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Veni, Vidi, Eni... Enrico Mattei e il sovranismo energetico.: 1. La "lunga marcia" dall'Agip all'Eni
Veni, Vidi, Eni... Enrico Mattei e il sovranismo energetico.: 1. La "lunga marcia" dall'Agip all'Eni
Veni, Vidi, Eni... Enrico Mattei e il sovranismo energetico.: 1. La "lunga marcia" dall'Agip all'Eni
E-book754 pagine11 ore

Veni, Vidi, Eni... Enrico Mattei e il sovranismo energetico.: 1. La "lunga marcia" dall'Agip all'Eni

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Enrico Mattei morì alle 18.55 di sabato 27 ottobre 1962, precipitando in mezzo a un filare di pioppi nelle campagne di Bascapè, a una manciata di chilometri dalla pista dell'aeroporto di Linate. Come documentato decenni dopo dal pm di Pavia Vincenzo Calia, si trattò di un attentato. Un'esplosione pianificata per distruggere gli strumenti di navigazione dietro il cruscotto del pilota, il fedelissimo Irnerio Bertuzzi, reduce pluridecorato della Rsi. «Voliamo sicuri» aveva detto Mattei. «Dio non può avercela con un fascista e con un partigiano.» Ma ad avercela con loro non era Dio. Era tutt'altro… Mattei osò sfidare il potere delle compagnie petrolifere internazionali e la struttura stessa di quell'industria, una delle più potenti della storia dell'umanità, in nome dello strategico sovranismo energetico nazionale. E ne avrebbe pagato il prezzo. Ricostruire la sua storia significa esaminare le radici della Repubblica italiana, che affondano nel suo periodo più cruciale, quello dalla ricostruzione al 1962, passando attraverso le meraviglie e le sventure del "miracolo economico". Tenendo sempre presente lo scontro geopolitico a tutto campo che passa sotto il nome di "Guerra fredda", uno scenario da non dimenticare e non sottovalutare. Mai.
LinguaItaliano
Data di uscita8 nov 2021
ISBN9791280657015
Veni, Vidi, Eni... Enrico Mattei e il sovranismo energetico.: 1. La "lunga marcia" dall'Agip all'Eni

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    Anteprima del libro

    Veni, Vidi, Eni... Enrico Mattei e il sovranismo energetico. - Gianfranco Peroncini

    INTRODUZIONE

    Mattei e l’Italia tradita,

    un’anamnesi clinica

    Non ridere, non lugere.

    neque detestari sed intelligere.

    Non ridere, non piangere né detestare.

    Cerca solo di comprendere.

    Baruch Spinoza

    Forse la colpa è tutta di de Gaulle…

    Un pluridecennale confronto con le vicende della guerra d’Algeria (1954-1962) ha, inevitabilmente, condotto all’approdo sulle pagine della monumentale trilogia biografica del più illustre dei francesi proposta da un maestro del genere, un giornalista e scrittore del calibro di Jean Lacouture.

    Il suo Avertissement introduttivo all’opera che apre il tomo 1, Le rebelle, contiene infatti linee guida che possono essere sottoscritte da chiunque intenda affrontare il contesto della parabola storica di Enrico Mattei.

    Non si può infatti non ripetere che lanciandosi in «questa impresa temeraria» l’autore non ignora «i suoi limiti e le sue manchevolezze». D’altra parte, niente o quasi – né frequentazioni del personaggio, né partecipazione all’una o all’altra delle fasi della sua epica avventura, e nemmeno la scoperta o il possesso di documenti inediti – designavano a questo «compito immane».

    Sempre da Lacouture si coglie lo spunto per segnalare sia la discrepanza tra ambizione e capacità sia la volontà di evitare di cadere nel ridicolo sottolineando, inutilmente, che lo studio non può avere in alcun modo la pretesa di essere esaustivo.

    Buona norma è saccheggiare anche l’acribìa di prevedere che qualche lettore lamenterà la fascinazione esercitata dal protagonista mentre altri, al contrario, criticheranno l’ironia a volte utilizzata per esorcizzare questo pericolo. Entrambe le categorie, aggiungiamo noi, non sono sprovviste di qualche ragione.

    Anticipiamo quindi, a scanso di equivoci, che il testo non ha la pretesa di essere più obbiettivo di quelli che l’hanno preceduto e che, certamente, lo seguiranno. Ha solo avuto la pretesa di esplorare angoli e punti di vista per certi versi inusuali. E non intende, per questo, chiederne scusa.

    Concludiamo – indegnamente – con le parole del conteur, oltre che di de Gaulle, delle vite di Hô Chi Minh, Nasser, André Malraux, Léon Blum, François Mauriac, Pierre Mendès France, Jean-François Champollion, i gesuiti, François Mitterrand, Greta Garbo, John Fitzgerald Kennedy, Germaine Tillion, Montesquieu, Stendhal e Alexandre Dumas, ricordando che pure l’autore di questo studio sul primo presidente dell’Eni, formatosi alla scuola del giornalismo, non è uno storico di professione e nemmeno un docente universitario, e che per questo ha inteso più informare che insegnare. O almeno così crede.

    Prendere in mano la storia di Enrico Mattei significa esaminare, con la forza e la lucidità del senno di poi, le radici profonde della Repubblica italiana, radici che affondano nel periodo più cruciale che va dalla ricostruzione sino alla formazione del centrosinistra, nell’anno stesso della sua morte, il 1962, passando attraverso le meraviglie, le sventure e i misteri del cosiddetto miracolo economico.

    Il tutto sullo sfondo, sempre presente come uno sconsacrato convitato di pietra, di quello scontro geopolitico a tutto campo che passa sotto la definizione di Guerra Fredda, uno scenario storico e sociale che è bene non dimenticare, e non sottovalutare, mai. Anche per questo l’esame di quel periodo finisce per assomigliare sempre di più se non a una sorta di autopsia tout court quanto meno a una impietosa anamnesi clinica.

    Il caso Mattei sembra infatti anticipare e incrociare, in maniera oltremodo inquietante, sia le più drammatiche e complesse vicende della prima Repubblica sia quelle del regime precedente. Una sorta di danza macabra, di Totentanz, che collega logicamente e in qualche modo cronologicamente omicidi (apparentemente) diversi e lontani tra loro come quelli di Kennedy, di Moro e di Pasolini, nel segno di quella sovranità limitata che dal Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, la pace cartaginese imposta all’Italia, passando per l’innesto mafioso 2.0 organizzato dai servizi segreti militari statunitensi al momento dello sbarco di Sicilia, sarebbe poi sfociata, una volta caduto il Muro di Berlino e ridisegnate le priorità strategiche e geopolitiche continentali, nel divorzio tra il ministero del Tesoro e la Banca d’Italia, nell’inchiesta spericolatamente definita Mani pulite, negli omicidi di Falcone e di Borsellino, nella crociera di un panfilo britannico nelle acque internazionali davanti a Civitavecchia, nella cancellazione delle Partecipazioni statali, uno dei motori dell’ingombrante miracolo economico italiano. Un’iniziativa che non produceva solo uova di cioccolata e panettoni, come dichiaravano con scarsa fantasia e affannato spirito polemico, i suoi interessati detrattori, bensì e soprattutto, acciaio, telecomunicazioni e autostrade.

    Non a caso, le dismissioni di quei gioielli di famiglia del patrimonio strategico nazionale avrebbero, inevitabilmente, condotto ai tragici misfatti del ponte Morandi.

    Si può dunque cominciare a capire che per comprendere davvero Mattei e la sua avventura bisogna forse possedere un briciolo della sua geniale follia insieme a un tascapane ben fornito di audacia, patrimonio ineludibile di quanti si possono permettere di andare davvero oltre. Perché vengono da lontano, da molto lontano… Da più lontano di quanto gli esegeti delle cronache di ordinaria pazzia dei tempi ultimi possano nemmeno immaginare.

    L’audacia di cui sopra nasce proprio da questo vantaggioso punto di osservazione prospettico. Che diventa spunto di proiezione sul presente.

    Avendo la meta traguardata sulla Stella polare, astronomica quanto simbolica, non è infatti possibile sentirsi legati, oltre il dovuto e il necessario, alle tappe intermedie di un cammino che, a ben guardare, si rivela un lungo pellegrinaggio alla ricerca di Itaca.

    Con la consapevolezza precisa, chiara, netta, e a volte lancinante, che una ventina di anni fa non abbiamo cambiato secolo. Abbiamo cambiato millennio.

