo all’aperto per evitare la diffusione del Covid-19. Jack era al posto di guida, io in piedi sul sedile del passeggero, con la testa e le braccia fuori dal tettuccio aperto. Guardavo la miriade di occhi sorridenti che scintillavano al di sopra delle mascherine chirurgiche con la scritta BIDEN-HARRIS, e provavo gratitudine e affetto. Quegli uomini e quelle donne conoscevano Joe da decenni, fin dalla sua elezione al consiglio della contea di New Castle nel 1970, il suo primo incarico pubblico. Io avevo condotto quella campagna elettorale, e in seguito avrei diretto tutte le altre – sette per il Senato e due per la presidenza –, quindi conoscevo quelle persone esattamente come loro conoscevano Joe. Erano i nostri amici, i nostri vicini, la nostra gente: coloro che avevano accompagnato Joe «al ballo», come avrebbe detto lui nel suo discorso pochi minuti dopo la proclamazione della vittoria.

    Eravamo a soli cinque minuti di auto dall’Hotel Du Pont, l’albergo dove nel 1972 avevamo lanciato la sua prima campagna elettorale per il Senato. All’epoca io ero un’insegnante delle superiori ventiseienne, e lui un avvocato di tre anni più grande di me.

    Quella volta, avevamo fatto campagna nei parcheggi dei supermercati, scattando Polaroid con i negozianti. Avevo reclutato i miei studenti per bussare alle porte e distribuire materiale elettorale in tutto lo Stato. Avevamo partecipato a ogni parata, evento di quartiere e festa parrocchiale dall’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze estive fino all’Election Day a novembre. La stampa aveva coniato l’espressione «crociata dei ragazzi», perché ogni nostra iniziativa era supportata da folle di ragazzi e ragazze delle scuole medie e superiori, tutti ispirati dalla visione di Joe e guidati dalla loro professoressa di studi sociali – io, che avevo solo otto anni più dei miei studenti – e dalla loro insegnante di terza media: Mrs Biden, ovvero Neilia, la moglie di Joe.

    Il Partito democratico ci vedeva come agnelli sacrificali, nessuno credeva che avessimo la minima possibilità di conquistare un seggio; altri ci ritenevano una seccatura. I nostri avversari non ci prendevano neppure in considerazione. Io mi affidavo all’istinto, dato che non avevo la più pallida idea di cosa avrei dovuto fare. Ma questo non mi aveva fermata. Eravamo inesperti, ma anche molto determinati.

    Una volta eletto, con un margine sorprendentemente esiguo di 3163 voti, Joe era diventato il primo senatore degli Stati Uniti che ci fosse capitato di conoscere. E soprattutto uno dei senatori più giovani di sempre. Era talmente giovane che dopo la sua elezione non aveva neppure potuto prestare giuramento, e per farlo aveva dovuto attendere il 20 novembre, il giorno del suo trentesimo compleanno.

    Tra quel momento e l’elezione a presidente degli Stati Uniti d’America avvenuta decenni dopo, si sono alternati trionfi e delusioni, gioie e sofferenze, fortune inaspettate e drammi sufficienti per diverse vite. L’autunno del 2020 era stato estenuante e deprimente: dopo uno scoraggiante quarto posto alle primarie dell’Iowa del 3 febbraio, Joe era stato dato praticamente per sconfitto. Il «New York Times» aveva parlato di «un colpo devastante»; per mio fratello era stato un «pugno allo stomaco». La campagna elettorale aveva un budget molto limitato, e c’era la possibilità concreta che Joe dovesse chiedere un prestito per coprire le spese. Qualcuno parlava anche di una «exit strategy».

