La casa oltre il superbonus: Vendere, comprare, affittare, ristrutturare
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Casa per la vita o per le vacanze. Casa da mettere a reddito. Casa da comprare, con i risparmi o con un mutuo. Casa da valorizzare, magari ereditata, forse da vendere. Per centrare l’investimento immobiliare, partiamo dal “perché”.
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Anteprima del libro
La casa oltre il superbonus - Dario Aquaro
Introduzione
Se non siete tra i proprietari dei circa 500mila edifici che hanno beneficiato del superbonus, questo libro è per voi. Ma forse lo è anche se siete tra coloro che hanno intercettato l’agevolazione. Perché, passata la fase frenetica del 110%, bisogna provare a guardare oltre, per capire quali prospettive ci siano oggi per la casa in Italia. Abitazioni acquistate, ereditate, ristrutturate, affittate, desiderate per anni o vissute come un peso.
È facile perdere la giusta prospettiva, chiusi come siamo nella bolla italiana del 2024, sviati da un dibattito pubblico che spesso trascura le variabili fondamentali (economia stagnante da trent’anni, invecchiamento della popolazione, cambiamento climatico, debito pubblico record).
Anche il bonus del 110% ha contributo a mischiare le carte. Ristrutturare casa gratuitamente
era il leitmotiv del discorso al popolo. Un anno fa, nel libro Il caso superbonus ricordavamo un principio basilare, ignorato dalla politica negli ultimi anni: «I pasti gratis non esistono: le risorse per sistemare il patrimonio abitativo sono quelle dei contribuenti». Di certo – scrivevamo – gli importi assorbiti da questo incentivo sono «senza precedenti per il bilancio dello Stato, destinati a entrare nei libri di storia».
Il superbonus – con la grancassa della cessione dei crediti – ha dominato i discorsi dei proprietari di casa nell’era post Covid, mentre i bassi tassi d’interesse dei mutui facevano da motore alle compravendite. Ora quella stagione eccezionale si è chiusa, anche se il conto non l’abbiamo ancora pagato per intero.
A livello collettivo, è ormai assodato che l’incentivo avrebbe potuto essere calibrato meglio: sarebbe costato meno allo Stato e avrebbe avuto effetti più duraturi sull’economia. A livello individuale, chi l’ha sfruttato probabilmente si gode un immobile che oggi vale di più, ma solo se i lavori sono stati finiti, e finiti bene; altrimenti il rischio è quello di trovarsi invischiati in contenziosi e spese impreviste. Ma quali prospettive si delineano adesso? È la domanda a cui proviamo a rispondere in questo volume. Analizzando a tutto tondo il rapporto con il bene-casa. Cercando di spiegare le opportunità ancora offerte da bonus e regimi fiscali agevolati, i limiti e i rischi per chi oggi deve gestire, riqualificare, valutare, comprare, affittare o prendere in affitto un’abitazione. Con lo sguardo teso alle prossime svolte: dalle dinamiche del costo del denaro ai vincoli europei sulla riqualificazione energetica, fino alle discipline degli affitti turistici.
Capitolo 1
La casa oggi
Il 5 febbraio 1637, nella città olandese di Alkmaar, un lotto di bulbi di tulipano fu aggiudicato alla cifra record di 90mila fiorini. Ogni bulbo fu pagato più dello stipendio annuo di un operaio edile. I prezzi continuavano a crescere da qualche anno. In tanti si erano arricchiti comprando e rivendendo tulipani per importi sempre più alti. Ma la bolla speculativa, in quelle prime settimane del 1637, aveva ormai raggiunto il punto di massima tensione. Bastò che un’asta andasse deserta ad Haarlem per scatenare il panico: chi aveva acquistato a prezzi folli temeva di non poter recuperare il capitale investito e si affrettò a vendere per minimizzare le perdite, ma a quel punto tutti iniziarono a liquidare le proprie posizioni e la bolla si sgonfiò con impressionante velocità. I prezzi crollarono e intere fortune andarono perdute in pochi giorni.
La bolla dei tulipani è considerata la prima grande crisi finanziaria moderna. È ben documentata e molto nota, e tutto sommato c’entra poco con la finanza pubblica e con la casa, se non forse per il fatto che alcuni investitori vendettero proprietà immobiliari per acquistare bulbi di tulipano. Eppure, ha qualcosa in comune con il superbonus. Perché – al pari di questa agevolazione fiscale – ha prodotto una sorta di illusione ottica. Diffondendo l’idea che fosse possibile generare ricchezza quasi dal nulla. E spingendo un numero via via crescente di cittadini a cercare di approfittarne.
Per essere chiari: non è detto che tutti coloro che hanno tentato di sfruttare il superbonus credessero davvero che la corsa sarebbe durata all’infinito. Così come non è detto che tutti coloro che acquistarono tulipani nel ’600 pensassero che i prezzi sarebbero saliti per sempre. Ciò che conta è che tanti hanno provato ad accaparrarsi un pezzetto di fortuna.
