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Io sono uno Scienziato - Le Suore sono quasi tutte femmine
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E-book151 pagine2 ore

Io sono uno Scienziato - Le Suore sono quasi tutte femmine

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Info su questo ebook

Questo è un libro da Scienziati e da Agenti Segreti. Come il primo, ma più scientifico, da Agenti Segreti Scientifici. Insomma, il seguito, e non finirà qui! La scoperta del millennio: Le Suore mi sa che sono quasi tutte delle Femmine!! Anche Suor Genoveffa, forse. Neo, che sono io, Aug, mamma, babbo, il mio amico Diego, la sua mamma naïf Gigliola, un Fachiro venuto da chissà dove. Avete inventato un codice segreto, la vostra rete di salvataggio, bravissimi, scienziatissimi, prima o poi vi tornerà utile: Diego con quel Codice ha finalmente fatto ritorno a casa, anche se purtroppo deve anche andare a scuola, scuola qui e in ogni nostro libro da Scienziati si scrive sempre con la minuscola. Invenzioni strepitose, inimmaginabili, un Snoopy con una specie di morbillo, un Parrucchiere estroso che taglia le orecchie ai bambini, un gioco di pisolino con proiettili colorati, le Femmine più grandi che ti vogliono sempre baciare almeno, una nonna di gomma che ancora sta rimbalzando tra le stanze per un’audace carambola. Zia se ne resta ancora incastrata nel muro del bagno e da oltre dieci anni, mentre Zio, che ha presentato la domanda edilizia per rimuoverla, è in gita a Londra. Londra, città del Mistero. Sua Maestà il Re in mutande si affaccia di notte al balcone Reale con le sue Dr.Martens cercando di rimuovere un vessillo inadeguato, F&D in tenuta da NBA rotolano tra i cespugli del Parco. La Regina sotto un colpo di fucile. Poi la Tigre del Bengala che canta l’Aida ai piedi della Sfinge, un Cammello bevitore. Questo e' il quotidiano di un bambino ora ragazzo che già' all' eta' di tre giorni si scopre Scienziato. E Agente Segreto.
LinguaItaliano
Data di uscita22 dic 2014
ISBN9786050343724
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    Anteprima del libro

    Io sono uno Scienziato - Le Suore sono quasi tutte femmine - Bernardo I. Cigliano

    Io sono uno Scienziato

    Libro 2

    LE SUORE SONO QUASI TUTTE FEMMINE

                                                                    per tutti gli ASS del CASS

    11. SANDOKAN E IL DUE DI BRISCOLA.

    Spesso gli umani adulti hanno meno difficoltà nel vietarci cose ed azioni che nell'acconsentirle. Dire di no ad un bambino è molto semplice: No, punto. Facile. Babbo no, lui mi lascia decidere, quasi sempre almeno, ma io ho capito che quando è lui a prendere le decisioni allora è perché lo deve fare o per il mio bene, quindi siamo organizzati.

    E quella fu davvero difficile come decisione. Babbo solo in seguito mi avrebbe confidato quanto fosse stato tormentato quell'Ok. Ma aveva capito, mi aveva guardato fisso negli occhi per alcuni interminabili minuti, quelli che si interposero tra me e quel verdetto inappellabile e atteso da tempo.

    Ok.

    Aug saltellava festoso, come capisse cosa stesse succedendo, intendendo di avere improvvisamente acquisito megaspazi ed attenzioni inimmaginate. Ah, ma quando torno facciamo i conti, piccolo umano!

    Era dura lasciar andare un figlio all'età di undici anni, sentiva però che doveva, assaporando quelle lacrime salate finora trattenute e che ora rigavano il suo viso, fino a lambire la parte più sensibile delle labbra che, a comando incondizionato, automatico, muovevano la lingua per pulirle, il dorso della mano per asciugarle. Babbo stava piangendo a denti stretti, così sfociammo tutti in un pianto comune, tutti meno quel piccolaccio, che se ne stava festoso a saltellare sul suo deambulatore infantile e diceva: Olè!

    Io capii, babbo comprese: Ok.

    Salii di corsa le scale che mi portavano verso camera, tirai fuori da sotto il letto il vecchio Eastpack rosso polveroso con tutti i ragni pelosi sopra e anche una cimice verde tutta stecchita a pancia in su, non pensai nemmeno di passarci leggermente una mano sopra tanto ero concentrato sul da farsi. Presi il minimo necessario, un cambio di tutto. La bussola di plastica che avevo vinto raccogliendo i punti di sole 99 confezioni di corn flakes ricoperti di miele che per un mese sembravamo tutti delle Api Regine. Un coltellino svizzero full optionals che mi regalò zia per la nascita, forse lungimirante nelle sue vedute, infatti aveva anche una specie di scastrino da muro di bagno. Il mio iphone 3 con la cover blu che prima era di babbo. Un quaderno e una penna, non per fare i compiti, ma per appuntarmi tracce ed indizi.