    Nel frattempo, la pandemia aveva stravolto il consueto svolgimento delle campagne elettorali, oltre a qualsiasi altro aspetto della vita americana. Joe viveva del contatto umano, e da un giorno all’altro gli unici volti nuovi che vedevamo erano su Zoom, un mezzo di comunicazione che combina le pause imbarazzanti di una conversazione telefonica con il disagio di guardarsi allo specchio. Il nostro percorso è stato difficoltoso fin dall’inizio. Tuttavia, mio fratello è sempre rimasto calmo e lucido, non ha mai perso la sua tranquilla sicurezza, la sua determinazione e la sua fede in questo Paese. E io non ho mai smesso di credere in lui.

    Il 5 giugno 2020, la sera in cui si era aggiudicato la nomination democratica per la presidenza degli Stati Uniti, Joe aveva fatto la storia: nessun candidato moderno, infatti, aveva mai vinto in maniera tanto netta dopo essere partito con un notevole svantaggio rispetto ai suoi avversari. Ripensando a quel giorno, si potrebbe pensare che io fossi euforica. Niente di più sbagliato. Ricordo di aver pensato: Dovrei essere al settimo cielo. Ma non avevo provato alcun senso di euforia. Sebbene dentro di me fossi convinta che il vento sarebbe cambiato, che quell’opprimente oscurità si sarebbe attenuata fino a sparire, non era ancora accaduto.

    In verità, festeggiare prima del tempo non è nella mia natura… chiamatela superstizione irlandese. I nostri genitori ci hanno insegnato a non sfidare la sorte. E non è neppure nella mia natura di campaign manager di lungo corso, sempre sul chi va là, pronta per la catastrofe successiva. Ma più di ogni altra cosa, quell’anno tantissimi americani avevano sofferto molto a causa del Covid-19 e delle ingiustizie razziali. E gli affronti che la nostra democrazia aveva subito negli ultimi quattro anni erano stati così gravi che qualsiasi festeggiamento mi sembrava inopportuno.

    Ma quella sera del 7 novembre – fuori dal tettuccio della Wrangler, con gli occhi fissi sul palco in attesa dell’arrivo di Joe – cominciai a comprendere appieno la portata di ciò che avevamo realizzato insieme. Riflettei sul fatto che erano trascorsi esattamente quarantotto anni dal giorno in cui avevamo fatto irruzione sulla scena nazionale dopo la sorprendente e inaspettata vittoria nella corsa al Senato degli Stati Uniti nel Delaware.

    La mia mente tornò a coloro che non erano più con noi: Neilia, la prima moglie di Joe, e la loro figlia, Naomi, che in famiglia chiamavano Amy. E poi mamma e papà, e il figlio maggiore di Joe, Joseph R. Biden III, noto a tutti come Beau.

    Neilia e Amy avevano perso la vita il 18 dicembre 1972, quando l’auto di mia cognata era stata travolta da un camion. A bordo c’erano anche Beau e Hunter; i due fratelli erano sopravvissuti all’incidente, ma avevano riportato ferite talmente gravi che inizialmente avevamo temuto che anche loro ci avrebbero lasciati. Beau sarebbe poi morto nel 2015, all’età di quarantasei anni, a causa di un glioblastoma, una forma altamente aggressiva di cancro al cervello. Tante tragedie e sofferenze, ma anche tanta luce che le rendeva meno opprimenti. Era abbastanza da dare a chiunque la forza di andare avanti.

    Dopo la scomparsa dei miei genitori e di Beau, presi l’abitudine di parlare con loro. Ero convinta che Beau fosse stato vicino a suo padre per l’intera durata della campagna presidenziale, tenendogli una mano sulla spalla. Nei momenti di grande gioia e di grande sconforto, i miei primi pensieri andavano a coloro che non c’erano più: Vorrei che mamma potesse vederlo. Vorrei che papà fosse qui. Beau sarebbe stato così orgoglioso.