    Per cui corre l’obbligo non tanto di dimenticare quanto di affidare agli archivi e al dibattito della Storia le esperienze, i drammi, le nostalgie, le vittorie e le sconfitte di un Novecento che sarà stato anche breve, ma che racchiude complessità che devono essere affrontate, nel bene e nel male, al vaglio di un’analisi storica, oggettiva e scientifica. Non attraverso il prisma del raglio rantolante delle contingenze di cronaca che non si accorgono del fiume che scorre, veloce, alle loro spalle.

    In questa chiave l’unico compito, per quello che può modestamente competere, che vale la pena di cercare di interpretare, è il ruolo di guastatori, di operatori di forze speciali culturali, strategicamente e non solo tatticamente impegnati a far saltare in aria e polverizzare steccati, ghetti, lazzaretti, dighe e categorie di pensiero legate a quel millennio che ci siamo lasciati, inesorabilmente, alle spalle. Per regolare definitivamente i conti con la destra e la sinistra, alla luce di quanto diceva Giano Accame per il quale l’Italia aveva e ha bisogno di una destra sociale e di una sinistra nazionale.

    E proprio per dare spazio agli uomini di destra che hanno idee di sinistra è forse necessario tornare a occuparsi di politica alta. Solo in questa luce infatti, come mezzo secolo fa, è possibile pensare a un impegno attivo sul piano storico, costretti come siamo a vivere uno snodo fondamentale della nostra storia.

    A ben vedere con urgenze e scadenze ancora più ultimative di allora.

    Come dicevamo, riprendere in mano il caso Mattei significa mettere al microscopio le radici profonde della Repubblica. Anche perché s’inserisce in uno snodo temporale, logico, economico, sociale e geopolitico che ha avuto profonde ripercussioni sulla recente storia italiana.

    Da questo punto di vista, uno studio di Marco Pivato, autorevole giornalista scientifico, cripticamente intitolato Il miracolo scippato, potrebbe essere scortato da una serie di sottotitoli via via un po’ più chiarificatori, come quelli di un paio di recensioni a esso dedicate: un modello di sviluppo assassinato oppure così ci uccisero il futuro.

    Questo saggio sconcertante quanto destabilizzante rintraccia quattro vicende, coeve e congruenti, quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni ’60 che coinvolgono direttamente l’Eni di Enrico Mattei, la divisione calcolatori elettronici dell’Olivetti, il Comitato nazionale per l’energia nucleare (Cnen) di Felice Ippolito e l’Istituto superiore di sanità di Domenico Marotta, quattro poli di eccellenza scientifico-tecnologica in grado di rivaleggiare con il mondo intero. Quanto di porsi, addirittura, alla sua testa.

    Come detto, oggi, con innovazione e ricerca azzerati da un autolesionista bombardamento a tappeto alla "Bomber" Harris di quanto mai infausta memoria, sconcerta non poco riscoprire che in quegli anni la lira aveva ottenuto l’oscar della moneta e che in quattro settori strategici d’assoluta avanguardia – petrolifero, informatico, nucleare e sanitario – l’Italia non solo non era la Cenerentola del mondo sviluppato, ma era anzi presa a modello.

    Dopo un pianificato e scientifico lavaggio del cervello che dalle clausole del Trattato di pace, alcune delle quali ancora segretate, arriva sino al cialtronismo istituzionalizzato e vaccinale della celebrata commedia all’italiana da cui i più celebri guitti dell’epoca trassero fortune e fama immeritate, è stato tutto un affannato e affannoso rincorrersi a chi sottolineava le stigmate ricorrenti degli "italians" moralmente straccioni, miserabili, mafiosetti mangiaspaghetti, evasori, furbetti del quartierino, magliari e sempre ontologicamente incapaci di disciplina.

    Ultimamente siamo anche arrivati al paradosso – lubrificato e veicolato dalle mucose reptazioni prodotte dai resti macilenti e sgangherati di un partito dalle eroiche tradizioni storiche – di farci impartire lezioncine di etica da paesi che hanno costruito le loro fortune sui paradisi fiscali europei o che, nel pianificato strabismo mediatico, si sono arricchiti elemosinando pietà debitorie dagli alleati (London Debt Agreement, 1953) per finanziare ricostruzione e riunificazione, per poi coniugare allegramente quella compassione, mai restituita (Grecia), con i più grandi scandali di tangenti internazionali (Siemens), patteggiando a tempo perso multe miliardarie per avere spacciato titoli tossici negli Stati Uniti (Deutsche Bank) o taroccando, emissioni dei motori delle auto (Dieselgate).

    Nessun genere cinematografico all’olandese o alla tedesca ha mai stigmatizzato, con morbosa e problematica voluttà masochistica, questi comportamenti.

    Perché?

    La risposta è difficile, complessa, dolorosa e potrebbe portare molto lontano. Quello che di certo possiamo esaminare invece è il siluramento, inconcepibile e catalogabile in fattispecie giuridica solo come alto tradimento, avvenuto in Italia negli anni ’60 di quattro incubatrici di un modello di sviluppo economico e sociale avanzatissimo, basato sulla ricerca scientifica. Incredibile dictu audituque.

    Tutto comincia il 25 luglio 1945, quando il matematico Vannevar Bush del Massachusetts Institute of Technology di Boston, consigliere scientifico della Casa bianca, consegna al presidente Harry Truman un memorandum di 35 pagine intitolato Science: The Endless Frontier (Scienza: La frontiera infinita) focalizzato sulle nuove politiche di sviluppo degli Stati Uniti, nel quadro del nuovo scenario determinato dalla fine del secondo conflitto mondiale.

    Il rapporto intendeva mettere in pratica le teorie esposte dall’economista austriaco Joseph Schumpeter in due saggi, La teoria dello sviluppo economico del 1911 e Il processo capitalistico. Cicli economici del 1939, in cui proponeva l’idea che la competizione tecnologica è la forza motrice dello sviluppo economico. Secondo Bush, la dimostrazione concreta della necessità di investire in ricerca e sviluppo per innescare quel ciclo virtuoso che da innovazione e tecnologia porta alla costruzione di ricchezza è il Manhattan Project, guidato a Los Alamos, New Mexico, da Robert Oppenheimer, che avrebbe condotto gli Stati Uniti a realizzare le prime bombe atomiche della Storia.

    Bush spiega a Truman che la scienza è la base su cui costruire la sicurezza nazionale del paese, una sicurezza economica e sociale prima che militare, prerequisito fondamentale per la potenza che, dopo due guerre mondiali (le tappe che definiscono la Guerra di successione britannica, in cui il mondo stabilì se vivere all’ombra di un Secolo americano o di un Secolo tedesco), si appresta a disegnare l’architettura nel nuovo ordine planetario.

    Il progetto di Vannevar Bush è acquistato a scatola chiusa. Nelle ultime ore della guerra, Wernher von Braun, con l’Armata rossa a 200 chilometri dalla base missilistica tedesca di Peenemünde, nella parte settentrionale dell’isola di Usedom nel mar Baltico, al confine tra Germania e Polonia, decide di arrendersi alle truppe statunitensi. Il 20 giugno 1945, il Dipartimento di Stato ordina il trasferimento di von Braun e del suo staff negli Stati Uniti. Inizia così il rastrellamento degli scienziati tedeschi, un’operazione che prenderà il nome di Paperclips.

    Molto inchiostro è stato versato sulle origini sulfuree della tecnologia spaziale statunitense, della Nasa e del programma Apollo, nati sotto la direzione del geniale ed eugenico von Braun e delle bombe volanti V-1 e V-2 della Germania di Hitler da lui progettate: 800 chili di esplosivo recapitato su obiettivi britannici a centinaia di chilometri di distanza da un missile scagliato a velocità impensabile per l’epoca, dove la V stava per Vergeltungswaffe (arma di rappresaglia), in quanto per il ministro della Propaganda del Reich, Joseph Goebbels, si trattava della risposta ai bombardamenti terroristici dell’aviazione alleata sulle città tedesche.

    Pochi sottolineano però che anche i primi successi sovietici nella corsa allo spazio, a partire dalla messa in orbita il 4 ottobre 1957 dal cosmodromo di Bajkonur, nell’attuale Kazakistan, del primo satellite artificiale, lo Sputnik, nascono anch’essi dallo studio di quelle stesse V-2 catturate in Germania dalle truppe dell’Armata rossa.

