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Girls on Tour
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E-book480 pagine7 ore

Girls on Tour

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Info su questo ebook

Dall'autrice di Innamorarsi a Central Park

State aspettando l'occasione per prendervi una meritata vacanza? Morite dalla voglia di una pausa? Potete tirare un sospiro di sollievo perché siete invitate a unirvi alle Girls on Tour, il rimedio definitivo per bandire la tristezza. Queste allegre storie in giro per il mondo rilasciano puro divertimento in perfetti episodi monodose. Poppy vi porterà con sé a Parigi, in un viaggio di lavoro che ha in serbo più di una sorpresa. Lily a Los Angeles, dove il ruolo dei suoi sogni è messo a rischio da un americano da sogno. Se preferite il fresco, potete lanciarvi sulle piste da sci con Maggie, dove una romantica fuga sulla neve finisce a gambe all'aria. Oppure potete fare un giro in Vespa con Rachel a Roma, dove una vacanza tra amiche viene sabotata da una tempesta che arriva dal passato. E infine volate con le ragazze a Manhattan, conquistando la città e scoprendo un ghiotto segreto nella Grande Mela.
Nicola Doherty
Nata e cresciuta in Irlanda, si è trasferita a Londra dove vive tuttora. Ha lavorato per la casa editrice Hodder&Stoughton e dal 2007 è una freelance. Nel 2009 ha cominciato a scrivere il suo primo romanzo, La ragazza fuori ufficio.
LinguaItaliano
Data di uscita4 mar 2016
ISBN9788854192423
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    Anteprima del libro

    Girls on Tour - Nicola Doherty

    1202

    Titolo originale: Girls on Tour

    Copyright © 2015 Nicola Doherty

    Traduzione dall’inglese di Federica Romanò

    Prima edizione ebook: marzo 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9242-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    © Shutterstock

    Nicola Doherty

    Girls on tour

    Poppy va a Parigi

    Ciao. Mi chiamo Poppy.

    Fisso il cursore lampeggiante. Da dove cominciare?

    Sono una ragazza piuttosto normale.

    Ah! Cancello all’istante. Trito e ritrito. E anche falso.

    Sono ottimista ed estroversa.

    Per carità, questo è anche peggio, talmente pretenzioso. È penoso. Va bene. Ricominciamo.

    Ciao, sono Poppy. In una giornata tipo mi si può trovare con il naso affondato in un libro, in bicicletta di ritorno dal mercato biologico di Hackney con il cestino colmo di prelibatezze, o in un negozio di vestiti vintage. Mi piace la musica soul, cucinare dolci, gli Smarties, il mare, il decimo arrondissement di Parigi e il Dirty Burger di MEATliquor…

    Oddio. Sembro una parodia rivoltante della tipica hipster della classe media: bicicletta, mercatino bio, Dirty Burger e compagnia. Questa faccenda mi fa venire i brividi: mi sembra di mettermi in vendita su eBay. Tra l’altro, mi ero dimenticata che avrò bisogno di uno pseudonimo. Patricia? Penelope?

    Tamburello con le dita sulla scrivania per qualche minuto e poi decido di scrivere la verità e vedere che effetto fa.

    Ciao, sono Poppy. Lavoro fino a tardi in un ufficio pieno di donne e non ho un vero e proprio ragazzo da almeno due anni. Ho la tendenza a infervorarmi per cose che sembrano importanti solo a me. Sono dipendente dai dolci e quando ho fame divento un mostro. Mi piacerebbe incontrare un uomo creativo, intelligente e sensibile. Dubito seriamente di riuscire a trovare una perla del genere su internet, ma ho provato tutte le altre…

    «Le bozze sono pronte», dice Sorrell, entrando nel mio ufficio tutta pimpante. «Vuoi dargli un’occhiata prima che passino in produzione?»

    «Perfetto, sei stata velocissima. Sì, grazie: lasciale lì», rispondo, riducendo rapidamente a icona la finestra sullo schermo. Non voglio che la mia assistente mi sorprenda a creare il mio profilo su un sito d’incontri, anche se probabilmente Sorrell potrebbe darmi delle dritte preziose.

    «Ehi, belli questi pantaloni di pelle», aggiungo, quando si volta per andarsene.

    «Grazie», risponde, facendo una piccola piroetta. «Vendita promozionale. Alasdair dice che gli ricordano The Avengers!».

    Dio santo. Mi ci è voluto un anno prima di riuscire a rivolgere la parola all’amministratore delegato, figuriamoci scambiare battute sui miei vestiti di pelle.

    «È vero!», commento ridendo. «Fanno molto Emma Peel».

    «Chi?», chiede Sorrell.

    «Emma Peel. Sai, The Avengers – Agenti Speciali».

    «Ah», risponde Sorrell. «Scusa, non ricordo quelli della prima serie». E se ne va, lasciandomi lì con il desiderio di spiegare: neanch’io me li ricordo! Sono nata negli anni Ottanta, come te! Solo che io ho ventinove anni, e Sorrell probabilmente ventitré, al massimo.

    Mentre osservo allontanarsi il suo posteriore di pelle, sono assalita da un pensiero colpevole, amareggiato: un tempo ero io l’assistente un po’ eccentrica e sicura di sé, con un nome difficile da dimenticare e uno stile originale, che socializzava con tutti i superiori. Ma questo accadeva sei anni fa. Ora inizio a sentirmi parte dell’arredamento, e neanche un dettaglio particolarmente vistoso.