    Ero immersa in queste riflessioni, quando d’un tratto un forte urlo di gioia si levò dalla folla. Joe uscì sul palco sfoggiando il suo solito sorriso largo e accogliente. Non potei resistere alla tentazione di gridare e applaudire a mia volta, agitando le braccia sopra la testa nel tentativo di estendere il mio metro e sessanta. Fu allora che Joe mi individuò tra la folla: «Ce l’abbiamo fatta, Val!». Da fratello a sorella, quelle erano le uniche parole che andavano dette. Mi sentii percorrere da un brivido e percepii la presenza di Beau mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime.

    Il discorso di Joe fu perfetto. Promise di «abbassare la temperatura», di porre fine all’era di demonizzazione dei nostri connazionali. Era qualcosa che stava a cuore a entrambi: la politica – il delicato equilibrio tra una convivenza pacifica e la contesa di risorse limitate – era diventata una competizione spietata e degradante. Il presidente Trump aveva tirato fuori il peggio della nostra umanità, e l’anima stessa della nazione era stata bistrattata dall’odio, dall’intolleranza e dal bigottismo. Quella sera, tutti desideravano guarire. Joe irradiava un profondo senso di comprensione, derivante dalla sua capacità di ascoltare davvero gli altri. In una parola: empatia.

    Mentre i fuochi d’artificio illuminavano il cielo e l’impianto audio diffondeva musica a tutto volume, Joe era sul palco con la futura first lady, Jill, e la loro figlia, Ashley, accompagnata da suo marito Howard. C’erano anche Hunter e sua moglie, Melissa, e tutti i nipoti: Naomi, Finnegan, Maisy, Natalie, Hunter e il piccolo Beau. Le note di A Sky Full of Stars dei Coldplay, una delle band preferite di Beau, risuonavano nella notte. La neoeletta vicepresidente Kamala Harris e suo marito, Doug Emhoff, si unirono a loro. «Adesso anche voi siete dei Biden, che vi piaccia o no» aveva scherzato Joe poco prima, e in quel momento la coppia si sentiva già parte della famiglia.

    Al termine del discorso, noi familiari entrammo nel centro convegni per farci scattare a turno una foto veloce con Joe e Jill. Era una situazione piacevole, ma anche strana. Di solito, quando ci riuniamo, noi Biden siamo come i piccoli di una cucciolata: ci accoccoliamo, scherziamo, ci abbracciamo. Quella sera, tuttavia, al pari di molte altre famiglie che vivevano sotto la minaccia del Covid-19, facemmo del nostro meglio per rispettare il distanziamento sociale. Di conseguenza, non sembrava affatto una tipica riunione familiare dei Biden.

    Dopo le foto, terminate finalmente le attività cerimoniali della giornata, Joe e Jill tornarono nella loro stanza riservata al Chase Center per recuperare i loro effetti personali. Mi sedetti accanto a mio fratello, esausta, ed entrambi restammo a fissare il televisore in silenzio, con un’espressione meravigliata sul volto. Eravamo solo noi due, fratello e sorella. Come sempre, lui era al mio fianco, e io al suo.

    Sono nata il 5 novembre 1945, un burrascoso lunedì mattina, durante quella che i miei genitori avrebbero sempre ricordato come una bufera di neve. Ero in anticipo di due settimane, e mamma e papà erano rimasti bloccati nel traffico mentre cercavano di raggiungere il Boston’s Lying-in Hospital; ma poco importava, io stavo arrivando, che fossero pronti o meno. Durante il tragitto, papà aveva richiamato l’attenzione di un agente di polizia e, dopo avergli spiegato la situazione, lo aveva convinto a scortarli fino all’ospedale. Erano arrivati a destinazione appena venti minuti prima del mio debutto. Andavo di fretta, avevo cose da fare. Dovevo esserci per il compleanno di mio fratello Joey: dopotutto, io ero il suo regalo, la sua sorellina.