    Comunque sia, in quei giorni si aprono diversi e nuovi scenari. Inizia la Guerra fredda, finisce l’epoca della scienza pionieristica e inizia quella della ricerca su scala industriale, che mette a lavorare insieme i migliori scienziati garantendo alti investimenti. È un gioco complesso e molto pericoloso, senza sconti e senza esclusione di colpi, che all’ombra delle V-2, dei funghi atomici di Hiroshima e Nagasaki e del più clamoroso caso di spionaggio della Guerra fredda, quello dei coniugi Julius ed Ethel Rosenberg, giustiziati sulla sedia elettrica nel penitenziario di Sing Sing il 19 giugno 1953 come spie comuniste per avere trasmesso a Mosca i segreti dell’atomica statunitense, scorterà sino alla missione Apollo 11 e allo sbarco sulla Luna del 20 luglio 1969 (forse).

    È in questo contesto storico internazionale che prendono forma le vicende raccontate da Pivato.

    Tra gli anni ’30 e gli anni ’70 del Novecento nei principali sistemi economici occidentali si andò affermando, in declinazioni e modalità varie, l’economia mista mentre cresceva, nelle grandi imprese, il ruolo dei manager, che rimpiazzavano la proprietà nella gestione e nelle decisioni strategicamente rilevanti.

    Sin dai primi tempi dell’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale che deteneva il patrimonio industriale pubblico negli anni del fascismo, l’esperienza italiana delle grandi imprese di proprietà statale gestite con metodi ed efficienza privata suscitò notevole interesse in molti osservatori stranieri in quanto non condannate, se ben guidate negli indirizzi generali politici e nella direzione operativa quotidiana, a un’inespiabile elefantiasi burocratica e inefficiente. Come piace raccontarla alla narrativa liberal-capitalista, di ben occhiuta prospettiva.

    Quello specifico modello organizzativo industriale, che avrebbe portato l’Italia a diventare la sesta potenza del settore a livello mondiale, era infatti alla base dei formidabili successi economici nazionali.

    Tuttavia, mentre all’estero ci si applicava a studiare il modello Italia, sin dall’immediato dopoguerra cominciava nel nostro paese uno scontro all’ultimo sangue contro le presunte usurpazioni, da parte delle imprese pubbliche, delle prerogative, e dei vantaggi economici, dell’economia privata.

    Un simbolo di quei manager pubblici (i padreterni nel lessico liberista di Luigi Einaudi) era certamente Enrico Mattei cui sono dedicate le pagine di questo saggio. Un facile bersaglio visto la sua sempre dichiarata insofferenza ai controlli amministrativi e alla conformità formale alle regole del diritto e non a quelle dell’efficienza economica della gestione. Celebrate solo quando fanno parte dell’elegiaca narrative dell’iniziativa privata.

    Un processo e un rigetto di lungo respiro che avrebbe condotto all’attuale e pianificata deindustrializzazione del paese e alla sua completa spoliazione economica, attraverso la liquidazione delle sue risorse strategiche, tramite castrazione dismissiva. Spegnere la forza economica dell’Italia aveva un duplice scopo: serviva a sottrarle i gioielli di famiglia, pagati a caro prezzo nel corso di lunghi anni dalla comunità nazionale (si veda il caso, drammatico, delle autostrade e della capillare rete elettrica nazionale), ma serviva anche a togliere di mezzo un pericoloso, aggressivo e a volte spregiudicato competitor specifico per l’industria nord-europea e francese.

    Le quinte colonne di questo piano contro la nazione italiana non brillavano per intelligenza felina. Non c’è bisogno di generali annibalici o cesariani quando hai alle spalle un arsenale nucleare unilaterale.

    Prendiamo il caso di Beniamino Andreatta, onnipresente protagonista di questo scenario, dal divorzio tra ministero del Tesoro e Banca d’Italia, la madre di tutte le nostre disgrazie economiche recenti, imposto da una congiura, come lui stesso la definì, tra lui e il governatore Carlo Azeglio Ciampi, sino all’allegra crociera di shopping industriale nel Belpaese organizzata a bordo del Britannia, lo yacht della famiglia reale britannica.

    Nel 1982, il partito socialista, pure alleato di governo, accusava il ministro del Tesoro Andreatta di strozzare l’economia italiana con le sue strette creditizie. E così il 17 aprile, durante un intervento al congresso regionale della Dc a Modena, Andreatta dichiarò, in maniera oggettivamente delirante, che l’Italia avrebbe corso rischi molto pericolosi qualora il Psi avesse assunto una posizione dominante nella politica italiana, erodendo il tradizionale bacino di consenso democristiano: «Facendo una politica di restaurazione, ogni voto che il Psi strappa alla Dc avvicina il paese alla pericolosa avventura di un nazionalsocialismo».

    Il presidente della Repubblica Sandro Pertini non poté evitare di bollare come «disgustose» le affermazioni di Andreatta.¹ Ciò non impedì loro di continuare inesorabile e tra i principali responsabili la sua campagna d’Italia.

    A partire dagli anni ’80 prese infatti le mosse la prima stagione di privatizzazioni avviata da Romano Prodi, allora presidente dell’Iri, il primo fatale passo di una progressiva distruzione dell’industria pubblica nazionale, quella che aveva contribuito in maniera fondamentale alla trasformazione del paese in una potenza economica di rango mondiale.

    Il processo continuò poi con la seconda ondata, quella delle privatizzazioni degli anni ’90, e con la svendita definitiva del patrimonio dell’Iri. Il miglio verde finale fu l’ingresso nel sistema della moneta unica con la conseguente adozione di un cambio troppo pesante per i parametri dell’economia italiana, accelerando così l’accennato processo di deindustrializzazione del paese, a beneficio del cartello liberal-capitalista nordeuropeo, rappresentato dall’industria tedesca e olandese che, in un gioco a somma zero facilmente prevedibile, hanno beneficiato sontuosamente di un cambio artificialmente svalutato.

    Oggi la crisi innescata dal Covid-19 sembra essere l’ultima tappa di questo chemin de croix nazionale. Abbiamo infatti assistito, nell’insipienza assoluta della dirigenza politica di ogni livello, a un crollo vertiginoso e drammatico del Pil sul quale le autorità nazionali ed europee non hanno potuto o non hanno voluto intervenire con l’efficacia fulminea e concreta che l’emergenza avrebbe imposto.

    Ma nella Storia niente avviene per caso. Tutto, nella maglia complessa e articolata del divenire storico, si aggancia all’anello e alla serie di anelli precedenti.

    Gli effetti delle privatizzazioni e della deindustrializzazione degli anni ’80 e ’90, che esplodono oggi in tutti i loro effetti collaterali perniciosi e facilmente immaginabili, hanno un precedente in quell’arco di tempo degli anni ’60 descritto da Pivato.

    I quattro episodi più famosi della prima fase di quella guerra condotta contro l’Italia negli anni ’60, quelli che hanno soffocato sul nascere le opportunità di collocarsi stabilmente tra i paesi con un’economia basata sulla ricerca e l’avanzamento tecnologico, sono elencati puntualmente dall’autore del Miracolo scippato: la parabola inspiegabilmente declinante dell’Olivetti, dopo la morte improvvisa e inaspettata di Adriano Olivetti nel 1960, seguita un anno dopo, nel 1961, da quella del suo carismatico ingegnere informatico italo-cinese Mario Tchou; il naufragio, causa attentato, del progetto di modernizzazione della politica economica industriale ed energetica nazionale perseguito da Enrico Mattei; l’arresto e la condanna di Felice Ippolito, presidente del Comitato nazionale per l’energia nucleare nel 1963, che segnava l’arresto del programma di ricerca e sviluppo del nucleare civile in Italia; l’arresto e la condanna di Domenico Marotta, nel 1964, che sino al 1961 aveva diretto l’Istituto superiore di sanità, facendone uno dei centri di ricerca biomedica più dinamici nel mondo occidentale, nel quale erano venuti a lavorare premi Nobel come Daniel Bovet e Boris Chain.

    Mattei, lanciato alla conquista del mondo degli idrocarburi, petrolio e metano. Il tandem Olivetti-Tchou, capace di portare l’Italia ai vertici dell’industria elettronica internazionale costruendo, con 16 anni di anticipo sulla Apple, il primo computer da tavolo. Ippolito, che offre alla fisica italiana un posto di eccellenza nel nucleare, rendendola la terza potenza del settore. Marotta, che fa della ricerca sanitaria nazionale un centro d’attrazione per i migliori chimici e biologi del mondo.

