A nessuno piace Jonna
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Finché una notte Jonna non si intrufola nella stanza della sorella con un paio di forbici, e da quel momento cambia tutto…
Esitai per qualche secondo, poi sollevai la treccia di Miriam.
Feci in tempo a pensare che sono sì stupida, ma non così stupida da tagliare i capelli a mia sorella mentre dorme.
Non sono così stupida.
Oppure sì?
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Anteprima del libro
A nessuno piace Jonna - Cilla Jackert
Primo capitolo
Era arrivato l’autunno. Si vedeva da molti dettagli. Le foglie avevano cambiato colore, le sere erano buie, la mamma diceva «Stop, dove stai andando?» quando provavo ad andare a scuola senza giubbotto, e poi le mie caccole avevano cambiato colore. Dal giallo chiaro color dell’estate al verde scuro color dell’autunno.
A quest’ultima cosa feci caso mentre me ne stavo sdraiata sul letto come al solito a guardare il soffitto e a scavare nel naso.
In realtà non avrei dovuto starmene sdraiata lì, ma fare i compiti di spagnolo, quelli di scienze sociali o magari matematica. Avevo tanti compiti tra cui scegliere, ma scelsi di fregarmene e dedicare invece il mio tempo alla ricerca delle caccole. Era la scelta giusta, perché dopo un po’ di scavo tirai fuori una caccola verde e viscida con una coda lunghissima. A essere sinceri sembrava una ranocchia. Una ranocchiola.
Ma io non sono quasi mai sincera, quindi attaccai la ranocchiola sotto il letto insieme a un mucchio di altre caccole e ranocchiole rinsecchite, oltre a un bel po’ di altre cose segrete.
Sotto il mio letto c’erano tantissime schifezze, per l’esattezza quattro sacchetti di Chokladpuffar, due doppi Daim, un sacchetto di Ferrari alla Coca-Cola, diversi tipi di liquirizia senza zucchero (bleah), mezzo sacchetto di patatine rustiche, due sacchetti di Polly al gusto di caramelle Bilar. C’erano anche quattordici paia di mutande decisamente troppo sporche, la sciarpa preferita di Miriam che le aveva regalato il suo ex, gli orecchini di Miriam con le pietre azzurre, l’annuario scolastico di Miriam, l’elefante di peluche di Miriam chiamato Nasone (che in realtà vuole ancora quando dorme) e il diario di Miriam. Non avevo ancora letto neanche una pagina del diario. Non mi piace leggere.
Le lettere sono strane.
Preferisco pensare, invece che leggere.
Sono brava a pensare.
Ma non alle cose a cui dovrei pensare. Tipo i verbi spagnoli e le equazioni e pulire la mia camera. A quelle cose preferisco non pensare mai. Perché voglio pensare a modo mio.
Pensare e mangiare caramelle.
Sono brava anche in quello.
Mangiare caramelle.
Quindi, dopo aver spalmato la mia ranocchiola sotto il letto, lasciai che la mano cercasse qualcosa da mangiare.
Alcune palline Polly erano fuggite dal sacchetto e se ne stavano sparse sul pavimento. C’era sopra un bel po’ di polvere e anche qualcos’altro, ma a masticarle non si sentiva poi molta differenza: avevano lo stesso sapore di sempre, anche se scrocchiavano un po’ più del normale. Proprio come al solito, sentivo la mamma e il papà parlare al piano di sotto. Bla, bla, bla. Avevano sempre qualcosa di cui discutere.
Un libro, un film, un programma radiofonico. Qualcosa di importante. Società. Politica. Ambiente. Ingiustizie. Qualcuno che muore di fame oppure è stato licenziato. Qualcuno che guadagna troppi soldi o qualcuno che ne guadagna troppo pochi. La mamma e il papà parlano sempre di quel tipo di cose.
Ingiustizie.
Sociali.
Non parlano mai delle ingiustizie che avvengono in casa loro.
Quelle ingiustizie lì non le notano neanche.
Mi infilai altre quattro Polly in bocca e tesi l’orecchio per ascoltare i rumori provenienti dalla cucina. Il papà sbatacchiava pentole e padelle. Stava cucinando.
Avevamo ospiti a cena.