    Joe e io siamo sempre stati inseparabili, che fosse sul campo di baseball al Maloney Field di Scranton, in Pennsylvania, dove giocavamo da bambini, o durante le campagne elettorali. Mi hanno detto che sono stata la prima donna a gestire una campagna per il Senato degli Stati Uniti, e so di essere stata la prima ad aver condotto una campagna presidenziale. E sebbene io sia anche insegnante, media consultant e madre di tre splendidi figli, è corretto affermare che ho vissuto i primi quarant’anni della mia vita adulta pubblica all’ombra di Joe. È stata una decisione presa consapevolmente quando mio fratello si candidò per la prima volta a una carica governativa, e credo che sia una scelta obbligata per qualsiasi campaign manager o media consultant politico di alto livello.

    In realtà, per me è stato facile prendere questa decisione, e lo stesso è successo agli altri miei fratelli. Forse c’entra qualcosa l’ordine di nascita, ma è come se nel nostro DNA fosse insita una clausola di non concorrenza. Nessun fratello o sorella provava invidia o desiderava prendere il posto dell’altro. Ognuno aveva il proprio spazio ed era soddisfatto del proprio ruolo. Ci rallegravamo dei successi altrui e condividevamo le delusioni reciproche.

    I nostri genitori ci hanno inculcato sin dalla nascita che dovevamo prenderci cura gli uni degli altri. Per dirlo con le parole di mia madre: «La famiglia è l’inizio, la metà e la fine. Punto». Ci hanno insegnato che ciascuno di noi era un dono per l’altro. «Nessun legame è più stretto di quello tra un fratello e una sorella» era solita dire mamma. Qualsiasi divergenza andava risolta in famiglia. E Dio non volesse che qualcuno voltasse le spalle agli altri. Fuori dalle mura domestiche eravamo i Biden, e nulla poteva mettersi tra di noi.

    Questi precetti non sono mai stati messi per iscritto, e mentre li elenco mi rendo conto che questa potrebbe essere la prima volta in cui li vedo nero su bianco. Ma non c’era alcun bisogno di trascriverli. Tutti sapevamo perfettamente cosa i nostri genitori si aspettavano da noi.

    Si aspettavano che dicessimo sempre la verità, qualunque essa fosse. A volte poteva essere imbarazzante, brutta o vergognosa, ma mia madre e mio padre ci ripetevano di continuo che la verità era l’unica opzione disponibile. Loro ci sarebbero stati sempre per noi, a prescindere da tutto… a patto che dicessimo la verità. Se sei in ritardo, chiama. Se finisci nei guai, chiama. Se vuoi tirarti fuori dai pasticci, chiama. Nessuna domanda.

    Si aspettavano che tenessimo testa ai bulli. Se qualcuno ci dava il tormento, mamma ci autorizzava a tirargli un pugno sul naso, purché fosse uno scontro leale. (Oggi, ovviamente, non promuoviamo le risse scolastiche, ma ai tempi dei miei genitori le cose erano diverse.) Papà ci insegnò che il peccato più grande di tutti era l’abuso di potere, e che avevamo il dovere di opporci sempre alle ingiustizie.

    Si aspettavano che trattassimo tutti con dignità. «Nessuno è migliore di voi, e voi non siete migliori di nessuno» ci ripeteva mia madre. Sapevamo di dover essere gentili con i ragazzi che volevano esserci amici, soprattutto quelli «poco popolari».

    Si aspettavano che non cedessimo mai alla disperazione. «Non importa quante volte cadi» diceva mio padre, «ma quanto velocemente ti rialzi.» La nostra famiglia avrebbe avuto molte occasioni per scoprire quanto fossero vere queste parole. I fallimenti, i momenti bui e le tragedie erano inevitabili. Ma arrendersi? Quello era imperdonabile.

    Queste norme di vita ci hanno insegnato tutto ciò che significava essere un Biden. Avevamo sulle nostre giovani spalle la responsabilità di rendere orgogliosa la nostra famiglia.

    Mamma aveva alcuni modi di dire che ci ripeteva spesso quando eravamo piccoli. Uno di questi – «Guardati dal giusto» – era uno dei miei preferiti all’epoca e lo è ancora oggi.