    Va bene: basta con l’autocommiserazione. Salvo il mio profilo sul sito d’incontri e inizio a rendermi presentabile per la riunione di redazione. Indosso uno dei miei abiti preferiti: un vestito con la gonna ampia e il corsetto sagomato, stile anni Cinquanta, che ho ricavato da una stoffa di seta a motivi liberty comprata da mia madre in un negozio di seconda mano. E i miei ricci non sono crespi, grazie a dio. Mi sono quasi messa a piangere quando hanno tolto dal commercio l’unico balsamo senza risciacquo che aveva il potere di non farmi sembrare una delle Supremes negli anni Settanta. Ma per fortuna credo di aver trovato un sostituto. Mi guardo allo specchio per assicurarmi di non avere segni di penna sul viso e sono pronta ad andare.

    Ma quando mi alzo sento l’inconfondibile rumore di una cucitura che si strappa. Mi rendo rapidamente conto che tutto un lato del vestito è andato. Fantastico. Mi piacerebbe poter dare la colpa alla delicata stoffa vintage, ma la triste verità è che negli ultimi sei mesi ho preso tre chili. Troppi pranzi di lavoro, e troppo tempo seduta davanti al computer. Riparo alla bell’e meglio il vestito con delle spille da balia, infilo un cardigan di ricambio che non si abbina benissimo al resto e mi precipito alla riunione.

    Era da tanto che non mi sentivo nervosa a una riunione di redazione, ma oggi è così. Ho proposto un libro che mi sta veramente a cuore, e fra poco scoprirò se qualcun altro è d’accordo con me.

    «Allora, cominciamo», esordisce Ellen, la direttrice editoriale nonché il mio capo. «Ooh, che cosa sono questi?»

    «Pasteis de nata: paste portoghesi alla crema», rispondo, posando la scatola al centro della tavola insieme ad alcuni tovaglioli di carta. «Servitevi».

    «Mmm… grazie Poppy», dice Melanie, la direttrice commerciale, magra come uno stecchino. «Posso prenderne due? Dove le hai comprate?»

    «Al bar San Marco. Sai, quello piccolo in fondo alla strada».

    Le ho portate con un duplice obiettivo. Per cominciare, sono convinta che con un po’ di zuccheri nel sangue saranno tutti più concentrati sul mio libro; e poi cerco di fare pubblicità occulta. Il San Marco è un gioiellino, ma fa fatica a resistere alla concorrenza delle immense caffetterie vicine, e il proprietario mi ha confidato di non sapere per quanto ancora riuscirà a pagare l’affitto.

    «Non è quello squallido baretto vicino alla metro?», chiede Charlie, uno dei ragazzi del marketing. «Una volta mi hanno servito un caffè terribile. Non ci sono più tornato». E beve un sorso dal suo bicchierone di carta.

    Sorrido senza rispondere. Charlie è un bravo ragazzo, ma non è molto sottile. Se qualcosa non esce su «Metro» o non è sponsorizzato da Nike non vuole neanche sentirne parlare.

    «Va bene, cominciamo», ripete Ellen. «Nuove proposte per le mani?».

    M’incammino verso la sedia bollente, la stanza si fa silenziosa. Mi siedo ben dritta e mi assicuro di avere un tono ponderato, entusiasta e, soprattutto, sicuro.

    «La settimana scorsa ho girato ad alcuni di voi un libro d’esordio molto, molto promettente. Si tratta di un romanzo di formazione ambientato tra Londra e Lagos…». Faccio un breve riassunto per chi non lo ha letto, e concludo con: «Allora, che cosa ve ne è sembrato?».

    Cala un silenzio imbarazzante, mentre si scambiano tutti sguardi circospetti. È come se avessi posato una rana morta sul tavolo. Melanie parla per prima. «Mi è sembrato scritto bene, ma… difficile da vendere».

    Ellen annuisce. «Lo stesso per me. Mi è piaciuta molto la voce dell’autore, ma non mi ha convinto al cento percento».

    Annuisco, cercando di ingoiare la mia delusione: se a Ellen e a Melanie non piace, probabilmente è una causa persa.

    «Qualcun altro lo ha letto?», chiede Ellen.

    «Io», risponde Charlie, con mia sorpresa. Non gliel’avevo neanche inviato.

    «E?»

    «Penso che sia scritto molto bene», continua, stupendomi ancora di più. «Lo immagino facilmente ricevere ottime critiche, una buona pubblicità, magari anche vincere qualche premio…».

    Mi sporgo in avanti, stupefatta. Non avrei mai pensato che questo libro potesse piacergli. Possibile che mi sia sbagliata sul suo conto?

    «… e vendere una decina di copie».

    Ridono tutti. Finge di avere l’aria dispiaciuta, ma è ovvio che pensa di essere stato spiritoso. Idiota.

    «Bene, mi sembra di capire che rinunciamo», concludo, nel tono più leggero che posso. «Grazie a tutti per averlo letto».

    «Chi è il prossimo?», chiede Ellen.

    «Io», risponde Camilla, una degli editor della saggistica. «Sono sulla buona strada per un libro di Katie Chipping».

    Katie Chips, com’è soprannominata, è una cantante che sta vivendo i suoi quindici minuti di celebrità.