    Scesi in salotto, solo il tempo per un rapido saluto a mamma che piangeva bagnando il cellulare, un cinque ad Aug, un lungo abbraccio a babbo che, con un tenero: Vai, figlio mio! acconsentì a che io voltassi le spalle, asciugandomi i lacrimoni e accompagnassi delicatamente la porta di casa per non farla battere, cosciente dell'importanza di quella missione audace. Neanche mangiai quella sera, cosa impensabile in momenti normali, comunque mamma preparò una specie di becchime con le verdure che dimenticai di notare.

    Guardai in alto, nel cielo stellato pulito dal maestrale che aveva soffiato dannatamente forte quel pomeriggio. Sapevo dove andare, avevo capito, forse azzardato la conclusione che sembrava almeno improbabile, ma che ritenevo nella sua pazzia potesse funzionare.

    Mi incamminai veloce verso la stazione degli autobus, correndo per lunghi tratti, in modo da non perdere l'ultima corsa per la stazione dei treni, dove il transasiatico sarebbe passato tra circa quaranta minuti, facendo una breve sosta per ricaricare il vagone ristorante svuotato dai viaggiatori annoiati del viaggio. Lo zaino sulle mie spalle saltava che sembrava una palla cinese con la calamita dentro, azionato dal peso degli oggetti che vi avevo buttato dentro, così alla rinfusa. Ogni tanto il coltellino mi tirava delle fitte terribili sulla schiena, mi sa che lo avevo dimenticato aperto accidenti, mentre la bussola ruotava impazzita in preda al mal di mare che sembrava avesse perso se stessa.

    Ce la feci comunque, raggiunsi l'autobus e condivisi uno dei sedili nei posti in fondo con un giovane marocchino sudato e con i suoi bauli di spezie. Mi raccontò, durante quel breve tragitto verso il treno, di quanto faticosa fosse stata la giornata passata a contrattare il prezzo del prezioso Zafferano di Taliouine con il gestore di uno dei ristoranti più in voga del centro, ignaro della cura e della fatica posta, su nell'Altopiano di Souktana, nella raccolta degli stigmi di quel prezioso fiore, dei segreti e dei difficili sistemi di essiccazione che la famiglia del ragazzo da secoli tramandava tra i propri membri. Lo ascoltai incredulo, più per la parte relativa al dettaglio delle metodologie di raccolta in alta quota che per quella relativa al ciccione del ristorante. Poi, arrivato alla mia destinazione, scesi dall'autobus augurando al mio amico un buon proseguimento, lui mi salutò con un leggero tocco della sua mano sulla sua testa.

    Afferrai al volo il treno che già si trovava in moto, forse i viaggiatori stavolta non avevano svuotato completamente le stive del vagone numero 4. Incrociato il controllore strisciando in uno stretto corridoio, gli porsi il mio telefono, avendo cura di toccare la schermata della prenotazione che babbo aveva prontamente provveduto a fare via Mac, da casa, nei minuti che seguirono la chiusura della porta. Vagone numero sette, scompartimento 2, posto 66B. Una lettura ottica convalidò la mia presenza.

    La notte passò tranquilla, dormii di filato circa dieci o dodici ore, un'enormità, al ritmo delle traverse che il treno incrociava sui binari. Ogni tanto, al passaggio su un ponte o incrociando gli scambi dei binari, venivo svegliato dall'Eastpack che ruzzolava per la mensola in ferro e poi, arrivato ad una estremità, a contatto con la parete, cascava giù, solitamente tra lo spazio che divideva le due file di sedili, svegliando gli occupanti che saltavano in aria impazziti e urlavano: Aaahh! Successe circa dodici volte poi il mio vicino, accompagnando con un'occhiataccia degna di un guardata, colse lo zaino da terra e lo attaccò al gancio appositamente fissato a lato dello scompartimento. Suscettibile, forse aveva il sonno leggero. E così passarono anche le successive sei notti, fino a che un odore caratteristico mi svegliò una mattina. Un brusio che proveniva dall'esterno e gente abbigliata a dir poco in maniera non consueta fecero il loro ingresso nello scompartimento 2, e anche, rendendomene conto appena messo il naso fuori dal finestrino, tutto attorno al convoglio. In lontananza riconobbi un cartello di legno formato da tre assi sovrapposte e tenute assieme da della rafia intrecciata, con sopra inciso a fuoco, in lingua Bangla a caratteri abugida: Sandeshkhali. Si trattava dell'ultimo avamposto collegato che precedeva le Sunderbans, forse una tra le aree geografiche più pericolose al mondo, un agglomerato di milioni di persone rimbalzate tra maree ed isolotti nascosti, la Terra delle Mangrovie, e purtroppo anche regno della famigerata Tigre del Bengala, la tigre assassina che tuttora vanta un numero elevato di umani pasteggiati all'anno, anche se quelli che vivono qui sono secchini, per cui valgono la metà dei nostri, quindi la Tigre mangiava normale, non a dieta ma neanche pranzi di Pasqua. Quel cartello mi suggerì come fosse ora di scendere. Raccolsi rapidamente zaino e altro che avevo sparso sui sedili, ringraziai un signore col turbante che mi porse gentilmente il coltellino che avevo dimenticato incastrato nello spazio tra i braccioli accanto, non il signore permaloso che raccattò l'Eastpack, e corsi per il corridoio fino al salto giù dalla porta pneumatica del treno che stava per chiudersi, atterrando sulla banchina principale, unica anche, della stazione centrale: Yeah!

