Borsalino Blues
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Anteprima del libro
Borsalino Blues - Elio Vincenzo Campobasso
I
Il sole di luglio del 1969 mi bruciava sulla testa, ricordandomi che era ora di partire. Avevo da poco terminato di mangiare la solita bistecca disossata e con poco sale in quella tavola calda tra la Lexington e la 24th ma lo stomaco brontolava ancora. Tra l’altro non avevo ancora smaltito l’agitazione per la rissa con un tipo che mi aveva rubato il portafogli. Dovevo sbrigarmi, altrimenti mi sarebbe toccato fare il viaggio in piedi.
Alla stazione dei pullman c’era una fila lunghissima di persone che aspettavano il loro turno per salire. Erano tutti musicisti, uomini e donne, accompagnati dalle custodie dei loro strumenti. Anch’io avevo le mie custodie, non per gli strumenti musicali, però, ma per i miei cappelli. Ne ho una per ogni cappello che mi porto in viaggio e vi assicuro che di cappelli ne porto con me tanti. Per questo motivo ogni volta che faccio un viaggio, pago, per il trasporto dei bagagli, cinque volte più del necessario. Ci tengo molto ai miei borsalino. Non avevo ancora raggiunto la corriera, la Long Way 62, che un fattorino in piedi sul tetto dell’autovettura mi gridò a gran voce:
- Signore! Dico proprio a lei con le custodie per la batteria! Venga avanti che sistemiamo i suoi strumenti per primi!
Era la solita storia quella: ogni volta che qualcuno mi vedeva con le custodie per i cappelli le scambiava per custodie di batteria. I primi tempi questo fraintendimento mi faceva uscire dai gangheri. Come si fa a confondere una custodia per batteria con una cappelliera? Col passare del tempo però ci ho fatto l’abitudine e ho imparato ad apprezzare anche il rovescio della medaglia. Soprattutto quando viaggio in treno, riservo agli strumenti
almeno quattro posti intorno a me e questo mi fa stare più tranquillo.
Il richiamo del fattorino attirò l’attenzione della lunga fila di persone. All’improvviso si voltarono tutti dalla mia parte.
Il pensiero che passa per la mente di chi pensa che suoni la batteria è sempre lo stesso: chiunque si chiede come fai a trasportarla. Certo, andare in giro con una batteria non è proprio come portarsi appresso un’armonica, ma la passione supera ogni difficoltà, quindi il problema, in realtà, esiste solo per chi se lo pone. È più sconvolgente l’idea che quelli che porto con me sono cappelli.
Chiunque lo venga a sapere, mi prende per matto. Non che me ne importi tanto del giudizio della gente, ma alcune volte mi stanco di ripetere sempre le stesse cose, a persone diverse e più volte nello stesso giorno. Ricordo che un pomeriggio si creò un piccolo gruppo di persone intorno a me, mentre descrivevo i miei cappelli e le loro custodie. Mi venne la gola secca per il troppo parlare.
Per quanto i cappelli possano essere leggeri, dieci custodie cilindriche sono comunque ingombranti e a trasportarle si fatica un po’. Già, ho proprio dieci custodie per dieci cappelli diversi, più una vuota per il cappello che porto in testa, il mio affezionatissimo traveller bianco latte con marocchino moka: lo indosso sempre quando parto per un viaggio; mi trattiene i pensieri in testa; alcune volte mi coccola addirittura, ovattando i raggi del sole.
La fila era davvero lunga.
Me ne resi conto mano a mano che procedevo verso l’autobus. Circa a metà, c’era una ragazza seduta sulla custodia di un contrabbasso. Era magra e aveva la pelle bianchissima e un pancione enorme perché era incinta. Mi fermai a guardarla per pochi istanti, poi misi per terra i bagagli e mi avvicinai per dirle:
– Signorina come si sente? La prego, mi segua, non è il caso che resti ancora qui sotto il sole…
– Lasci stare, il fattorino ha detto che devo aspettare il mio turno…
Aveva una voce delicata, incantevole direi.