    «Fantastico! Dicci tutto!», esclama Melanie, e iniziano a discuterne entusiasticamente.

    Capisco quanto sia importante per le vendite questo tipo di libri, davvero, ma è deprimente lo stesso. Guardo Charlie, che ora sta parlando dei seguaci di Katie su Twitter e di una possibile collaborazione con una marca di vestiti, e penso a quanto sia ingiusto respingere uno scrittore di talento per qualcuno come Katie Chipping.

    «Altre proposte?», chiede Ellen. «Poppy, qualcos’altro?»

    «Sì. Sono molto felice di annunciarvi che abbiamo fatto un’offerta per l’ultimo romanzo di Jonathan Wilder».

    Mi rallegro che la reazione sia positiva almeno quanto lo è stata per la stramaledetta Katie Chipping. Continuo: «Il suo agente ha studiato le offerte e ha selezionato alcuni editor che potranno incontrarlo di persona, inclusa me».

    «Dove abita?», chiede un nuovo ufficio stampa di cui mi sfugge il nome.

    «A Parigi», risponde Ellen. «Ed è cresciuto un po’ ovunque: Svizzera, Italia, Stati Uniti. Suo padre ovviamente è Michael Wilder, il celebre scrittore. Poppy, vuoi aggiungere qualcosa?»

    «Sì. Molti di voi conosceranno il suo primo romanzo: era ambientato in una scuola privata a New York e ne è stato tratto un film. I critici l’hanno definito il nuovo Bret Easton Ellis. E ora è di ritorno con il suo secondo libro, che parla di un diplomatico americano a Parigi la cui carriera va in rovina a causa di una relazione extraconiugale».

    «Intrigante», commenta l’ufficio stampa. «Quando lo facciamo uscire?»

    «L’affare non è ancora concluso. Ha ricevuto altre offerte, quindi ora Poppy deve incontrarlo e sedurlo», risponde Ellen.

    «La beauty parade», commenta Melanie. «Sono certa che la vincerai, Poppy».

    Ed è molto carino da parte sua. Ma mentre usciamo dalla sala riunioni, mi sento ancora delusa per il libro di cui volevo comprare i diritti. Charlie, camminandomi accanto, dice: «Incrociamo le dita per Jonathan Wilder. Melanie ha ragione: di sicuro vincerai la beauty parade».

    «Grazie», rispondo secca. Può fare il carino quanto vuole, ma sono ancora arrabbiata con lui per essersi preso gioco del mio libro.

    Come se mi leggesse nel pensiero, continua: «Mi dispiace per l’altro romanzo: l’ho trovato davvero buono… solo difficile da vendere. Non volevo fare lo spiritoso».

    «Oh… non c’è problema. Grazie per averlo letto». Ammorbidita, gli accenno un sorriso per fargli capire che non ce l’ho con lui. Non è cattivo, Charlie. È solo che manca d’immaginazione. Sta per dire qualcosa quando Melanie lo trattiene, e io tiro dritto.

    Non lo ammetterei mai di fronte ai miei colleghi, ma in realtà quando è arrivato, un anno fa, mi piaceva. È un gran bel ragazzo, del genere vichingo, con penetranti occhi azzurri e i capelli biondi. Ma poi ho iniziato a notare dettagli come la sua ossessione per il calcio, il modo in cui si veste – come un membro di una boy band – e la sua abitudine di lanciarsi le noccioline in bocca, come se si allenasse per diventare una foca. Durante l’ultima festa di Natale abbiamo un po’ flirtato, e per un attimo sono stata tentata, ma sono felicissima di non esserci cascata. Più tardi ho scoperto che è andato a letto con almeno tre ragazze dell’ufficio, il che è piuttosto… ributtante. E poi è praticamente l’unico uomo eterosessuale e single di tutta l’azienda: è come sparare sulla Croce Rossa.

    Di ritorno al mio ufficio, scrivo un’email all’agente del nuovo romanzo che sono costretta a rifiutare. Mi sarebbe piaciuto mangiare un’altra pasta per tirarmi su, ma mi sono imposta di rinunciarci, perché presto incontrerò Jonathan Wilder a Parigi, e voglio poter entrare di nuovo nei miei jeans taglia quarantaquattro.

    Come ricompensa per non aver mangiato altri dolci, mi permetto una rapida occhiata al servizio fotografico che Jonathan aveva concesso a «GQ» per pubblicizzare il suo primo romanzo. Capelli scuri, sguardo profondo, zigomi alti, un po’ magro. Clicco su una foto più recente: ha fatto una cura proteica dal primo servizio e sta ancora meglio. Mi dia una fettina di quello, come direbbe il mio amico Antony.

    «Poppy?». È Ellen. «Hai un attimo?»

    «Certo», rispondo, chiudendo rapidamente la finestra. «Dimmi».

    «Riguarda il tuo viaggio a Parigi», continua. «Stavo pensando che potrebbe essere una buona idea se Charlie venisse con te».

    «Ah. Davvero?». So che Charlie è coinvolto nelle strategie commerciali, ma non credevo fosse così indispensabile per concludere l’affare. E poi una parte irrazionale di me pensa: questo è il mio progetto, perché deve venire anche lui?

    Ellen continua: «Penso solo che ti sarebbe di aiuto per presentare in dettaglio i nostri piani commerciali».