Be’, insomma, avevamo
.
Io non ho mai ospiti. Cosa dovrei farci?
Erano i miei genitori ad avere ospiti. Mi stancavo solo al pensiero di dover stare seduta laggiù a mangiare verdure lesse e ascoltarli blaterare di riciclo. Allora era cento volte meglio rimanere a letto a mangiare le Polly e scaccolarsi. Ormai però il naso era vuoto. Nemmeno una caccola aveva trovato la strada per uscire dal mio corpo. Che tirchieria.
Giù in soggiorno, Miriam aveva attaccato a suonare e cantare. Riuscivo a vedermela davanti agli occhi, anche se lei era al piano di sotto e io al piano di sopra. Vedevo che aveva come versato le lunghe braccia e gambe e i lunghissimi capelli sulla morbida poltrona verde. Lei riusciva a farlo. Riusciva a versare sé stessa come cioccolato fuso che scorre sopra un wafer in qualche pubblicità alla tivù.
Non riuscivo a sentire bene quale canzone stesse cantando, ma parlava sicuramente di pace e amore e rispetto e uguaglianza e alberi e qualche uccello che nessuno aveva mai visto ma che era super speciale e a rischio estinzione e che cantava bene quanto lei.
«Quando Miriam canta, la sua voce scorre nelle orecchie come miele caldo in una gola infiammata» diceva il papà, crescendo di almeno cinque metri da quanto era fiero di lei.
Adora il fatto che Miriam suoni la chitarra. Proprio come lui. Anche se lui è molto meno bravo.
«Non mi arrendo mai. Ribellati, ribellati.
Per quella che sono. Per quel che è giusto» stava cantando Miriam giù in soggiorno. Il papà cantava insieme a lei. Di sicuro ballava anche.
Agitando il sedere ossuto ricoperto di jeans mentre mescolava uno stufato vegetariano pieno di fagioli che sapevano di scoreggia già in bocca. Presi altre quattro Polly. Si sciolsero in bocca, trasformandosi in Bilar nello stesso momento in cui il campanello suonava e la mamma gridava: «Miriam, tesoro, apri tu?»
E dato che Miriam è Miriam, andò subito ad aprire. Poco dopo l’ingresso si riempì di voci e risate e rumori e scarpe tolte e un pacchetto che veniva consegnato.
Gruccia.
Freddo.
Cappello.
Presto.
Cioccolato.
Italia.
Grazie.
Profumino.
Delizioso.
Cominciai a sentire un ronzio in testa per tutte quelle parole che si mescolavano e chiusi gli occhi e tesi il corpo più forte che potevo, perché così facendo forse si sarebbero dimenticati di me, sdraiata quassù, e non sarei stata costretta a scendere da loro. Non era impossibile. Era già successo.
«Jonna, sei sveglia?» disse Miriam, materializzatasi all’improvviso nel piccolo corridoio davanti a camera mia.
Quindi stavolta non si erano dimenticati di me. Che peccato.
Spalancai gli occhi. Sul soffitto c’era un ragno.
«La mamma dice che devi venire giù».
Chiusi gli occhi e immaginai di essere sdraiata su uno scoglio in riva al mare. Immaginai il vento che mi accarezzava.
La pelle che si accapponava e tirava, bruciata dal sole. Le voci dei gabbiani che sbattevano le ali e stridevano e cacavano.
Il sole che scaldava la schiena e la nuca.
Miriam aprì la porta quasi senza fare rumore, ma percepii subito la sua presenza. C’era profumo di Miriam. Profumo di pulito e di caldo, di noci e di dolce. Forse frutta.
Di sicuro mango. Un profumo perfetto per chi ha una voce che scorre come miele caldo.
«Sul serio, Jonna, sembrano a posto».
Mi voltai in modo da riuscire a guardarla, lì sulla soglia.
Aveva un aspetto normalissimo, con i jeans larghi e la maglietta e i calzettoni di avanzi di lana che di sicuro aveva fatto a maglia da sola.
Aveva i lunghi capelli color cioccolato legati in una piccola girandola alla cannella su un lato della testa. Alle orecchie aveva degli orecchini enormi.
In realtà era una cosa normalissima.
Una sorella sulla porta con indosso dei jeans.