– Ha detto proprio così? Che deve aspettare il suo turno?
– Sì, ha detto proprio così… A quanto pare un contrabbasso e un pancione sono meno ingombranti di una batteria…
Mentre parlava, lanciò un’occhiata alle altre persone della fila, fulminandole con lo sguardo, quasi a rimproverarle per il fatto che nessuno avesse preso le sue difese prima. Era chiaro che non ce l’aveva con me. Aveva colto l’occasione per far valere i suoi diritti.
– Venga, la prego, mi segua. Sono convinto che nessuno si lamenterà se oltrepassa la fila senza rispettare il suo turno!
Quando parlo, riesco ad essere convincente. La mia grande corporatura mi aiuta in questo. Non ne approfitto mai, però.
Arrivato di fronte al pullman, mi tolsi il cappello e, rivolgendomi all’uomo sul tetto, dissi seccato:
– Dov’è finito il rispetto per le donne? Scendi a darle una mano o ti tiro giù a calci nel di dietro!
– Con chi credi di parlare, finocchio di un musicista!¹ - mi rispose di contro l’uomo, catapultandosi giù dal pullman per venire a sfidarmi.
Avevo sentito proprio bene, aveva detto finocchio di un musicista!
e lì c’erano oltre un centinaio di musicisti a fare la fila per il suo pullman… Feci appena in tempo a sottrarre il fattorino dalle braccia di un trombettista di colore che gli aveva abbassato i pantaloni ed era in procinto di ficcargli il suo strumento su per il di dietro mentre continuava a gridargli nelle orecchie:
– Adesso vedremo chi è il finocchio! Stai per provare il mio strumento! Sentiti onorato, non lo presto a nessuno, ma per te farò un’eccezione!
– Ok adesso basta! Fermi tutti! - mi misi a urlare, mentre l’uomo veniva ricoperto d’insulti, sputi e pesanti custodie. – Il signore sicuramente ha capito di avere sbagliato, dico bene?
L’uomo sembrava un barattolo di marmellata nelle dita vogliose di bambini scalmanati ansiosi di arrivare a vedere il fondo.
– Basta! Basta! Chiedo scusa a tutti! Sono stato uno stupido! Basta! Vi prego, basta! – continuava a ripetere, cercando di divincolarsi da chi lo prendeva per il bavero della divisa o lo strattonava per le maniche. I suoi pantaloni ormai toccavano quasi per terra.
– Avete sentito? Solo per oggi e solo per i presenti il biglietto del viaggio è gratui-to! – improvvisai guardando negli occhi lo scellerato, che non ebbe il coraggio di replicare, ma si limitò ad annuire ripetutamente con la testa.
Forse non avrei dovuto farlo, voglio dire non dovevo inventarmi questa storia del viaggio senza costo. In fondo era il suo lavoro, magari aveva una famiglia e dei bambini da mandare a scuola. Ma ormai era fatta, non potevo rimangiarmi le parole. Tra l’altro erano state ben accolte da tutti i musicisti della fila, che ormai avevano preso confidenza gli uni con gli altri e alcuni dei quali, verso il fondo, avevano tirato fuori trombe, clarinetti, chitarre e contrabbassi e si erano messi a improvvisare jazz di strada.
Pensai tra me e me che per rimediare gli avrei dato un po’ di soldi, quanto bastava per coprire il costo di una decina di biglietti. Mentre ero assorto in quei pensieri, mi sentii chiamare alle spalle.
– C’è solo una persona che va in giro con tutti quei cappelli, e quella persona è Borsalino Blues! Tu sei Borsalino Blues vero? – era la voce di quel trombettista di colore, che adesso aveva cambiato espressione e mi sorrideva con un’arcata d’avorio talmente grande da poterci suonare sopra un notturno da gran coda.
– Non pensavo di essere così famoso – replicai e poi ancora – Vacci piano con quello strumento. Per un momento ho creduto che volessi sodomizzarlo davvero!
– Lo avrei fatto se tu non mi avessi