    «Certo! È un’ottima idea», confermo, dicendomi di non essere sciocca. La prospettiva di Charlie sarà utile, e dimostrerò a Jonathan di avere il sostegno di tutta la squadra.

    È solo strano pensare di trascorrere due giorni interi con lui a Parigi. Di cosa diavolo parleremo, a parte del lavoro?

    «Accidenti. Un viaggio a Parigi per incontrare Jonathan Wilder… è fantastico!», esclama Alice. «È come andare in trasferta a Los Angeles per un appuntamento con James Franco».

    «Oppure in Italia per vedere Luther Carson?», dico, sorridendo. Non resisto alla tentazione di rievocare quel movimentato viaggio di lavoro che Alice aveva fatto quando eravamo ancora colleghe, prima che lasciasse la nostra casa editrice per un’agenzia letteraria. «Jonathan non è ancora famoso come James Franco. E tanto meglio, altrimenti non potremmo permettercelo».

    Alice e io siamo sedute all’aperto al Bar Celona, a Soho, punto di partenza di tante nottate di follia in passato, quando entrambe eravamo ancora assistenti squattrinate. Stasera, invece, berremo il classico drink dopo il lavoro, prima che Alice torni a casa dal suo uomo e io da Don Draper in

    DVD

    .

    Non vorrei piangermi addosso, ma non riesco a evitare di aggiungere: «È una beffa che vada proprio a Parigi. Sarò circondata da coppie in fuga romantica mentre io… Lasciamo perdere, diciamo solo che è da tanto che…».

    «Lo so», dice Alice. Poco dopo chiede, curiosa: «Quanto, esattamente? Voglio dire, so che è da tanto, ma…».

    Faccio ruotare il vino nel bicchiere. «Quasi un anno», ammetto.

    «Oh», commenta, stupita. «Be’, non è poi così tanto…», aggiunge senza convinzione.

    È buffo. Una volta faceva scandalo una ragazza sola che andava a letto con tutti, mentre adesso è il fatto di non andare a letto con nessuno a scandalizzare.

    «Perché non ce ne andiamo in qualche bar tutte e due, e vediamo che succede?», suggerisce. Ed è un pensiero carino, perché andare a rimorchiare in giro per bar non è proprio il genere di Alice. E neanche il mio, se è per questo.

    «Non ce n’è bisogno, davvero. Dimmi pure che sono all’antica, ma non mi piacciono le avventure di una notte. Preferisco conoscere la persona, prima. Ma in genere, dopo essere uscita qualche volta con un ragazzo, o lui si disinteressa a me o io a lui».

    Alice mi rivolge uno sguardo comprensivo.

    «Be’, di sicuro su internet troverai qualcuno», m’incoraggia.

    Le ho già raccontato della mia incursione nel territorio degli incontri online e le sembra un’ottima idea.

    «Speriamo». Sollevo le dita incrociate. «Preferirei conoscere qualcuno nella vita reale, ma pare che semplicemente non incontri più nessuno».

    «E che mi dici di quell’associazione di footing? Non c’erano uomini?»

    «Sì, ma erano troppo veloci. Io stavo nel gruppo più lento, circondata da donne».

    «Penso che le associazioni di triathlon siano meglio per questo», insiste Alice. «Le capacità sono mescolate, è più facile socializzare. Maggie, l’amica di mia cugina Lily, ha conosciuto il suo ragazzo in un’associazione di triathlon».

    Guardo Alice costernata. «Non voglio fare la difficile, ma… è a questo che siamo arrivati? Bisogna diventare atleti di triathlon per conoscere qualcuno?».

    Scoppia a ridere. «No, certo che no. E com’è andata con quel tipo… sai, l’attore che avevi conosciuto a un concerto?»

    «Ah, lui. Ci siamo scambiati qualche email. Ho fatto una battuta e lui mi ha detto che mi trovava irrispettosa nei confronti della sua categoria e ha smesso di scrivermi. Ed è finita lì. Non conosco un singolo uomo single».

    «È impossibile», protesta Alice. È commovente e irritante allo stesso tempo, il fatto che tutte le ragazze in coppia siano convinte che debbano pur esserci uomini appetibili in giro da qualche parte, in posti in cui magari non abbiamo guardato. Tipo in fondo al cassetto dei calzini, o nella credenza, dietro alle scatole di fagioli. «Il tuo collega Charlie, per esempio? So che non ti piace, ma è single…».

    «Sì, è single, e probabilmente lo sarà per sempre, se ci riesce. Decisamente non è tipo da relazione seria».

    «Ma dicevi che non era male. E fa sempre il carino con te», mi fa notare.

    «Lo fa con tutte», rispondo automaticamente. Ma in realtà ha ragione, è così.

    «Non dico che sia la persona giusta», continua. «Ma questo ti dimostra che in giro ci sono uomini che potrebbero esserti sfuggiti».

    Un’idea sta prendendo corpo nella mia mente. Charlie. Devo ammetterlo, lo trovo davvero attraente, in modo quasi colpevole, come se fosse un Taylor Lautner o uno dei ragazzi di Made in Chelsea. E sono quasi sicura che anche lui mi trovi attraente, a giudicare dalla festa di Natale e da altri suoi commenti. Ma non m’interessa come possibile compagno, e di sicuro lo stesso vale per lui. Il che vuol dire…

    «Alice, questa è un’idea eccellente».

    «Quale?»