    Come genitori, mamma e papà mettevano in pratica ciò che predicavano: non ci muovevano mai accuse infondate, non ci rimproveravano e non minacciavano punizioni. Ci volevano semplicemente bene. E noi, anche quando frequentavamo le elementari, sapevamo istintivamente che avevamo il dovere di onorare la nostra parte dell’accordo, e dunque eravamo molto restii a tradire la loro fiducia.

    E quando la tradivamo, come fanno tutti i ragazzi a un certo punto del loro percorso verso l’età adulta, non c’erano parole più devastanti di: «Ci hai delusi». Accusavamo molto le conseguenze derivanti dall’aver mentito o abusato della fiducia che i nostri genitori riponevano in noi.

    Le volte in cui mia madre mi ha rivolto quelle parole si possono contare sulle dita di una mano, ma una di esse – risalente a quando avevo dieci anni – è ancora impressa nella mia mente.

    Ai tempi in cui vivevamo ad Arden, l’estate avevamo l’abitudine di andare alla «piscina» del quartiere. L’acqua era fredda, torbida e naturale: in realtà si trattava di un laghetto formatosi in seguito allo sbarramento artificiale di un ruscello. Niente cloro, niente fondo piastrellato, niente spogliatoi o belle sdraio.

    Le lezioni di nuoto iniziavano alle nove del mattino, e si svolgevano nella parte meno profonda del laghetto. Avevo fatto notare a mia madre che a quell’ora faceva molto freddo, ma lei aveva risposto che se volevo andare in piscina dovevo iscrivermi al corso di nuoto. E così, pur a malincuore, avevo acconsentito.

    All’estremità opposta della piscina c’era un trampolino. Morivo dalla voglia di fare un tuffo come tutti i ragazzi più grandi, ma mia madre mi aveva proibito di salirci. Ricordo di aver pensato: Cavolo, questa è proprio una regola stupida. Per raggiungere la scaletta non era neppure necessario saper nuotare.

    Mi dissi che mamma si stava preoccupando per nulla. Se mi fossi tuffata lateralmente, sarebbero bastate poche bracciate… dentro e fuori in un battibaleno! Un piccolo rischio per una grande ricompensa: affrancarmi dalla sezione della piscina riservata ai più piccoli.

    Ero una bambina obbediente per natura, non una discola, ma dopo aver studiato la situazione per giorni, la mia gemella malvagia Skippy prese il sopravvento, e così decisi di provarci. Uscii dall’acqua e, prima che il mio dibattito interiore potesse trattenermi per l’ennesima volta, mi diressi a passo svelto verso il trampolino.

    E proprio mentre stavo per tuffarmi, intravidi con la coda dell’occhio mia madre, che di solito non tornava mai a riprendermi così presto. Oh-oh, pensai. Scesi in tutta fretta dal trampolino, ma ormai il danno era fatto. I suoi occhi di fuoco erano puntati su di me, il suo sguardo penetrante mi passava da parte a parte.

    Poi mamma pronunciò le quattro parole più devastanti del suo vocabolario: «Mi hai molto delusa». Ero annichilita.

    Deludere qualcuno è una cosa terribile, e sapere di averlo fatto è ancora peggio.

    2

    Mamma e papà

    Quando ero bambina, non consideravo mia madre e mio padre come due individui separati. Per me erano semplicemente mamma e papà, un’unica entità che occupava tutto il mio universo. Forse è una questione generazionale: i miei figli sanno più cose sul mio conto di quante ne sapessi io sui miei genitori, e comprendono e apprezzano il fatto che essere madre sia solo un aspetto della mia identità. Qualunque sia la ragione, ho continuato a scoprire dettagli sempre nuovi della vita dei miei genitori, anche a distanza di molto tempo dalla loro scomparsa.