Se oggi ci troviamo a ragionare su come gestire al meglio gli immobili sotto il profilo economico e fiscale dopo il superbonus
, è perché a un certo punto si è voluto credere che lo Stato potesse offrire un’agevolazione fiscale superiore alle somme investite dai privati per ristrutturare le proprie case, e che questo aiuto così generoso potesse autofinanziarsi; o, comunque, avere un costo sostenibile per l’Erario.
La creazione della moneta fiscale
Vale la pena di ricordare come siamo arrivati fin qui. Nella primavera del 2020, alla fine del primo e più duro dei lockdown imposti dal Covid-19, il decreto Rilancio varato dal Governo Conte 2, introduce il superbonus per favorire la ripartenza dell’economia. Si tratta di una detrazione fiscale che incentiva la riqualificazione energetica e la messa in sicurezza antisismica delle abitazioni, restituendo ai proprietari il 110% di quanto investito, in un tempo inizialmente fissato in cinque anni (e poi ridotto a quattro dal 2022). Oltre alla percentuale di detrazione superiore alla spesa – un unicum nel panorama degli sconti fiscali sui lavori edilizi – il superbonus si caratterizza per un’altra opportunità che il Fisco italiano fino a quel momento aveva concesso ai contribuenti solo in casi limitatissimi: quando non è sfruttato sotto forma di detrazione nella dichiarazione dei redditi, il credito d’imposta può essere ceduto a banche, assicurazioni, intermediari finanziari o altri soggetti privati; oppure, può essere direttamente scontato in fattura da parte dell’impresa che esegue i lavori, la quale potrà poi usarlo a scomputo dalle proprie imposte o trasferirlo a un altro soggetto per farsi finanziare i lavori.
La stessa possibilità di cessione o sconto in fattura viene inoltre prevista, sempre dal decreto Rilancio, per tutte le altre agevolazioni fiscali edilizie diverse dal superbonus: il bonus facciate del 90%, la detrazione del 50% sulle ristrutturazioni, l’ecobonus ordinario e così via. Inoltre, diversamente da ciò che è stato disposto fin da subito per il superbonus, per queste agevolazioni il trasferimento del credito d’imposta è potuto avvenire inizialmente in modo molto semplice, senza bisogno che un professionista tecnico certificasse la congruità della spesa e in anticipo rispetto all’effettiva esecuzione dei lavori.
I crediti d’imposta derivanti dal superbonus e dagli altri bonus edilizi non sono mai stati ufficialmente assimilati a una nuova moneta fiscale
. Ma affondano le proprie radici nelle teorie sulla creazione della moneta fiscale che circolavano da tempo. Per esempio, ben prima che si insediasse l’esecutivo a maggioranza giallorossa (il Conte 2, sostenuto tra gli altri da Movimento 5 stelle e Partito democratico), nel contratto per il governo del cambiamento
del 2018 tra M5s e Lega (il Conte 1, appoggiato dall’alleanza gialloverde) veniva prospettata l’emissione dei minibot
con cui saldare i debiti dello Stato verso le imprese. Si citavano, infatti, «l’istituto della compensazione tra crediti e debiti nei confronti della pubblica amministrazione, da favorire attraverso l’ampliamento delle fattispecie ammesse, e la cartolarizzazione dei crediti fiscali, anche attraverso strumenti quali titoli di Stato di piccolo taglio».
Nel corso della XVIII legislatura (2018-2022), anche dopo l’introduzione del superbonus, sono stati proposti diversi disegni di legge di iniziativa parlamentare incentrati sull’idea della moneta fiscale. La quale viene così definita dal dossier del Servizio studi del Senato n. 395 del giugno 2021 (a commento di cinque disegni di legge in tema): «Un titolo di credito emesso dallo Stato che può essere usato, alla scadenza, per adempiere a obbligazioni finanziarie nei confronti dello Stato (per esempio, tasse o multe) per un valore pari al valore facciale del titolo. Nel caso in cui il titolo sia trasferibile a terzi, esso può essere usato come mezzo di pagamento per l’acquisto di beni e servizi purché vi sia il consenso delle parti».
In estrema sintesi, secondo alcune delle teorie sulla moneta fiscale, lo Stato avrebbe dovuto consegnare dei certificati di credito fiscale ai cittadini, i quali li avrebbero usati per fare acquisti, sostenendo i consumi. Le imprese, una volta incamerati dai cittadini i crediti a titolo di pagamento, avrebbero potuto utilizzarli a scomputo dalle imposte dovute, ma solamente dopo un certo periodo, per esempio due anni. In quel momento il meccanismo sarebbe stato in equilibrio: le maggiori imposte versate per effetto della crescita economica generata dall’aumento dei consumi – si diceva – avrebbero compensato le minori entrate pubbliche causate dal fatto che alcuni contribuenti avrebbero saldato le imposte con i crediti fiscali anziché in euro.
È abbastanza evidente che la possibilità di trasferire alle banche e