    «A Parigi proverò a sedurre Charlie. Resteremo lì due notti, quindi chissà. Potrebbe trasformarsi in un fine settimana di sesso selvaggio!».

    «Che cosa? Poppy, è una follia! Non ti piace neanche!».

    «Ma è proprio questo il punto. Nessuno di noi due vuole una relazione seria con l’altro, ma c’è attrazione. Quindi possiamo tranquillamente avere un’avventura, e nessuno rimarrà ferito».

    «Sei sicura? Voglio dire, lavorate insieme, potrebbe essere imbarazzante…».

    «No, non lo sarà. Non capisci? Se sognassi una romantica storia d’amore sarebbe una cosa, ma non è così, non più di quanto lo sia per lui. E poi ho intenzione di fare la prima mossa, quindi sarò io ad avere il controllo. In questo preciso momento sta mettendo in valigia i suoi boxer del Chelsea e non ha idea di quali siano i miei piani».

    «E che succede se finisce per piacerti davvero, nonostante tutto?», chiede Alice. «O viceversa?».

    Penso al fatto che Charlie usa più prodotti per capelli di me, che ha un portachiavi della Porsche, tre anni meno di me e la fobia dell’impegno. «No, sono sicura che andrà tutto liscio».

    Ovviamente, mentre sto in fila per l’Eurostar, mercoledì sera, ho dei ripensamenti. Quella che sembrava un’idea geniale dopo qualche bicchiere di vino, alla fredda luce del giorno è tutta un’altra cosa.

    «Ciao! Ti sono passato proprio davanti. Sei in incognito?», mi chiede Charlie, mentre mi raggiunge nella fila per il check-in.

    Non so di cosa stia parlando. Indosso un paio di pantaloni neri che mi arrivano sopra la caviglia, una maglietta a collo alto nera e un soprabito vintage, più un paio di enormi occhiali da sole. Ho aggiunto una lunga collana di punte d’argento, tanto per non dare l’impressione di essere in maschera. «Be’, no… Pensavo più a Audrey Hepburn in Cenerentola a Parigi».

    Charlie brandisce un gigantesco cappuccino cosparso di cacao, e un muffin ancora più grande, che trangugia quasi completamente per poi pulirsi le dita sul suo impermeabile a doppio petto.

    «Ricordami», dice, «qual è Audrey Hepburn?».

    Sollevo un sopracciglio. «Quella di Colazione da Tiffany».

    «Ah, okay. Quella è la tua valigia?»

    «Sì, perché?»

    «Potresti averla imbarcata sul Titanic».

    Alzo gli occhi al cielo. È un’autentica borsa da viaggio vintage, più pesante di quelle moderne, ma bella, al contrario della sacca sportiva Red Bull di Charlie.

    Ma in fondo, penso mentre passiamo i controlli di sicurezza, non è un bene? Più siamo diversi, più sarà facile fare sesso senza rimorsi. L’osservo sfilarsi il borsone dalla spalla per depositarlo nel contenitore di plastica. Il suo maglione si solleva, rivelando un ventre decisamente sexy, non troppo piatto. Mi sorprendo a fissare la striscia di peli che emerge dagli slip bianchi aderenti. Ah. Slip, non boxer. Si capisce. Quando si supera una certa misura, i boxer semplicemente non forniscono il supporto adeguato, giusto?

    «Signorina, venga avanti, prego», mi sprona un’agente della sicurezza, strappandomi alle mie divagazioni.

    Quando arriviamo ai nostri posti, provo un vago imbarazzo. Non ho mai parlato con Charlie per più di tre minuti consecutivi, e ora siamo inchiodati l’uno accanto all’altra in un treno per più di due ore. Mentre mi siedo vicino a lui, noto l’odore del suo dopobarba, forte ma non sgradevole. Scommetto che si tratta di Dior Homme o qualcosa di altrettanto appariscente. Poi mi accorgo di aver ricevuto un messaggio di mia madre. Mi alzo e vado ad ascoltarlo in mezzo al corridoio perché so che, di qualunque cosa si tratti, non voglio che Charlie lo senta.

    Ciao tesoro, sono io. Ascolta. Stavo parlando con le mie amiche alla bigiotteria dei tuoi problemi a conoscere qualcuno, e una di loro mi ha consigliato uno sport che si chiama tag rugby. Lo conosci? Ho fatto una piccola ricerca e ho visto che c’è un’associazione a Finsbury Park, che per te sarebbe perfetto. Ti mando i dettagli via email. Ah, e poi volevo dirti che verrò a Londra il quindici per una manifestazione contro gli

    OGM

    : segnatelo sull’agenda, così possiamo andare a pranzo insieme, dopo. E divertiti a Parigi! Okay tesoro, ciao, ti voglio bene.

    Adoro mia madre, ma a volte mi dà sui nervi. Non ho voglia di giocare a tag rugby. E mi sembra di aver trascorso tutta l’infanzia alle manifestazioni. In casa avevamo talmente tante foto di Nelson Mandela che credevo fosse un parente.

    «Poppy?»

    «Sì?»

    «Pensavo che potremmo ricapitolare i dettagli dei piani commerciali e pubblicitari», propone Charlie, mentre getta il bicchiere di carta nella spazzatura. «Magari potremmo dividerci gli argomenti, decidere chi dirà cosa».

    «Va bene. Ma non deve sembrare una cosa troppo preparata. Conosce già i dati: ora bisogna vedere se gli piacciamo o no».

