Come un faro in mare aperto
Di Gary Marcera
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Anteprima del libro
Come un faro in mare aperto - Gary Marcera
Gary Marcera
Come un faro in mare aperto
© 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-2615-1
I edizione giugno 2022
Finito di stampare nel mese di giugno 2022
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
Come un faro in mare aperto
Alla mia amata e compianta moglie
i
Sono nato il 16 marzo del 1960 e anche se spesso dico che Rochester è la mia città, in realtà sono venuto al mondo in un piccolo paese poco più a sud, Dansville, che dista circa un paio d’ore di macchina dal capoluogo della Contea di Monroe, nello Stato di New York. Ma non sono cresciuto nemmeno là. Una mezz’ora a nord di Dansville c’è Mount Morris: è qui che ho trascorso l’infanzia e la gioventù. Il capoluogo della contea di Monroe, Rochester, appunto, si trova sul Lago Ontario, il più piccolo dei cinque Grandi Laghi al confine tra Stati Uniti e Canada che danno il nome all’omonima regione. Poche ore di macchina mi separavano dalle celebri cascate del Niagara: panorami stupendi, sensazioni uniche, spesso le provo ancora ripensando a quei posti d’infanzia. Si tratta di una zona ad alto tasso di umidità, dove le temperature nei mesi freddi si abbassano vertiginosamente, scendendo spesso sotto lo zero, e gli inverni arrivano a durare anche cinque mesi, ma non per questo la zona perde il suo fascino, anzi ogni anno è meta di numerosi turisti provenienti da tutto il mondo.
Sono nipote di terza generazione di immigrati italiani. La famiglia di mio padre proveniva infatti da un piccolo paesino della Sicilia, di nome Cerda. All’epoca tanti siciliani si ritrovarono a Rochester, ma furono soprattutto gli abitanti di Caltanissetta ad emigrare da queste parti, motivo per cui le due città sono gemellate. Ovviamente, arrivarono tanti italiani provenienti anche da altre zone, specie del Mezzogiorno, così da creare una folta comunità molto unita e solidale. La famiglia di mia madre, invece, era di origine ciociara, per la precisione di Veroli, in provincia di Frosinone. Già a quei tempi una certa indole femminista
era ben radicata nella mia famiglia: furono le donne, sia da parte di mio padre che di mia madre, ad esprimere la volontà di andare in America, presero loro l’iniziativa, non gli uomini. Tanto è vero che la mia bisnonna paterna fu la prima a trasferirsi negli Stati Uniti: organizzò tutto lei, tornò in Sicilia, prese il marito e il figlio, e insieme partirono per l’America, dove avrebbero pian piano costruito il loro futuro. Anche da parte di mia madre, fu la nonna a spingere affinché ci si trasferisse oltre l’Atlantico, in cerca di migliori condizioni di vita. Lei aveva già tre figlie prima di partire e sperava di poterle crescere al meglio; le loro condizioni economiche, infatti, non erano delle più agiate, sicuramente precarie rispetto alla famiglia di mio padre, i cui membri erano macellai. Questi ultimi si stabilirono presto a Mount Morris, ecco perché questa città è così centrale nella mia vita. Mentre la famiglia di mia madre si sistemò a Rochester, proprio in città.
Mio padre aveva solo vent’anni, o poco più, quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, e dovette prestare servizio nell’esercito statunitense per fronteggiare la minaccia nazista. Dapprima si stabilizzò in Inghilterra, poi da lì fu mandato in missione in Francia, Belgio, Germania… Questi eventi rivestirono un ruolo fondamentale nel proseguo della sua vita, perché a quanto riferiva in una delle primissime missioni di combattimento vide colpire all’improvviso l’aereo al suo fianco e carbonizzarsi in un attimo. Non è difficile immaginare l’impatto psicologico che possono avere queste tristi circostanze nella mente di un giovane ventenne spedito al fronte… impossibile dimenticare! Sta di fatto che in quel momento iniziò a recitare l’Ave o Maria. Tale vicenda avrà una certa influenza su di me molti anni più tardi, ma questa è un’altra storia.
Durante il periodo della guerra, mentre mio padre era intento a combattere i nazisti, mia madre fu costretta a lasciare la scuola già intorno ai sedici o diciassette anni per mettersi a lavorare; come ho accennato, la sua famiglia d’origine era alquanto povera e serviva forza lavoro per andare avanti. All’epoca molte giovani donne venivano assunte in fabbrica, dove spesso si producevano armi o composti chimici. Mia madre lavorava per la Kodak, la nota società che nel giro di pochi anni sarebbe divenuta un colosso nella produzione di pellicole cinematografiche, apparecchiature fotografiche e per la stampa, ma che in tempi di guerra produceva anche materiali bellici. La sede principale, infatti, fu stabilita proprio a Rochester.
Dopo due anni di servizio militare mio padre tornò a casa e in qualche modo – non so bene come sia andata in realtà – una delle sorelle di mio padre la spinse a conoscerlo. Lui era appena tornato dalla guerra, fattore che probabilmente esercitò un notevole fascino su di loro. Insomma, il destino volle che si incontrassero e così iniziarono a frequentarsi, fino a che nel 1948, per l’esattezza il 24 aprile, convogliarono a nozze. L’anno successivo, nel mese di ottobre, nacque mia sorella e due anni dopo, a settembre del 1951, venne alla luce anche mio fratello. Passarono altri nove anni prima che nascessi io, terzo ed ultimogenito. Il giorno dopo la mia nascita, il 17 marzo, si festeggia San Patrizio, patrono d’Irlanda, ricorrenza molto sentita pure negli Stati Uniti, per questo mi chiamo Gary Patrick.