Miriam, però, era tutto fuorché normale. Era la persona più straordinaria del mondo, che aveva tutti i tratti positivi e nessuno negativo.
Quelli negativi i nostri genitori li avevano tenuti da parte per me.
Grazie tante.
Miriam entrò di soppiatto in camera mia.
Si muoveva sempre con passo leggerissimo e felpato.
«Saluta. Mangia qualcosa, e poi te ne puoi andare. Che ne so, dài la colpa ai compiti» disse, prendendo la mia mano fredda e appiccicosa.
Mi tirò giù dal letto. La seguii giù per la stretta scala della soffitta, attraverso l’ingresso angusto con tutti i giubbotti autunnali bagnati di pioggia appesi in fila, fino in cucina dove i nostri genitori erano in compagnia di un uomo e di una donna. Avevano tutti un bicchiere in mano e si parlavano già sopra.
Sgorgava un fiume di parole senza senso.
Sentivo un sonnacchioso ronzio nella testa e avrei solo voluto correre su per le scale, ma non potevo. Miriam mi acchiappò e mi spinse verso gli adulti.
All’inizio non si accorsero di me e io rimasi lì impalata accanto a loro con le braccia flosce lungo i fianchi ad aspettare che finissero di parlare come parlano gli adulti.
Con parole.
Tantissime parole.
Che non finiscono mai.
Matrimonio.
Rosso?
Cancro.
Bianco?
Triste.
Melanzane.
Piacevole.
Sconto.
Bello.
Tonta entrò in cucina. Si strusciò contro le gambe del tavolo e degli umani. La donna la guardò sorpresa, proprio come la guardano tutti quelli che la vedono per la prima volta.
«Il gatto ha solo tre zampe?»
«Sì» rispose la mamma. Poi mi vide.
Mi posò una mano sulla schiena e mi spinse avanti.
«Ti ricordi di Katinka?»
Non conoscevo nessuna Katinka, ma era uguale a tutti gli altri ospiti dei miei genitori: bionda, sana e in qualche modo pulita. Capelli spazzolati, denti dritti, grandi occhiali e braccia calme che non rovesciavano mai qualcosa per sbaglio.
Come se non avesse mai avuto un problema, o il naso pieno di ranocchiole verdi.
Proprio come voleva essere mia madre.
«Ciao Jonna, che piacere rivederti».
Katinka mi strinse la mano e le lessi in faccia che sentiva l’appiccicume sul mio palmo, che forse veniva dalle Polly.
«Jonna è in sesta» raccontò la mamma.
«Oh, tra poco in settima, eh?» mi disse Katinka, come se io non sapessi che dopo la sesta c’è la settima.
Mi lasciò la mano e io andai a sedermi sullo sgabello alto accanto alla porta che dava sull’ingresso. Se ero fortunata si sarebbero presto dimenticati di me, e allora sarei potuta sgattaiolare in camera mia.
«Felix è in settima» disse Katinka.
«Come se la cava? Giocava tanto a calcio, vero?» chiese la mamma mentre metteva i tovaglioli a tavola.
Ripensai alle caccole che avevo nel naso. Pensai allo spazio e alla morte. Pensai a qualunque cosa pur di non sentire Katinka e suo marito vantarsi del loro fantastico Felix.
«È bravissimo».
«Ha tutte C».
«Indirizzo matematico. Molto difficile».
«Un sacco di amici. Il telefono squilla in continuazione».
Katinka sorrise.
Era orgogliosa del suo Felix.
Ovvio.
I genitori sono orgogliosi dei loro figli.
Quasi sempre.
«È da tanto che non lo vedo, ma me lo ricordo come un ragazzo molto dolce» disse la mamma.
«Lo è ancora» disse Johan, il marito di Katinka, seguendo il papà che portava in tavola una grossa pentola.
Tutti si sedettero e il papà presentò il cibo come se fosse un terzo figlio prima di far girare piatti di verdure calde, delle cose che non erano spaghetti e una salsa di pomodoro piena di pezzi. Sospettavo che i pezzi fossero cipolle. Detesto le cipolle.
Tutti sapevano che detesto le cipolle, ma nel cibo c’erano comunque sempre le cipolle.
«Assaggia». La mamma