    Tra gli anni ’50 e ’60 l’Italia gioca dunque un ruolo da protagonista assoluta nei settori che sarebbero di lì a pochi anni diventati trainanti nello sviluppo mondiale. E poi…? Poi, il vuoto.

    Morti, misteriose o meno, attentati, durissime repressioni giudiziarie, trend quest’ultimo più congeniale alle dinamiche di controllo del soft power per sbarazzarsi di personaggi scomodi rispetto a più cruente opzioni – sempre ambivalenti a causa del rischio di creare martiri e cause evergreen –, ma non per questo meno efficaci. Come ampiamente dimostrato nel corso ulteriore della travagliata storia politico-sociale ed economica dell’Italia, stritolata ma anche favorita, in certi casi, dalle logiche inevitabili della Guerra fredda. Che, sempre e comunque, finirono per determinarne il destino, nel pendolo delle mutevoli contingenze geopolitiche.

    In quella logica, il governo, più o meno profondo, degli Stati Uniti non poteva permettere che un settore strategico come quello l’elettronica si sviluppasse in un paese con il più forte partito comunista d’Occidente. Per di più, grazie all’impegno geniale e determinante di un ingegnere di radici e parentele cinesi e per questo pericolosamente ricattabile. «Fatto sta che nel ’60 muore improvvisamente Adriano Olivetti, che ha imposto il suo marchio in 117 paesi e – primo caso in Italia – per aprirsi il mercato degli Usa ha acquistato il 30% della storica azienda Underwood. L’anno dopo muore in un incidente Mario Tchou, capo della Divisione elettronica. Qualche tempo prima aveva pubblicamente criticato il governo italiano: La Olivetti è allo stesso livello qualitativo dei concorrenti, ma gli altri hanno un futuro sicuro essendo aiutati dallo Stato. Orfana dei suoi leader l’azienda entra nell’orbita di un gruppo d’intervento formato da Fiat, Pirelli, Imi e Mediobanca che con la scusa del risanamento finiscono col cedere il settore elettronico (definito dal presidente di Fiat, Valletta, un neo da estirpare) alla General Electric. Nel ’65 – ricorda Pivato – l’ultimo colpo di coda: "Alla Fiera dell’Innovazione di New York l’azienda presenta un piccolo calcolatore chiamato P101. I giornali americani parlano del primo computer da tavolo. Sedici anni prima di Ibm e Apple»².

    Comunque la si voglia vedere e valutare, è uno straordinario vantaggio scientifico, economico e sociale che viene dilapidato nell’arco, sospetto, di pochissimo tempo. Dal 1960 al 1964.

    Leggere queste storie in sequenza genera, molto, disagio. «Pivato, giustamente, mette in luce come, con la dissoluzione della divisione computer dell’Olivetti, venduta alla General Electric e poi praticamente distrutta, malgrado avesse prodotto e venduto con grande successo i primi calcolatori elettronici da tavolo del mondo, con l’incidente aereo mortale che uccise Enrico Mattei, il suo pilota e un giornalista americano suo ospite, con l’arresto, il processo e le pesanti condanne inflitte a Ippolito e a Marotta, la strada che l’economia italiana aveva in quegli anni decisamente intrapreso verso l’integrazione della ricerca scientifica nella struttura industriale, in coincidenza e talvolta anche precorrendo quel che accadeva negli altri principali paesi industriali, si interruppe bruscamente e non fu, nei decenni successivi, mai più ripresa. Non si trattò nemmeno dei soli episodi di distruzione in breve tempo di un patrimonio brillantemente accumulato dal plesso scienza-industria italiana. Altri se ne possono aggiungere. L’Ufficio studi della Montecatini, guidato da Giulio Natta, che era riuscito a cogliere il grande successo della petrolchimica, con la creazione del polipropilene, per il quale Natta avrebbe ricevuto il premio Nobel, fu neutralizzato in anni immediatamente successivi, vittima illustre delle guerre chimiche follemente scatenate e condotte con i soldi degli indennizzi della nazionalizzazione dell’energia elettrica. Lo stesso può dirsi di ciò che accadde all’industria spaziale, che riuscì a mettere in orbita il terzo satellite artificiale del mondo, a pari merito con l’India, sotto la guida del generale Broglio e grazie alla famosa piattaforma lanciamissili costruita nell’Oceano Indiano»³.

    Per quanto riguarda l’iniziativa di Adriano Olivetti occorre segnalare che il suo ambito non si restringe alla già peraltro durissima concorrenza con gli altri scienziati e le altre aziende, prima tra tutte l’Ibm, che negli anni ’50 si stavano attivando a gettare le basi dell’informatica moderna. «La scommessa di Olivetti s’intreccia in effetti con dinamiche apparentemente estranee alla scienza e tuttavia fondamentali: il ruolo dei calcolatori elettronici durante la Guerra fredda. Al tempo in cui alla Olivetti il Laboratorio di ricerche elettroniche si avvia allo studio dei calcolatori, il resto del mondo è politicamente e culturalmente spaccato in due. Sopra il destino dell’umanità pendono gli ordigni nucleari caricati sui caccia americani che sorvolano, ventiquattro ore su ventiquattro, i confini dell’impero sovietico, a sua volta impegnato a tenere alta la tensione con l’identica minaccia di un olocausto sui paesi confinanti dell’Europa. Dal dopoguerra, la scienza, e quindi la corsa al know-how tecnologico in ogni campo, calcolatori compresi, diventa a tutti gli effetti protagonista della competizione politica. La scienza declinata a scopi bellici continua il suo percorso: i calcolatori elettronici diventano una tecnologia sensibile. […] Sempre i calcolatori elettronici coordineranno il viaggio in orbita del primo cosmonauta Jurij Gagarin e presto manderanno l’uomo ancora più lontano, sulla Luna. L’informatica diviene affare militare di gran conto. Secondo Rao, gli Stati Uniti percepiscono il grande pericolo del trasferimento tecnologico di questa ‘tecnologia sensibile’ e ne divengono a buon diritto gelosi»⁴.

    Se facciamo mente locale alle tensioni generate oggi tra Cina e Stati Uniti dalla tecnologia 5G, l’insieme di tecnologie di telefonia mobile e cellulare i cui standard di quinta generazione garantiscono prestazioni e velocità superiori a quelli della tecnologia precedente, e collochiamo nel contesto della Guerra fredda l’iniziativa di Olivetti e di Tchou, ingegnere dalle quanto mai sulfuree ascendenze genetiche, avremo forse un’idea più precisa della posta e degli interessi strategici allora in gioco. Sulla vita e la storia di Mario Tchou, del tutto sconosciuta ai più, torneremo più avanti.

    Dopo il caso della Olivetti e quello di Mattei, a uscire di scena fu il responsabile del progetto nucleare civile italiano, Felice Ippolito.

    Il caso Ippolito, che stava già covando sotto la cenere, scoppia il 4 agosto 1963 quando un editoriale di Eugenio Scalfari su «L’Espresso» interviene nel conflitto di competenze e attribuzioni instauratosi tra l’Enel e il Cnen, prendendo posizione a difesa di quest’ultimo.

    La mossa di Scalfari è il segnale dell’inizio della guerra contro Ippolito. Dal 10 agosto l’agenzia di stampa del partito socialdemocratico batte una serie di note del segretario Giuseppe Saragat che interviene a difesa dei vertici del neonato Ente nazionale per l’energia elettrica che ha assorbito tutte le aziende private del settore a seguito della nazionalizzazione dell’industria del dicembre 1962. Il leader socialdemocratico attacca a testa bassa il Cnen e l’«ossessione dell’energia atomica», insieme ai progetti per la costruzione di nuove centrali a combustibile atomico per altre centinaia di miliardi, dichiarando l’intenzione «di vigilare per impedire nuovi assurdi sperperi di pubblico denaro».

    L’argomento viene ripreso da tutti i più importanti quotidiani nazionali. A fianco di Saragat si schierano il «24 Ore» e il «Corriere della Sera», con Ippolito e il Cnen scendono in campo «l’Unità», l’«Avanti!» e la «Voce repubblicana».

    Oltre allo «sperpero di denaro», secondo Saragat, esiste un altro e decisivo aspetto dirimente e cioè il fatto che non è possibile produrre energia elettrica a prezzi competitivi rispetto alle altre fonti tradizionali come carbone e petrolio. Il nucleare italiano, in altre parole, sarebbe condannato in quanto antieconomico. Per questo all’Italia conveniva rimanere fuori dal settore. Come vedremo ampiamente con il caso Mattei, la non convenienza economica sarà il chiodo più ribattuto da quanti intendevano difendere, a spada tratta, lo status quo. Che altro non era che la posizione di egemonia assoluta del cartello petrolifero internazionale.