    «Chimica?», suggerisce Charlie.

    «Qualcosa del genere». Sollevo lo sguardo e mi trovo i suoi occhi azzurri piantati addosso. Sta flirtando? «Insomma, almeno in parte. Immagino che vorrà sentire che il suo libro ci è piaciuto molto. Lo hai letto, vero?»

    «Certo. Ne abbiamo parlato l’altro giorno, ricordi?»

    «E che ne pensi?»

    «Penso che venderebbe», risponde. «È un buon libro».

    «E questo è quanto? Dio santo, cerca di non travolgerlo con il tuo entusiasmo, mi raccomando».

    Charlie mi dà un colpetto rassicurante sulla spalla. «Non preoccuparti, farò attenzione».

    Osservo la sua mano ritirarsi e penso: Non me lo sono immaginato: gli piaccio. D’accordo, probabilmente non più di quanto gli piacciono tutte le altre.

    Dal lato opposto del corridoio, una coppia di francesi ha già cominciato con le effusioni. Lei ha allungato le gambe snelle, infilate in un paio di jeans, sulle ginocchia di lui, mentre lui le accarezza mollemente gli ondulati capelli castani. Li fisso cercando di ricordarmi quando è stata l’ultima volta che mi sono seduta sulle ginocchia di qualcuno, a parte quella sera in macchina di ritorno da un weekend a Brighton, su quelle del mio amico gay Antony. Poi mi accorgo che Charlie mi sta guardando divertito: mi ha beccato a fissarli.

    «Cosa? Che c’è?», farfuglio, e affondo la testa nel mio e-reader. È una leggenda che le persone di colore non arrossiscono: io sono meticcia e mi succede in continuazione. Mi chiedo come farò a sedurlo, se m’imbarazzo così facilmente.

    È sempre una fonte di stupore per me, il fatto che in meno del tempo che occorre per andare da Londra a Manchester si arrivi in una città straniera. La Gare du Nord non è molto diversa dalla rinnovata stazione di St Pancras, a parte il fatto che è più piccola. Ma l’atmosfera è diversa. Persino gli annunci dei binari sembrano sofisticati e misteriosi. E fa molto più caldo che a Londra. Qui è veramente luglio, mentre da noi sembra marzo.

    «E ora? Prendiamo un taxi?», chiede Charlie, lanciando uno sguardo all’insolente posteriore della ragazza francese, mentre lei si allontana ancora avvinghiata al suo compagno. Sembrano un esemplare di una strana razza di creature a tre gambe.

    «Dove hai detto che si trova l’hotel?».

    Perdo ogni interesse nei suoi confronti per l’ennesima volta, nel rendermi conto che dovrò stargli appresso per tutto il tempo che passeremo qui. Ma perché gli uomini sono così inutili?

    «No, prendiamo la metro. È molto più veloce ed economica», dico, facendo un cenno verso l’entrata della stazione.

    «Guidami, Capitan Poppy!», esclama, seguendomi. «Non sono mai stato a Parigi prima d’ora».

    «Stai scherzando? Neanche in gita scolastica?».

    Scuote la testa. Immagino che i fine settimana tra scapoli a Ibiza siano più il suo genere. Scendiamo le scale che conducono alla metro, dove trovo un distributore automatico di biglietti. Inizio a inserire nella macchina alcuni euro che mi erano rimasti dall’ultima fiera del libro di Francoforte, e ottengo due carnets di dieci adorabili biglietti di carta vecchio stile.

    «Grazie, mamma», dice Charlie, quando glieli porgo. «Sei stata previdente. Io non ho neanche un euro».

    Mi riprendo dal grazie, mamma appena in tempo per dire, cercando di mantenere un tono gioviale: «C’è un bancomat all’uscita della metro, dov’eravamo prima. Ti aspetto qui».

    Forse, tutto sommato, questa storia della seduzione non è poi un’idea così brillante, mi dico mentre osservo la folla entrare e uscire dalla stazione. Persone che si affrettano a tornare a casa dopo una lunga giornata di lavoro, gruppi di turisti: è come Londra, ma con i sottotitoli. A parte per quel tipo che sta veramente camminando con una baguette sotto il braccio.

    Charlie mi raggiunge e c’inoltriamo nella metropolitana, che ha quel suo tipico e non sgradevole odore, quasi floreale, con sentori di base di metallo caldo. Mi riporta direttamente al mio ultimo viaggio a Parigi insieme al mio ex, Crippo. Era rimasto tre ore a contemplare un’installazione al Centre Pompidou, e poi mi aveva trascinato a una festa a casa di un suo amico, dove avevano trascorso l’intera serata a fumare erba e a guardare un film muto sperimentale ambientato in una miniera di carbone. I bei vecchi tempi.

    «Sei sicura che stiamo andando nella direzione giusta?», chiede Charlie, studiando la mappa della linea sulla parete del vagone. Annuisco. Dopo aver vissuto un anno qui da studentessa, mi piace pensare di sapermi muovere e magari anche di poter essere scambiata per una persona del posto. Probabilmente m’illudo, ma una ragazza ha pur sempre il diritto di sognare.