    Papà – Joseph Robinette Biden Senior – era nato a Baltimora nel 1915 e cresciuto nella parrocchia di Saint Thomas a Wilmington, nel Delaware. Nei quartieri cattolici la parrocchia di appartenenza era tutto, e quando ci si presentava a qualcuno veniva menzionata subito dopo il nome di battesimo. La famiglia di mio padre viveva in una casa a schiera che, se fosse stata sottoposta a gentrificazione, probabilmente ora verrebbe definita brownstone*, ma ciò non è accaduto e dunque non ha mai cambiato denominazione. Papà era il maggiore di tre figli; suo padre aveva lavorato per l’American Oil Company fino al giorno della sua morte, avvenuta a quarantotto anni per una trombosi fulminante a una gamba. Non ho mai visto neppure una foto del mio nonno paterno, ma a detta di tutti era la copia spiccicata di Dwight D. «Ike» Eisenhower, il trentaquattresimo presidente degli Stati Uniti.

    La madre di papà – Mame – se n’era andata soltanto due anni dopo: in visita ai miei genitori a Boston, era andata alla toilette e non era più uscita. Sul suo certificato di morte c’è scritto «infarto», ma secondo i familiari morì di crepacuore.

    Mio padre non parlava molto del suo passato. Le poche informazioni interessanti che riuscivo a ottenere non facevano che aumentare la mia voglia di saperne di più. Quando Joe fu ammesso alla facoltà di giurisprudenza della Syracuse University, papà rivelò che in gioventù si era iscritto alla Johns Hopkins University per studiare economia, un particolare della sua vita di cui noi figli non eravamo al corrente. Anni dopo, mentre io e mio marito Jack stavamo ristrutturando la nostra nuova casa sulla spiaggia a Fenwick Island, nel Delaware, spiegai che le assi del pavimento provenivano dal Black Cat Saloon, un vecchio bar locale che aveva chiuso i battenti da tempo. «Santo cielo» esclamò mio padre. «In quel posto ci suonavo con la mia band.» Quale band? E cosa suonava? Scoprimmo che era stato sassofonista in un gruppo blues. Era un uomo di poche parole, ma quando parlava, lo ascoltavamo con attenzione. Avrei tanto voluto sentirlo parlare più spesso.

    Una delle rare storie raccontatemi da mio padre riguardava il ballo di san Vito che aveva contratto ai tempi in cui frequentava le elementari. Il nome corretto della malattia è corea di Sydenham, o chorea minor, ma è nota con l’appellativo medievale di ballo di san Vito per i sintomi che provoca in chi ne è affetto. Causata dalla febbre reumatica, la corea di Sydenham si manifesta con movimenti spastici, contrazioni del viso e, a volte, difficoltà nel parlare, e solitamente passa da sola nell’arco di tre mesi. Mi sforzo di immaginare un bambino che non riesce a controllare gli arti, spaventato dalla sua strana condizione, imbarazzato dagli sguardi che attira. A volte mi sono chiesta se tutto ciò abbia lasciato qualche segno in mio padre, privato della possibilità di correre e giocare con i suoi amici o di coordinare le braccia e le gambe. Si prendevano gioco di lui? Scommetto di sì, ma papà non ha mai detto nulla al riguardo. Forse questo spiega perché fosse così comprensivo verso le nostre insicurezze, nonché la sua predilezione per gli sport individuali: nuoto, tuffi, equitazione e sci, tutte attività in cui eccelleva, ma che non prevedevano la presenza di compagni di squadra.

    In linea con i tempi, mio padre era più una figura paterna che un «papino». Quando rincasava dal lavoro, a volte si addormentava nel momento stesso in cui poggiava la testa sullo schienale della poltrona, ma non prima di averci rivolto un sorriso gentile o un commento incoraggiante. Quindici minuti più tardi – dopo quello che oggi chiameremmo power nap, «sonnellino energizzante» – era di nuovo in piedi, completamente ricaricato. Il coniglietto della Duracell gli faceva un baffo. Quanto vorrei riuscire a addormentarmi a comando come faceva lui.