    Anche Saragat, una volta archiviata con l’attentato di Bascapè la pratica Mattei, era allineato su queste posizioni? Il sospetto è dello stesso Ippolito secondo cui, in riferimento all’affaire che lo travolse, erano confluite una serie di componenti tra le quali preminente fu l’azione svolta dalle multinazionali petrolifere.

    L’accusa, fuor di metafora, era la seguente: dato che in quegli anni l’Italia ricavava l’energia elettrica per la stragrande maggioranza dagli idrocarburi, Saragat avrebbe intenzionalmente fatto il gioco delle grandi compagnie dell’Oil cartel remando contro lo sviluppo del nucleare in Italia in favore dell’utilizzo esclusivo di petrolio, sulla scia di tutti quei politici, di destra e di sinistra, che prima e dopo si sarebbero scolpiti una carriera aere perennius calpestando sistematicamente l’interesse nazionale. «Certo è che – scrive Pivato – agli Stati Uniti l’emarginazione di Ippolito farebbe gioco, dal momento che sono il paese che di fatto detiene il monopolio più solido sulle fonti combustibili fossili nel mondo. È anche l’opinione dello stesso Ippolito: I petrolieri, desiderosi di smistare barili e costruire nuovi impianti di raffinazione, avevano tutto l’interesse che l’Italia non sviluppasse una politica nucleare alternativa al petrolio. E il mio tentativo di creare un’industria nucleare italiana urtava appunto gli interessi delle Sette Sorelle che dominavano il mercato mondiale. Secondo motivo: né era gradito alle grandi compagnie americane costruttrici di reattori e agli ambienti conservatori (per non dire reazionari) italiani, che non vedevano di buon occhio l’affermarsi di un ente dinamico e moderno, qual era il Cnen. In rinforzo all’analogia tra Ippolito e Mattei come antagonisti determinati degli interessi degli Stati Uniti e dei privati nel settore dell’energia basta citare il «24 Ore», che nel 1963 usa spesso chiamare Ippolito Il Mattei atomico, un modo di dire che a Felice Ippolito fa pensare che "Mattei e io eravamo invisi allo stesso establishment, perché volevamo un’aggressiva politica delle Partecipazioni statali e perché, in modo diverso, toccavamo gli interessi degli stessi ambienti nazionali e multinazionali". I propositi di Ippolito si scontrano dunque con gli interessi dell’Eni del dopo Mattei nel settore dell’energia?»⁵.

    La questione potrebbe pericolosamente allargarsi perché, a nostro avviso, il nucleare in quegli anni, oggi come ieri, anche dal solo punto di vista civile è destinato a urtare suscettibilità estremamente delicate, visti i riflessi strategici e geopolitici inerenti di fronte al più o meno disinvolto maneggiamento di plutonio. Basti pensare al più che esplosivo contenzioso iraniano attuale a riguardo del quale alcuni addirittura avanzano una teoria spericolata legata alla caduta dello Shah, innescata proprio a causa dei suoi progetti dedicati all’energia nucleare civile. Ma questa è un’altra storia.

    Per tornare a bomba, di nome e di fatto, bisogna inserire nel quadro di realtà complessivo legato alla vicenda Ippolito il fatto che il suo nemico dichiarato, Giuseppe Saragat, nella politica italiana del secondo dopoguerra è stato una figura chiave nei rapporti tra Italia e Stati Uniti, dalla fine della guerra sino agli anni ’70, quando venne indicato dalla stampa britannica, pochi giorni dopo la strage di piazza Fontana, come un elemento fondamentale della strategy of tension, formula coniata sulle rive del Tamigi a poche ore dalla carneficina e che avrebbe avuto una fortuna mediatica e giudiziaria immediata quanto sospetta.

    Comunque sia, attraverso la costituzione del suo partito, il Psdi, un percorso che parte dalla rottura del fronte con i comunisti e con la scissione dal Psi di Palazzo Barberini del Partito socialista dei lavoratori italiani nel gennaio 1947, Saragat sarebbe stato un pilastro del cosiddetto partito atlantico, giocando un ruolo di primo piano nell’adesione da parte dell’Italia al Piano Marshall, che in cambio degli aiuti (mirati) alla ricostruzione avrebbe imposto un vincolo di sudditanza che gli Stati Uniti avrebbero instaurato sul piano economico e geopolitico costringendo l’Italia a quella sovranità limitata che era buona dottrina geopolitica anche dell’avversario/omologo d’oltrecortina.

    Mentre nubi di tempesta e accuse sempre più specifiche si addensano cupe e minacciose sulla testa di Ippolito e sui destini del Cnen, la sua creatura, il quadro politico è in piena evoluzione. Alla fine di agosto del 1963, è al potere il governo Leone, una coalizione di transizione succeduta alle prime stentate prove di alleanza con i socialisti ma che sta incubando la creazione vera e propria del centrosinistra guidato da Moro, che sarà infatti insediato poche settimane dopo, a dicembre.

    La sera del 3 marzo 1963 Ippolito viene tratto in arresto nella sua casa di Roma su mandato della Procura generale di Roma, a conclusione di una istruttoria sommaria sul suo operato durata tre mesi. I capi d’imputazione sono pesantissimi: peculato aggravato continuato per alcune centinaia di milioni, falso in atto pubblico e abuso di poteri d’ufficio.

    Il 5 marzo il «Corriere della Sera» elenca i numeri criminali dell’inchiesta: nove miliardi rubati e otto capi d’accusa. Sperperi, secondo il giornale, utilizzati da Ippolito «per assicurarsi il dominio assoluto sul comitato nucleare», oppure secondo una versione più edulcorata impiegati per «oliare la macchina burocratica» e velocizzare pratiche e procedure, «come dirà il ministro della Sanità Angelo Jervolino sul caso del direttore dell’Istituto superiore di sanità Domenico Marotta. In entrambi i casi ci sono alti funzionari accusati di peculato aggravato che hanno costruito e consolidato un ente di fama mondiale e di strategica importanza per la ricerca scientifica ma non senza difficoltà: gli intralci costituiti da interessi contrastanti, le pastoie burocratiche e le faide tra i partiti. Sembrano scuse? Non tanto se pensiamo, per esempio, agli ostacoli, per l’appunto burocratici che ha incontrato Enrico Mattei nell’edificazione, dalle fondamenta, dell’industria petrolchimica italiana».

    Una sorta di corruzione strumentale per un fine superiore, per così dire.

    La linea di difesa di Ippolito è stata preparata da tempo. Già nella notte del 5 marzo, nel corso del primo interrogatorio in carcere, Ippolito ammette alcune responsabilità, rispetto ad altre dichiara la sua assoluta estraneità mentre insiste su un’affermazione di indirizzo generale: «Per tre anni mi sono adoperato per potenziare al massimo il Comitato nucleare nell’interesse dell’Italia e del suo prestigio nel mondo atomico europeo» e se qualche irregolarità si è verificata «ritengo che questo sia un fatto non eccezionale per un organismo così complesso, così delicato e soprattutto così nuovo».

    Ippolito è un uomo isolato. Per i comunisti, accecati dai loro interessi di bottega, il fatto che sia stato comunque incriminato il vertice di un ente pubblico, quindi legato alla maggioranza e al governo o, come scrive in quegli anni «l’Unità», dell’universo «paragovernativo», è grasso che cola perché mette in discussione la leadership politica democristiana e lo Stato intero, fedele alleato del nemico di Mosca, la centrale che foraggia le attività del Pci con un Piano Marshall in salsa di caviale sovietico.

    L’accanimento giudiziario contro Ippolito sarà a dir poco sconcertante. Il pubblico ministero chiede una condanna a 20 anni di reclusione, 16 milioni di lire di multa e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Il 29 ottobre 1964 la Camera di consiglio, respinte le attenuanti generiche, condanna Felice Ippolito a 11 anni e 4 mesi di reclusione, al pagamento di 7 milioni di lire, confermando l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

    Per dare un’idea di quella sentenza, basti pensare che in anni recenti i sei autori della strage di Corinaldo, in provincia di Ancona, la cosiddetta banda dello spray, sono stati condannati in primo grado a pene comprese tra i 10 e i 12 anni in quanto ritenuti responsabili della tonnara mortale alla Lanterna Azzurra di Corinaldo quando nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 2018 fu spruzzata una sostanza urticante per rubare catenine e oggetti preziosi ai giovanissimi che aspettavano l’esibizione musicale del trapper Sfera Ebbasta. Nella calca che si generò, morirono cinque adolescenti e una giovane mamma.