    Dopo venti minuti di sferragliamento arriviamo alla fermata Odéon. Sospiro di felicità quando usciamo dalla metro e ritrovo le immagini belle e familiari: gli studenti eleganti e slanciati che si salutano baciandosi sulle guance sotto la statua di Danton, i cinema con le lunghissime file all’entrata, gli ampi viali con gli edifici bianchi e imponenti accanto a caffè dai nomi tipo Le Danton e L’Odéon. Sono tutti estremamente chic e animati: mentre oltrepassiamo i gruppi seduti ai tavolini di vimini, salta agli occhi che stanno parlando di filosofia, della vita e dell’universo, non di quello che hanno visto ieri sera in televisione.

    «Tieni», dice Charlie, porgendomi la mia borsa da viaggio. Ero talmente assorta da non accorgermi che l’ha trasportata su per le scale insieme alla sua.

    «Oh, grazie». Mi guardo intorno, cercando di orientarmi. Alloggiamo al Relais Saint-Germain, in Rue Saint-Sulpice. So perfettamente dove si trova: devo solo capire dove siamo.

    «Ho una cartina nello zaino», dice Charlie. «Questo è il… Boulevard Saint-German?»

    «Saint-Germain», lo correggo. «L’hotel è di qua. Seguimi».

    Sono quasi certa che stiamo andando nella direzione giusta, e mi aspetto di trovare da un momento all’altro Rue Saint-Sulpice sulla nostra destra. Ma poi ci imbattiamo nei Giardini del Lussemburgo dove non dovrebbero essere, e siamo costretti a tornare indietro. La mia valigia comincia a farsi davvero pensante, ora.

    «Fermiamoci un istante. Il mio telefono non funziona… tiro fuori la cartina», insiste Charlie.

    «No, non ce n’è bisogno. So dove siamo: è laggiù, superato quello spiazzo, a sinistra. Ci sono già stata».

    M’ignora e si accovaccia per frugare nella sua sacca sportiva, piena principalmente di mutande. Una donna elegantissima che trasporta un’immensa busta di Yves Saint Laurent lo supera e mi lancia uno sguardo di rimprovero. Mi sento talmente mortificata che non riesco a guardarla negli occhi. Alla fine ci facciamo indicare la strada da una coppia di americani armati di cartine, marsupi e scarpe da ginnastica. Viene fuori che stavamo cercando l’hotel sbagliato; noi siamo al Relais Saint-Germain, che è proprio a Odéon, e io avevo l’indirizzo del Relais Saint-Sulpice. E per fortuna che dovevo passare per una del posto.

    Se non altro l’hotel è incantevole: legno scuro, mattoni a vista, arazzi e pesanti tende di velluto ovunque. Charlie si precipita alla reception e inizia a parlare in inglese all’attraente ragazza.

    «Sì», risponde lei, quando le comunica i nostri nomi. «Ho due stanze: una singola e una suite deluxe».

    «Ma dovevano essere due singole», protesto, confusa. «Possiamo cambiare?»

    «Mi dispiace, madame, siamo al completo», risponde in tono di scusa. «Victor vi mostrerà le camere».

    Non abbiamo altra scelta, così seguiamo su per le scale Victor, che non fa una piega mentre trasporta il mio pesantissimo bagaglio.

    «Prendo la singola», propone Charlie.

    «Non devi, possiamo giocarcela a testa o croce». Non mi sembra giusto che debba essere penalizzato solo perché è uomo.

    La singola è molto carina, con la carta da parati a strisce rosa, una televisione a schermo piatto e una bella vista sul Carrefour de l’Odéon. La suite invece è splendida. Ha delle travi di legno scuro sul soffitto, un angolo salotto e un letto gigantesco con un copriletto rosso e un plaid di pelliccia. Dalle portefinestre si accede a un balcone con alcuni vasi di gerani rosa. La vista dà sul groviglio di tetti metallici che si estende fino alle due torri di Saint-Sulpice.

    Resto a guardarla lungamente. Al diavolo la parità fra i sessi: voglio questa stanza! «Può lasciarci le chiavi», dico a Victor nel mio miglior francese. «Ce la vediamo tra noi».

    Sono piuttosto fiera della mia costruzione, ma Victor non si lascia ingannare e risponde in inglese: «Certo. Vi auguro un piacevole soggiorno».

    Pesco dalla borsa una moneta da venti centesimi e provo a decidere quale lato è testa e quale croce. «Ce la giochiamo, okay?»

    «Ti ho detto come facciamo», si oppone Charlie. «Prendila e basta. In cambio io scelgo dove andiamo a cena domani sera».

    «Ma non andiamo a cena domani sera. Abbiamo appuntamento con Jonathan di mattina, per un caffè. Ricordi?»

    «Certo, ma prima o poi vorrai mangiare, no? Io sicuramente sì».

    Questo sarebbe senz’altro d’aiuto per i miei progetti di seduzione. Ma non sono più tanto sicura di volerli mettere in atto, soprattutto se per farlo devo passare l’intera serata con lui. Non voglio essere scortese o ferire i suoi sentimenti, così cerco di inventarmi in fretta una scusa.

    «Oh, mi dispiace… Mi sono organizzata con un’amica». È una bugia, ma non lo scoprirà mai, spero. «La mia amica… Nicole. Vive qui, a Parigi. Non te l’ho detto?»

    «No», risponde affabile. «Nicole, eh? E che cosa fa, qui?»

    «Lavora per…». Guardo fuori dalla finestra in cerca d’ispirazione. «La Renault. Lavora per la Renault».

    Charlie alza le spalle e dice: «D’accordo, allora facciamo a testa o croce, se proprio insisti».