    I giorni che seguirono furono epici, disastrosi da un certo punto di vista, ma eroici. Trovai Diego. La pazza ipotesi che avevano disegnato le tessere messe assieme aveva funzionato. Era lei, purtroppo.

    Mi è impossibile, almeno per ora, narrare ciò che accadde. Questo non tanto per una promessa che feci a Diego col sangue - ci tagliammo un poco le braccia, io la destra, lui anche, ed unimmo le ferite così da far mischiare i nostri sangui, per promessa col Patto, da veri Agenti Segreti, anche se frizza un po' e Diego disse Ahi!-, quanto perché nutro tuttora un profondo rispetto per ciò che di terribile ebbe a sopportare il mio amico che, se aveva lui motivo di non spifferare una sola sillaba, io avrei fatto altrettanto.

    Accaddero tante di quelle cose da poter scrivere un romanzo. Inizialmente mi imbattei in singolari pescatori che si offrirono di scorrazzarmi tra un milione di isole che nascevano e morivano così, sommerse dai ritmi delle maree notturne, senza preavviso, oggi c'erano, domani forse no.

    Incappai in personaggi degni del miglior Salgari, Sandokan era niente in confronto. Sembravo caduto improvvisamente nel vero mondo dei Tigrotti di Monpracem, in un angolo di un bar mi era anche parso intravedere Yanez e Marian, la bellissima Perla di Labuan, che si leticavano un due di briscola sotto gli occhi vigili e ridacchiosi del pacioso Sambigliong. Briscola a spade, loro si contendevano il due di bastoni.

    Poi, come una mangusta del deserto, una sentinella che sbuca ritta, improvvisa, dal niente, scostai un ramo di mangrovia che mi avrebbe o cecato, se fossi stato ottimista, o decapitato in toto, se avessi avuto l'ottimismo di mamma. Lo evitai, spostandolo durante una virata a sinistra della chiatta in legno del mio amico pescatore ed improvvisamente apparve quel villaggio, il villaggio. Mi ricordò quelle capanne di Apocalypse Now, guardatelo quel film con babbo. Trovai Diego, spossato, graffiato, sanguinante dal dorso, ma vivo. Lo rinfrescai con un poco d'acqua pulita ancora rimasta suo fondo della borraccia, artigianato del nord creata da interiora di Gnu, me lo caricai in groppa per i metri che ci dividevano dalla chiatta e lo deposi sul fondo, delicatamente come fosse un lampadario fragile.

    Facemmo ritorno, senza accennare ad alcuna parola, con i volti decisi verso la prua, fissando l'orizzonte mutevole a causa delle continue maree. Toccammo terra ferma tre giorni dopo, bivaccando alla meglio con cozze, gamberi e tuberi marini, tra spiagge improvvisamente emerse e anche sulla chiatta stessa, al riparo da serpenti e tigri feroci.

    Lasciai il mio coltellino rosso all'amico pescatore, che aveva trasportato me, e ora anche Diego, tra quel firmamento di isole per oltre cinque giorni. Fu felice, si sdebitò con una perla enorme che aveva pescato ieri notte durante il suo turno di guardia, infagottata in un lembo di seta rosso che strappò dal vestito di Sandokan, la Tigre della Malesia, che nel frattempo aveva raggiunto i suoi amici al bar. Ora giocavano a Scopone scientifico, lui non si accorse dello strappo, faceva coppia con La Perla, dal vestito spuntava una etichetta con impresso CE Made in China, originale quindi.

    Sei giorni dopo scendemmo assieme dal treno transasiatico che ripercorreva ora al contrario i binari, eravamo a casa.

    Diego, durante tutto il ritorno, non disse una sola parola, mentre non scostò un solo secondo i suoi occhi dai miei, fissandomi per tutto il viaggio. Mi seguiva anche al vagone 4 per mangiare pollo freddo che sembrava di gomma con la valvola a sotto per l'aria. Anche in bagno, e non solo per la pipì. Una volta lo tenni fuori della porta perché se no non me la faceva scappare, mi si bloccava, ma lui appiccicava l'occhio allo spioncino, per fissarmi.

    Prendemmo uno degli autobus della mattina presto, che in alcune decine di minuti ci scaricò sotto le rispettive case, a Diego sotto quella del suo babbo, che sembrava aver fatto anche lui ritorno viste le illuminazioni alle finestre.

    Lo salutai con una mano, lentamente, con un sorriso sospeso a mezz'aria, mi rispose strizzando gli occhi, entrambi, assieme, poi se ne uscì con: A domani Neo. Tutto come prima, come niente fosse accaduto, la mattina seguente ci saremmo incamminati assieme, saltellando tra le pozze, verso la terribilezza della scuola, più paurosa

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