    Indro Montanelli, che segue il processo per il «Corriere», non si accanisce più di tanto sull’imputato preferendo prendersela con la sua bestia nera, lo Stato, senza mai dimenticare Mattei, l’altra sua ossessione liberista. Scriverà dell’ex segretario generale del Cnen: «Ippolito incarna un nuovo tipo di cavaliere di industria che ha perso il coraggio e la fede nella iniziativa privata, ma ne ha mantenuto la spregiudicatezza e cerca di applicarla all’iniziativa pubblica. È stato Mattei a fornirne l’archetipo e il modello. Pace all’anima sua, egli è stato nefasto non tanto per ciò che ha fatto quanto perciò che insegnato a fare. Ha mostrato come si può, senza rischio personale [sic…] e con l’appoggio dello Stato, costituire delle baronie abbastanza forti (non ci vuole molto, del resto) per sottrarsi al suo controllo e, magari, esercitarne uno in senso inverso. Mattei aveva la statura per compiere questa impresa. I suoi grandi difetti avevano, come rovescio, qualità altrettanto grandi. Ma quanto la sua lezione fosse corruttrice, proprio Ippolito lo dimostra»⁸.

    È la preparazione per il gran finale: «Costui forse è colpevole. Ma meno, infinitamente meno, di quanto lo sia questo sgangheratissimo Stato […]. Il vero imputato di questo processo è lui, lo Stato».

    In appello, l’attività criminale di Ippolito viene derubricata a una serie di «favoritismi, di clientelismo e di leggerezza, facilitate, peraltro, e qualche volta determinate, dalle particolari condizioni di disordine amministrativo e organizzativo, dell’ente in vertiginosa crescita». La pena scende a cinque anni e tre mesi, di cui uno condonato. Dopo 2 anni e 20 giorni passati nel carcere di Rebibbia, Ippolito torna in libertà provvisoria, e nel marzo 1968 il suo più accanito rivale politico, Giuseppe Saragat, nel frattempo salito al Quirinale come presidente della Repubblica, gli concede la grazia restituendogli i diritti civili e con essi la facoltà di tornare all’insegnamento universitario.

    Saragat non tornerà mai volentieri sulla vicenda di Ippolito. Sergio Romano, autorevole editorialista ed ex diplomatico di vertice, ne darà testimonianza. «Quando ebbi occasione di lavorare con Saragat, giunsi alla conclusione che il leader dei socialdemocratici aveva dato troppo ascolto a qualche interessato consigliere e si era convinto che Felice Ippolito sarebbe diventato, come Enrico Mattei, uno zar dell’energia e, quindi, un pericoloso manipolatore della vita pubblica italiana. Allorché divenne presidente della Repubblica qualcun altro, per fortuna, dovette spiegargli che era ora di chiudere quella vicenda»⁹.

    Romano aveva conosciuto l’ex direttore del Cnen negli ultimi anni della sua vita e si rimproverava «di non avergli mai parlato della campagna montata contro la sua persona e del suo ingiusto processo. Ma sono certo che nelle sue parole, se avessimo toccato quell’argomento, non avrei trovato né rancore, né voglia di vendetta. Aveva le qualità dei grandi gentiluomini napoletani, non amava i piagnistei ed era dotato di una sferzante ironia. Il solo tema che non smetteva di suscitare la sua indignazione era il problema dell’energia in Italia».

    Ippolito, ricorda Romano, divenne protagonista del programma pubblico nucleare che mise in cantiere i grandi progetti di Trino Vercellese, Garigliano e Latina. «Eravamo allora, secondo alcuni osservatori, il terzo paese produttore di energia nucleare al mondo, e avremmo potuto, nell’arco di una generazione, gettare le basi per la nostra indipendenza energetica. Il sogno fu stroncato da una serie di velenosi articoli nell’agosto del 1963 sulle malversazioni di cui Ippolito si sarebbe reso responsabile nella gestione del suo Ente. Ancora oggi non sappiamo con documentata certezza (e non sapremo mai probabilmente) se dietro quelle accuse e insinuazioni vi fossero alcune aziende petrolifere o elettriche, interessate a evitare che lo Stato diventasse proprietario e amministratore di una energia nuova, più promettente delle altre. Ma sappiamo che il processo e gli 11 anni di carcere, scesi a 5 anni e tre mesi in appello, sono una brutta pagina di storia nazionale.»

    Dopo due anni di carcere Ippolito ritornò nel mondo della scienza e della ricerca. Fondò e diresse una rivista, «Le Scienze». Fu membro del Parlamento europeo dal 1979 al 1989, prima come indipendente nelle liste del partito comunista, poi per il partito repubblicano. Fu vicepresidente della Commissione nazionale per l’Antartide ed ebbe riconoscimenti nazionali e internazionali. Il paese, conclude Romano, cercò di riconoscergli una sorta di indennizzo morale. Ma il danno maggiore non fu quello inferto alla reputazione di un uomo onesto. «Fu quello che il paese aveva fatto a se stesso.»

    A completare il danno che il paese stava facendo a se stesso sarebbe arrivato il colpo di grazia di un altro caso giudiziario legato alle attività dei manager statali. L’attenzione si concentrava sempre su un settore strategico che, in questo caso riguardava la Sanità.

    Mentre nell’aula del tribunale furoreggia la cause célèbre del caso Ippolito, negli stessi mesi viene travolto da un nuovo scandalo amministrativo un altro personaggio pubblico, anch’egli strategico nella ricerca scientifica italiana.

    Domenico Marotta, chimico di formazione, dal 1935 è direttore dell’Istituto superiore di sanità (Iss), allora denominato Istituto di sanità pubblica, creato con il Regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265. Secondo lo statuto, l’ente doveva operare al servizio del ministero dell’Interno come centro di ricerca dedicato ai servizi per la sanità pubblica e per la specializzazione del personale, nel quadro, soprattutto, della battaglia campale intrapresa dal fascismo per debellare la piaga della malaria in Italia, la cui tappa più famosa e importante fu la bonifica integrale delle Paludi pontine. Il primo nucleo era costituito da 40 unità di personale e 4 laboratori: malariologia, batteriologia, chimica, fisica.

    Marotta ne rimase responsabile, per le sue evidenti competenze e capacità, anche dopo il passaggio all’epoca repubblicana, tenendo il timone sino a quando venne collocato a riposo, nel settembre 1961, a 75 anni. «Nei ventisei anni alla guida – sottolinea Pivano – ottimizza la qualità e la quantità delle ricerche dell’ente. Nel 1946, sotto Marotta l’Iss realizza il primo e unico microscopio elettronico italiano. L’anno seguente, grazie all’attività del medico Alberto Missiroli, dà il via alla creazione dell’Ente regionale per la lotta anti-anofelica in Sardegna e in cinque anni la malaria viene dichiarata debellata nel nostro paese: nel 1951 sono rimasti solo due casi degli ottantamila del 1944. Marotta […] nel 1948 crea il Centro internazionale di chimica e biologia. Vi installa un mastodontico fermentatore, un impianto di produzione per la penicillina che fa diventare l’Italia uno dei paesi leader nella dispensazione del farmaco; più dell’Inghilterra più degli Stati Uniti. Il virtuosismo dell’ente guidato da Marotta attira l’attenzione di illustri scienziati di fama internazionale avendo creato, di fatto, un centro d’attrazione mondiale: all’Istituto svolgono la loro attività di ricerca i premi Nobel per la medicina e la fisiologia, un fenomeno che oggi potremmo considerare il contrarlo del brain drain (fuga dei cervelli). Sui banchi dell’Istituto arriva, per esempio, Ernst Boris Chain, che con l’inglese Alexander Fleming – lo scopritore, nel 1928, della penicillina – e l’anatomopatologo australiano Howard Walter Florey, ha isolato, purificato e svolto il primo trial clinico dell’antibiotico. Per questi meriti nel 1945 Chain è insignito del premio Nobel per la medicina e la fisiologia. C’è anche Daniel Bovet, svizzero, biochimico, invitato in Italia da Marotta per proseguire i suoi studi sugli antistaminici. In Italia Bovet trova il clima giusto e all’Istituto fonda il Laboratorio di chimica terapeutica. Nel 1957, per i suoi studi nel campo della farmacologia diviene anche lui premio Nobel per la medicina e la fisiologia.»¹⁰

    Quel centro di assoluta eccellenza, quel primato produttivo nel campo della penicillina, allora considerata una sorta di pietra filosofale della medicina moderna (il che avrebbe portato ad abusi antibiotici assai perniciosi nel lungo periodo), quei centri di ricerca modernissimi, quell’attrazione fatale esercitata nei confronti dei migliori esperti internazionali del settore, costituiscono un’altra non prevista incongruenza in un paese appena sconfitto, a catena misurata, ma strategico per la sua posizione geopolitica nel cuore del Mediterraneo, a cavallo tra Europa, Asia e Africa. E quindi nella doppia chiave degli interessi e delle tensioni che si incardinano lungo gli assi geopolitici che corrono in direzione nord-sud e non solo est-ovest.