    Rimpiango di non aver semplicemente accettato la sua proposta, ma ormai è troppo tardi.

    «Ecco fatto. Ed è…». Sollevo la mano. «Oh. Testa. Hai vinto». Resto a guardare mentre si tuffa allegramente sul suo letto immenso.

    Un’ora più tardi, dopo aver disfatto le valigie ed essere rientrata da una passeggiata nel quartiere, apro la finestra della stanza e osservo i flussi di persone che camminano su e giù per la strada. Sono le dieci meno un quarto. Non riesco a togliermi dalla testa l’immagine di Charlie lascivamente adagiato su quel letto gigantesco.

    Mmm. E se provassi a mettere in atto questa faccenda della seduzione? Stasera?

    Mentre ci penso su, mi sfilo i pantaloni e la maglietta a collo alto, decisamente troppo caldi per questa serata, e faccio una doccia veloce. Ieri durante la pausa pranzo sono corsa dall’estetista per farmi fare la ceretta gambe intere e inguine brasiliano. Ho mentito a Sorrell dicendole che avevo un pranzo di lavoro, nel caso mi avesse cercato qualcuno. E mi sono comprata un nuovo completo intimo: un reggiseno delizioso e leggerissimo, nero e rosa, di Coco de Mer, con delle mutandine abbinate. Il tutto mi è costato quanto un vestito vero e proprio: sarebbe un peccato sprecarlo.

    Va bene. Lo faccio. Farò un salto alla porta accanto e vediamo che succede. La chiave dell’intera faccenda è, ovviamente, l’alcol. Quindi chiederò a Charlie se posso bere una bibita del suo minibar. E se qualcosa va storto, potrò sempre incolpare la mia medicina per l’allergia e dirgli che mi fa perdere la testa.

    Infilo un vestitino jeans anni Settanta, corto e ampio, e un paio di sandali di legno bassi. Mi spruzzo un po’ di Vivienne Westwood Boudoir sui polsi e fra le gambe, come bonus. Sono a metà strada verso la porta quando mi ricordo di prendere la borsa e metterci dentro un preservativo. In uno slancio di ottimismo, ne prendo due. Mi sento il cuore in gola: non riesco a credere che lo sto facendo davvero!

    Charlie apre la porta a torso nudo, e mi sembra un inizio promettente. «Ehi, ciao», dice. «Scusa, sono appena uscito dalla doccia. Dammi due secondi». Infila una maglietta Adidas sui pantaloni della tuta. «Che succede?». Sullo sfondo si sente la televisione.

    «Niente di speciale. Avevo voglia di bere qualcosa e nella mia stanza non c’è il minibar», dico, cercando di mantenere un tono disinvolto.

    «Qui c’è. Serviti pure».

    «Tu vuoi un drink?», chiedo mentre mi verso un vodka tonic, sperando che questo vestito valorizzi le mie gambe.

    «Volentieri», risponde, distratto. Mi volto e lo trovo sdraiato sul letto, con gli occhi incollati allo schermo, dove si sta svolgendo una partita di golf. «Prendo una birra, grazie».

    Sentendomi sempre meno un’irresistibile seduttrice e sempre più una cameriera, tiro fuori una lattina dal frigo. Immagino che non abbia bisogno del bicchiere.

    «Grazie», dice guardandomi di sfuggita, quando gliela porgo. «Scusa. È una partita importante, è appena cominciata».

    «Ah. Io non seguo molto il…». Sto per dire golf quando Charlie mi zittisce e solleva un dito. «Voglio solo vedere questo… Forza! Vai! Mettila dentro! Nel buco!».

    Infelice scelta di parole. Sorseggio il mio vodka tonic. Vorrei tanto poter andare via subito, ma le mie intenzioni diventerebbero troppo evidenti. Così sono costretta a restare inchiodata una mezz’ora di fronte allo sport più noioso che sia mai stato inventato, e con le divise più orrende, tra l’altro. Le giacche smanicate di lana! Le visiere!

    «Non ti piace il golf, eh?», chiede Charlie, quando infine arriva una pausa.

    «Non mi dispiace guardare una partita», mento. «Fra quanto finisce?»

    «Un paio d’ore. Vuoi un altro drink?».

    Un paio d’ore! Non sono disperata fino a questo punto.

    «No, mi sa che vado a letto. Ci vediamo domani. Alle undici meno un quarto nella hall?»

    «Perfetto. A Domani», dice. «Oh, è ricominciata. Ma che sta facendo??».

    Charlie mi guarda a malapena quando esco dalla stanza. Di ritorno in camera, affondo la faccia fra le mani e lascio andare un grido soffocato. Ma cosa mi è passato per la testa? È stato straziante. Mi tolgo di dosso il vestitino e la biancheria seducente e mi metto in camicia da notte. Credevo che Charlie fosse attratto da me, ma a quanto pare sulla sua scala di attrazione sono da qualche parte sotto il golf. A parte gli scherzi, se fosse stata una partita di calcio o il torneo di Wimbledon non sarebbe stato così terribile, ma il golf!

    Rabbrividisco nel pensare a quando mi ha chiamato Capitan Poppy. E poi mi colpisce un altro ricordo che avevo rimosso: il modo in cui mi ha detto: «Grazie, mamma». Aaargh. È evidente che per lui rappresento una sorta di figura materna.

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