I fatti che seguono non sono facili da affrontare. Si dice spesso che i panni sporchi si lavano in famiglia, ma la scrittura, per come io la intendo, è una forma di catarsi, serve anche a liberarsi da certi fantasmi interiori che da tempo ci inseguono. E poi, è difficile ometterli visto che queste vicende avranno notevole influenza sulla mia famiglia, e quindi anche su di me. Prima di andare avanti, però, bisogna ricordare che la generazione dei miei genitori non ebbe vita facile: innanzitutto dovettero affrontare la Grande Depressione degli anni ’30, che di fatto ne segnò la fanciullezza; poi negli anni ’40 persero anche la gioventù affrontando una delle peggiori guerre di tutti i tempi. Non a caso la loro viene spesso definita The Great Generation
per l’enorme impatto storico-sociale dei problemi che dovette affrontare. Per quei ragazzi e quelle ragazze tutto avvenne così in fretta che non ebbero nemmeno il tempo di capire cosa stesse succedendo intorno a loro. La guerra, il lavoro, i figli, cresciuti nonostante le difficoltà economiche… senza accorgersene erano già vecchi. Quella generazione ha avuto l’onere di ricostruire un mondo in macerie, senza avere neanche il tempo di riprendere fiato e godersi i frutti dei suoi sacrifici. Dovremmo essere tutti grati a quella gente per ciò che ha saputo affrontare e superare, ma forse è anche a causa di simili fattori storici che molti di loro diventarono violenti. Saranno gli esperti in Psicologia sociale a smentire o confermare questa tesi, non ho la pretesa di affermarla con certezza, ma in base alla mia esperienza sono portato a credere che sia così. Purtroppo, mio padre lo era, violento, sia fisicamente che verbalmente. Spesso alzava le mani su mia madre, e non di rado perdeva la pazienza anche con i figli, specie con mio fratello e mia sorella. Qualche volta picchiava anche me, ma sporadicamente, forse perché ero il piccolo di casa, chissà!
Come si può immaginare, essendo nipoti di immigrati italiani eravamo cattolici, così frequentammo una scuola elementare privata gestita da suore. I miei fratelli fecero lì anche le medie, io invece no: purtroppo quando toccò a me la diocesi aveva sempre meno soldi e gli ultimi due anni non formò più classi di scuola secondaria, motivo per cui in quell’istituto privato feci solo le primarie. Forse non tutti sanno che nel sistema scolastico statunitense le scuole primarie durano sette anni: il primo anno viene definito Kindergarten
, una parola tedesca che vuol dire letteralmente giardino dei bambini
, ed è grossomodo l’equivalente del nostro ultimo anno d’asilo. Dal secondo in poi, ogni anno corrisponde a un grade
, o grado scolastico: first, second, third, fourth, fifth, sixth. Nel mio caso la scuola primaria iniziò nel 1965, quando avevo cinque anni, e si concluse nel 1972, a dodici anni. Seguendo il paragone con l’Italia, il sesto ed ultimo grade corrisponde circa al primo anno di scuola media. Infatti, di solito negli Stati Uniti la Middle School dura un biennio, non tre anni come qui. Così come l’High School ne dura quattro, invece che cinque. A ben vedere, il fatto che, se tutto fila liscio, negli Stati Uniti si concluda la scuola superiore al compimento della maggiore età influisce molto sull’ingresso nel mondo della vita adulta
.
Tornando alla mia infanzia, ricordo che anche da bambino mi interessava parecchio lo studio della Storia: comprendere lo sviluppo di altre culture, di altri popoli, in svariate parti del mondo, e magari imparare anche qualche lingua in più suscitava in me una fervida immaginazione, che unita alla mia innata curiosità ha temprato il carattere per sempre. Mia madre, dal canto suo, mi raccontava spesso storie sulla famiglia d’origine e su quella di mio padre, così fu precoce in me l’interesse per l’Italia e la voglia di conoscerla di persona. Un desiderio che rimase costante, motivato dal bisogno di ritrovare le mie radici profonde e comprenderle fino in fondo.
Sotto vari aspetti potevo ritenermi un bambino sensibile, soprattutto verso i problemi degli altri, caratteristica che mi ha accompagnato sino ad oggi. Molta gente già allora si fidava di me, forse perché riuscivo a manifestare in modo chiaro e spontaneo il mio naturale spirito altruistico. Ma altrettanto facilmente mi si poteva offendere e far soffrire in modo spesso gratuito, senza motivo. Sì, anche ciò accadeva ed io imparai ad affrontarlo nel tempo, ma da bambino ci stavo male, non avevo ancora le spalle larghe per lasciarmi scivolare addosso le parole di chi non meritava alcuna considerazione.
In compenso, con le suore del mio istituto mi trovavo molto bene, e anche con le altre maestre andavo d’accordo. A scuola le materie più ostiche per me erano la matematica e le scienze; stranamente, nonostante la mia voglia di scoprire il mondo, avevo una certa difficoltà a comprendere ciò che leggevo. Sovente sbagliavo la pronuncia delle parole, l’intonazione, ma ancor più spesso facevo fatica a capire il significato delle frasi. Fardello, questo, che mi avrebbe accompagnato fino al termine delle elementari. C’era sempre un prete a consegnare la pagella nelle mani dei nostri genitori, cosa che rendeva quei giorni un concentrato d’ansia e timore! Ovviamente, già sapevo quali sarebbero stati i giudizi migliori e dove invece avrei preso quelli peggiori, perciò cominciavo a crucciarmi parecchi giorni prima, consapevole di ciò che mi aspettava. Anche questa componente del mio carattere mi perseguita da sempre: a volte sento in modo istintivo di dover fare una certa cosa, oppure il suo contrario, e se vado contro quell’istinto – chiamiamolo così per il momento – so già che mi attendono delle brutte conseguenze.
Nel 1968 e poi