    La gestione dell’Istituto superiore di sanità da parte di Marotta comincia a suscitare resistenze e a generare le prime indiscrezioni relative all’ambito amministrativo.

    Vengono avviate due inchieste separate, una del ministero del Tesoro e una del ministero della Sanità, affidate ai rispettivi titolari, i ministri democristiani del governo Leone Emilio Colombo e Angelo Raffaele Jervolino. Le inchieste si concludono nella prima metà del 1963, con una sorta di non luogo a procedere. Le irregolarità dell’Iss risultano irrilevanti. Qualche illecito è stato commesso, ma motivato dalla necessità di alleggerire le farraginose normative burocratiche. Il dolo viene ridimensionato, gli accusati assolti. Ma la caccia è cominciata.

    Anche in questo caso, il partito comunista – figlio delle logiche settarie di Yalta, versione speculare filosovietica della Democrazia cristiana filoamericana, nel quadro di un’omologia fatale destinata a fondersi nel futuro abbraccio del malaffare consociativistico – non esita a gettarsi sull’Iss pur di lucrare spiccioli di consenso elettorale, rivelando dove riposassero le sue autentiche lealtà. Agli ordini cioè di un podestà forestiero che calzava gli stivali del collettivismo bolscevico come altri obbedivano al frustino dei padroni del plebiscito dei mercati.

    L’«Unità» entra possesso di documenti segreti dell’Iss e scatena una violenta campagna di stampa contro la gestione Marotta, rilanciata il 25 luglio 1963 dai deputati del partito comunista che presentano un’interpellanza al ministro della Sanità Jervolino, denunciando «gravi e inconsueti episodi di malcostume amministrativo che si verificherebbero da tempo presso l’Istituto superiore di sanità secondo concordi notizie ripetutamente riferite anche da organi di stampa di ogni tendenza». Al proposito, gli interroganti citano i casi dell’«Unità», di «Paese sera» e del «Borghese».

    Il 31 luglio 1963 il quotidiano ufficiale comunista pubblica un ampio servizio sugli illeciti dell’Iss. Pagine che suscitano particolare scalpore a causa della pubblicazione di documenti riservati con le firme dei relativi dirigenti, offrendo le prove che le irregolarità si verificavano, ripetutamente, sin dal 1953. È l’inizio del primo grande scandalo della Sanità che coinvolge in prima persona Marotta e Italo Domenicucci, capo dei servizi amministrativi dell’Istituto. La Procura di Roma decide di aprire un fascicolo d’indagine, mentre a dicembre il gabinetto Leone cede il passo al primo governo Moro. Jervolino, che aveva preso le difese di Marotta, deve lasciare il ministero della Sanità.

    L’inchiesta della Procura si conclude con due mandati di cattura. Nel primo pomeriggio dell’8 aprile 1964 vengono tratti in arresto dal nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri sia Marotta sia Domenicucci. Come scrive il «Corriere», destano scalpore le manette ai polsi del quasi ottantenne direttore dell’Istituto, sino a quel momento riuscito a gestire impassibilmente la forte emozione provocata dall’arresto, ma colpisce anche il fatto che di norma il mandato di cattura per questi capi d’imputazione sia facoltativo ed emesso quindi solo quando le responsabilità sono particolarmente gravi o esista il pericolo di fuga. Comunque sia, invece di dirigersi in caserma per espletare le formalità di rito che, in qualche modo, preparano psicologicamente l’imputato alla dura realtà del carcere, l’auto dei carabinieri si dirige subito a Regina Coeli.

    Il giorno dopo quegli arresti clamorosi «l’Unità» rivendica con giusto orgoglio il merito dell’inchiesta che ha portato a galla lo scandalo. Particolarmente feroce contro Marotta sarà la penna di Livio Zanetti su «L’Espresso». Marotta viene descritto come un autocrate che porta «il frac un po’ abbondante come quelli di certi re del cacao sudamericani», che «ha bisogno di marmi e lampadari, di inservienti in livrea e di quadri alle pareti».¹¹

    Il servizio «è speso a parlare quasi esclusivamente delle abitudini eccentriche di Domenico Marotta e di come l’Iss fosse una sua protesi, fuori dal controllo dello Stato e completamente degenerata. Solo nel finale si pone il sospetto che a monte del caso Marotta vi fosse una contraddizione, e che questa contraddizione fosse nell’apparato di leggi che regola l’amministrazione pubblica. L’Espresso scrive che la scienza, nel caso Marotta, è vittima della scelta di ribellarsi a questa contraddizione, tanto quanto lo è stata nel caso Mattei e nel caso Ippolito. Ma prima di annotare questa considerazione il periodico sceglie di mettere in evidenza che è avvenuto un furto di Stato. È un titolo che non lascia speranza alla revisione delle responsabilità: la legge sulla contabilità degli enti pubblici, per L’Espresso, è più importante dell’attività degli stessi»¹².

    Solo nell’ultimo capoverso della requisitoria di Zanetti si nota una certa e forse legittima cautela: «Che poi la nostra sia una società un po’ disarmonica, dove certi settori si muovono con dinamismo maggiore di certi altri e dove l’apparato legislativo dello Stato non riesce a combaciare con le esigenze d’un istituto di ricerca, è un discorso che può anche avere un suo fondamento ma che va impostato prima di tutto nella sede in cui si fanno le leggi, cioè il Parlamento. Tocca al Parlamento intervenire, prima che gli organismi come l’Istituto di sanità franino completamente, travolti da contraddizioni di cui non sono del tutto responsabili»¹³.

    Come per Ippolito, il caso Marotta si scioglierà, in questo caso come neve al sole, nel corso del dibattimento, lasciati sbollire i furori mediatici, più o meno interessati. Condannato in primo grado a sei anni e otto mesi, in appello Marotta verrà assolto e uscirà di prigione. Tanto rumore per una vicenda che si è poi conclusa con un’assoluzione. Pivato, retoricamente e abbastanza inutilmente, purtroppo, si chiede cui profuit… Certamente non all’Iss, che da allora non sarà più un polo d’attrazione per i Nobel della medicina.

    Il mercato della penicillina, e non solo, è salvo.

    Non ci siamo addentrati nei dettagli dei procedimenti penali citati. Non ne avevamo lo spazio e nemmeno l’intenzione. Ma sia pure di passata, non possiamo non rilevare che la magistratura italiana non è mai stata molto rigorosa ed efficace con gli scandali del mondo politico, governativo e paragovernativo. Anche quando è sembrata farlo, ha destato non pochi e inquietanti interrogativi, vista la concomitanza con epocali trasformazioni geopolitiche.

    Ma i risultati sono davanti agli occhi di tutti.

    Del paragone tra la condanna di primo grado di Ippolito e dei responsabili della strage di Corinaldo abbiamo già parlato.

    C’è poco altro da aggiungere anche dopo lo scandalo del presidente dell’Associazione nazionale magistrati che, in colloquio telefonico intercettato in relazione a un fosco mercimonio di cariche giudiziarie, è stato scoperto discutere con altri colleghi che esprimevano forti dubbi sull’inchiesta riguardante un personaggio eccellente, un politico nemico nonché capo dell’opposizione, sostenendo la tesi, non poco bizzarra per un magistrato di un paese democratico, che a prescindere dalla liceità delle sue azioni era comunque necessario colpirlo a livello giudiziario.

    Un altro scandalo, sulla stessa linea, aveva coinvolto il precedente del leader storico della solita opposizione non gradita dalla magistratura politicizzata e politicamente coperta, colpito dall’applicazione retroattiva di una legge ad personam e precedentemente sottratto, per un’altra fosca questione di fax ignorati dai magistrati giudicanti, al suo giudice naturale considerato non affidabile in vista della necessaria e prevista condanna.