    Quando ero piccola, non mi veniva mai di sedermi sulle sue ginocchia. Papà non era un uomo freddo o distante, ma semplicemente un padre di un’altra generazione. Iniziai a scorgere il suo lato emotivo solo quando divenne nonno. Adorava i suoi nipotini, che non perdevano mai occasione di arrampicarsi su di lui. I nostri figli cercavano il contatto con Dada, come lo chiamavano, proprio come facevano con mia madre, Mom-Mom. Ho sempre saputo che mio padre mi voleva bene, ma è stato solo quando l’ho visto tenere in braccio i miei figli che ho scoperto quanto fosse affettuoso. È stato un grande dono vedere questo aspetto del suo carattere.

    Mia madre, Catherine Eugenia «Jean» Finnegan, era nata nel 1917 a Scranton, in Pennsylvania, unica figlia femmina in una famiglia di quattro fratelli, tre più grandi e uno più piccolo. Suo padre, Ambrose Finnegan, lavorava per lo «Scranton Tribune», non come giornalista, ma nel settore commerciale. Era il responsabile di un ufficio dal nome lugubre, l’«obitorio», al cui interno, però, non c’erano cadaveri, ma vecchi giornali. Mia nonna, Geraldine, si occupava dei cinque figli e della casa. Erano una tipica famiglia cattolica irlandese dei loro tempi, i cui valori erano la fede, la famiglia e la patria. Ah, ed erano democratici fino al midollo.

    Mamma era amata dai suoi fratelli. Ambrose «Bosie» Junior, il fratello nato prima di lei, era il suo eroe, e fu devastata quando venne a sapere che il suo aereo era stato abbattuto sopra il Pacifico meridionale vicino a Guam, durante la Seconda guerra mondiale. Non seppe mai cosa gli fosse accaduto. Lo avevano catturato e torturato? Era stato divorato dagli squali? Immagini macabre si susseguivano senza sosta nella sua mente. Per anni rimase aggrappata alla speranza che venisse salvato, o che il suo corpo fosse recuperato, ma alla fine si arrese. Sono sicura che gli ha parlato e ha pregato per lui fino al suo ultimo giorno di vita.

    La scomparsa di zio Bosie potrebbe aver reso ancora più incisiva l’esortazione che era solita ripeterci: «Nessun legame è più stretto di quello tra fratelli e sorelle, neppure quello con i propri genitori. Vogliatevi bene e prendetevi cura l’uno dell’altro».

    Mamma irradiava empatia, ma allo stesso tempo poteva essere molto dura, e mettersi contro di lei o la sua famiglia non era mai una buona idea. Era come una rosa di Sharon: meravigliosa, ma piena di spine. Quando aveva otto o nove anni, affrontò un ragazzino che stava prendendo in giro Jackie, il fratello più piccolo, e gli sferrò un pugno dritto sul naso, dicendogli di stare alla larga da lui, altrimenti sarebbe tornata. Era minuta come me, ma anche da bambina possedeva una forza straordinaria.

    Ci avrebbe trasmesso anche questa lezione. Una volta, quando mio fratello Jimmy aveva dieci o undici anni, qualcuno scrisse una cosa spiacevole su un ragazzo del quartiere sopra una gettata di cemento fresco. Quelle parole si erano poi solidificate, diventando parte integrante del nostro isolato. Mamma prese me e Jimmy da parte e ci chiese con calma se conoscessimo l’autore di quel gesto. Mio fratello rispose che si trattava di un ragazzo che abitava nelle vicinanze. «Questi cinque dollari sono per chi tornerà da me con le nocche sporche di sangue» disse lei, sventolando una banconota davanti ai nostri occhi. Jimmy andò a casa di quel ragazzo, bussò alla porta, chiese gentilmente di lui, lo portò dietro l’edificio e gli mollò un pugno in faccia. (Jimmy si intascò i cinque dollari.) Come ho già detto, di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1