    Forse ciò che più conta in tutto questo scempio del diritto nella patria di quello ius romanun che ha fatto scuola nel mondo è il silenzio di pietra dei rappresentanti della più alta istanza giuridica istituzionale nazionale che, in entrambi i casi e con due diversi rappresentanti colpiti dalla stessa malagiustizia, ha completamente ignorato gli scandali. Attizzando i dubbi di quanti sospettano, non senza qualche ragione, che la via giudiziaria sia diventata l’arma principale dei poteri forti per determinare l’indirizzo politico italiano, indirizzandolo sui binari dei desiderata voluti dove si puote ciò che si vuole in campo economico e sociale. Almeno quando i risultati elettorali disattendono le strategie auspicate.

    Il modello di questa specifica rivoluzione colorata italiana, destinato a un epocale regime change, calibrato sui primi limitati esperimenti degli anni ’60, fu la stagione che prese il nome di Mani pulite e di cui abbiamo testimonianze al di sopra di ogni sospetto, agevolmente metabolizzate nella congiura del silenzio mediatica e politica che le custodisce. Nella congruenza di un pianificato annichilimento delle capacità e delle risorse politiche, economiche, industriali e sociali del paese.

    Alla fine di agosto del 2012 Maurizio Molinari, sulle colonne de «La Stampa», raccolse le testimonianze dei due massimi vertici della diplomazia statunitense presente in quegli anni sul territorio italiano, il console generale degli Stati Uniti a Milano, Peter Semler, e l’ambasciatore a Roma, Reginald Bartholomew. Si tratta di rivelazioni a dir poco sconvolgenti, su cui né la magistratura ordinaria, né i suoi vertici istituzionali, hanno mai preso posizione. Come se non si trattasse di un’esplicita notitia criminis sulla quale indagare prontamente e a fondo per accertare la verità e punire severamente eventuali responsabili. Confermando che sulla vera storia di Mani pulite il ya quelque chose qui cloche. C’è qualcosa che non quadra… Per usare un eufemismo.

    Di che cosa stiamo parlando?

    Molinari riferisce sul suo giornale che alcuni mesi prima di Tangentopoli Antonio Di Pietro anticipò al console generale americano, che si trovava a Milano, Peter Semler che l’inchiesta avrebbe portato a degli arresti e che le indagini erano destinate a coinvolgere Bettino Craxi e la Dc. Per evitare dubbi o ambiguità citiamo direttamente dal quotidiano torinese. «Conobbe Antonio Di Pietro, allora pubblico ministero?, chiede Molinari. Parlai con Di Pietro, replica Semler, lo incontrai nel suo ufficio, mi disse su cosa stava lavorando prima che l’inchiesta sulla corruzione divenisse cosa pubblica. Mi disse che vi sarebbero stati degli arresti. Quando avvenne il colloquio? "Incontrai Di Pietro prima dell’inizio delle indagini, fu lui che mi cercò attraverso Bagioli [Giuseppe Bagioli, dipendente italiano al Consolato, consigliere politico personale di Semler, n.d.r.]. Ci vedemmo alla fine del 1991, credo in novembre, mi preannunciò l’arresto di Mario Chiesa e mi disse che le indagini avrebbero raggiunto Bettino Craxi e la Dc".»¹⁴

    Stiamo parlando – sottolinea Molinari – di circa quattro mesi prima dell’effettivo arresto di Mario Chiesa, che avrebbe scoperchiato il pentolone di Mani pulite, avvenuto il 17 febbraio del 1992. In sostanza, ricorda il console generale degli Stati Uniti a Milano, un magistrato della Procura della Repubblica milanese guidata da Francesco Saverio Borrelli anticipa a un diplomatico straniero, violando gli obblighi del segreto istruttorio, gli esiti delle indagini alle quali si sta dedicando da tempo, informandolo che avrebbero coinvolto i massimi vertici politici nazionali, creando una destabilizzazione ad altissimo valore sismico in campo istituzionale. Bastava molto meno all’allora pubblico ministero Di Pietro per mandare in carcere un indagato, e lasciarlo lì sino a piena e incondizionata confessione.

    Ma non c’era solo Di Pietro. «Di Pietro – continua Semler nella sua rievocazione – aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato. Da Di Pietro, da altri giudici e dal cardinale di Milano seppi che qualcosa covava sotto la cenere. Eravamo informati molto bene. Di Pietro mi preannunciò gli arresti ma per me non era chiaro cosa sarebbe avvenuto.»

    Che rapporti aveva con il pool di Mani pulite?, incalza Molinari. «Incontrai più giudici di Milano, c’era un rapporto di amicizia con loro ma non cercavo di conoscere segreti legali. Erano miei amici, ci vedevamo in luoghi diversi.» Che anticipazioni e indiscrezioni su arresti e su inchieste riguardanti personaggi politici di primissimo piano non fossero dei segreti, per di più severamente tutelati a ogni livello di status dall’ordinamento giuridico, è l’opinione per lo meno curiosa di un diplomatico evidentemente abituato a tali interferenze in paesi a sovranità limitata come quelli dell’America Latina. Valutazione che evidentemente coinvolgeva anche l’Italia. Giudizio, peraltro, che appare condiviso anche dai colleghi di Di Pietro.

    Quest’ultimo, comunque, sembrava avere un’attitudine piuttosto condiscendente, per non usare termini più crudi…, nei confronti del console statunitense. «Di Pietro con me era sempre aperto – ricorda Semler – ogni volta che chiedevo di vederlo lui accettava, veniva anche al Consolato.»

    Con Di Pietro c’era dunque un’intesa più forte, osserva Molinari. «Di Pietro mi piacque molto, sottolinea il console americano, poi fece il viaggio negli Stati Uniti organizzato dal Dipartimento di Stato. Ero spesso in contatto con lui. Ci vedevamo.» Come nacque la visita negli Stati Uniti? «Sono stato io a suggerire all’ambasciata a Roma di invitarlo, poi fu il Dipartimento di Stato a organizzargli il viaggio. Avvenne dopo l’inizio delle indagini.» Una coincidenza?

    Per ulteriori e lancinanti riscontri, il racconto di Semler si può incrociare con l’intervista dello stesso Molinari all’ex ambasciatore Reginald Bartholomew, in quel periodo diretto superiore del console insediato a Milano a cui Bartholomew attribuiva un ruolo chiave nel sostegno statunitense all’inchiesta della Procura di Milano guidata dal pool di Mani pulite. Il nucleo principale dell’operazione, presieduto da Francesco Saverio Borrelli, era formato, oltre che da Di Pietro, da Gerardo D’Ambrosio, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo a cui vanno aggiunti Ilda Boccassini, Armando Spataro, Francesco Greco e Tiziana Parenti.

    L’ambasciatore venne catapultato a Roma da Bill Clinton all’inizio del 1993, nella prima fase della sua presidenza. L’Italia appariva in decomposizione, sconvolta dal terremoto politico-giudiziario di Tangentopoli con cui Bartholomew dovette subito confrontarsi al suo arrivo.

    Il governo di Giuliano Amato viaggiava in diretta sintonia con la presidenza di Oscar Luigi Scalfaro, sbarcato al Quirinale sulla scia della strage di Capaci, con il Pds di Achille Occhetto che stava mettendo a punto la gioiosa macchina da guerra per una scontata e trionfale vittoria nelle prossime elezioni, mentre il guastafeste di Arcore, Silvio Berlusconi, era impegnato a progettare la sua discesa in campo per sottrarre la tavola imbandita dalla presa ormai sicura degli eredi del partito comunista, scommettendo di poter raccogliere il consenso dell’area moderata, rimasta orfana della Dc e del Psi. «Ma soprattutto quella era la stagione di Mani pulite – dice Bartholomew –, un pool di magistrati di Milano che nell’intento di combattere la corruzione politica dilagante era andato ben oltre, violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l’Italia, a cui ogni americano si sente legato.»¹⁵

    Pochi mesi dopo, nel luglio del 1994, il presidente Clinton arrivò in Italia per partecipare al summit del G7 che il governo del nuovo presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ospitava a Napoli. In coincidenza con i lavori, i magistrati di Mani pulite recapitano al premier un avviso di garanzia. La reazione di Bartholomew è durissima. «Si trattò di un’offesa al presidente degli Stati Uniti, perché era al vertice, e il pool di Mani pulite aveva deciso di sfruttarlo per aumentare l’impatto della sua iniziativa giudiziaria contro Berlusconi», sottolinea

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