Racconti Di Viaggio Del Monaco Kyoshi
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Racconti Di Viaggio Del Monaco Kyoshi - Francesca Angelinelli
Angelinelli
UN RAGAZZINO SPECIALE
Nacqui in un anno imprecisato durante l’ultimo periodo di regno dell’Imperatore Hikari, in un villaggio situato nella Valle del Tramonto, di più non saprei dire, credo che quel luogo abbia cessato di esistere e che non abbia mai avuto un vero nome.
Io presi il nome di Kyoshi Nomura, detto Del Picco Celeste, per via del fatto che in gioventù studiai presso un Tempio situato su una delle vette dei Sette Picchi, ma non ricordo quale sia stato il mio nome prima di allora. Posso dire per certo che trascorsi un’infanzia piuttosto ordinaria, non dissimile da quella degli altri figli di contadini. Settimo di dieci fratelli, adoravo passare con loro i pomeriggi estivi immerso fino alle ginocchia nel torrente Asakawa che scorreva accanto alla nostra modesta abitazione. Di tutti ero il più gracile di costituzione, ma il più rapido di intelletto. Più volte, prima che compissi sette anni mia madre fu costretta a temere per la mia vita quando sopraggiungeva l’inverno, ma altrettante furono le volte che, al momento della vendita dei nostri prodotti, io fui in grado, sfruttando le parole adeguate, di far guadagnare a mio padre più di quello che si era aspettato.
Fu presto evidente che gli dei non mi avevano creato per lavorare nei campi e così, mentre i miei fratelli crescevano sani e robusti e uscivano al mattino per tornare la sera abbronzati dal sole, io non facevo che occuparmi delle finanze. Benché bambino, infatti, ero assai abile con i numeri non meno che con le parole.
Più alto della media dei bambini di otto anni, assai più magro per via dello scarso esercizio fisico e dinoccolato nel portamento, mi paragonavo a mio fratello maggiore, sedicenne, mio idolo e modello di forza e virilità, e vedevo con chiarezza che egli era come gli immensi alberi del querceto, mentre io andavo via via assomigliando al fusto cavo del bambù.
Un pomeriggio vagabondavo proprio per il querceto sopra il torrente e riflettevo amareggiato sulla mia triste condizione. Gli adulti mi portavano un bizzarro e inconsueto rispetto, per via della vivace intelligenza che mi distingueva dalla massa dei ragazzini dispettosi. Ma quelli, il gruppo di ragazzini dispettosi di cui io desideravo ardentemente far parte, mi allontanavano come un appestato, non abbassandosi neppure a tempestarmi con quegli scherzi, a volte crudeli, con i quali invece rendevano impossibile la vita del povero Taro, mio coetaneo. Ah, quanto avrei voluto essere lo sciocco e robusto Taro! Un po’ tocco e con uno stomaco prorompente, ma libero di correre dietro a quelli che lo insultavano o gli tendevano agguati durante la festa d’estate. Come possono essere crudeli i ragazzini! Di me non si curavano neppure. Consideravano di più il buon vecchio gatto Neko, al quale già tre generazioni di monelli avevano causato seri danni, tra cui la perdita di un occhio e il vistoso accorciamento della coda.
Io ero un bambino molto solo, ma, all’epoca, non per mia scelta. Così mi capitava spesso, quando i miei fratelli erano nei campi, di girovagare fuori dal villaggio per cercare la consolazione di piante e animali, spesso in compagnia proprio del gatto Neko, che probabilmente mi seguiva per sfuggire a nuove angherie.
Quel pomeriggio, lo ricordo bene, raccolsi per gioco una decina di legnetti. Senza nessuno scopo in principio. Li raccolsi per caso da terra. Poi, trovato un grosso sasso grigio che sbucava dal suolo come fosse una scapola della terra, mi sistemai a gambe incrociate e osservai con attenzione i bastoncini.
«Che ne dici, Neko – dissi con un sorriso – Ora potrei leggerti il futuro come fanno gli indovini al mercato?» lanciai i legnetti, così, senza un’idea precisa di quel che facevo. Li lanciai, deciso a scoprire se il povero Neko fosse destinato a sopportare un’altra stirpe di torturatori oppure se una sorte migliore lo attendeva, magari una reincarnazione in un essere superiore.
I legnetti saltarono dalle mie mani e finirono a terra, su un mucchio di foglie ingiallite anzitempo per il troppo caldo di quell’estate, io li fissai incredulo. Ai miei occhi quella disposizione sarebbe dovuta apparire del tutto casuale, invece… in essa leggevo con chiarezza che il gatto Neko, primigenio abitante del villaggio sul torrente Asakawa, sarebbe venuto a mancare alla fine di quella stessa estate e, benché la mia mente si rifiutasse di crederlo, sarebbe morto di vecchiaia e non per il tiro mancino del furfante di turno.
Fui preso dal panico. Non che la sorte di Neko mi turbasse più del necessario o la consapevolezza che avrei presto perso il mio unico compagno di passeggiate mi sconvolgesse oltremisura. Ma perché io, proprio quel bambino che tutti scansavano, leggevo nei bastoncini di legno cose che non erano ancora accadute.
A chi raccontarlo? Con chi confidarsi? Nessuno, neppure i miei fratelli avrebbero preso bene la notizia. C’erano diverse possibilità: potevano deridermi e considerare la mia scoperta uno scherzo infantile, allora avremmo scherzato insieme ma, se avessi insistito nell’affermare la mia verità, sarei stato di certo punito da mio padre; oppure avrebbero potuto credermi e allora sarei stato ai loro occhi un essere diverso, di cui dubitare.
Dovevo riprovare. Verificare al più presto che non fosse stata tutta colpa del caldo. Quindi rilanciai i legnetti e, questa volta, mi concentrai su Taro, sul suo futuro, sul destino che aspettava il robusto trastullo dei monelli del villaggio. E, con mia immensa sorpresa, lessi… legnetti lunghi e legnetti corti si sovrapponevano gli uni agli altri, alcuni più chiari, altri più scuri, formavano ombre, mentre altri ancora rotolavano più lontano dal gruppo principale. «Capo villaggio?» domandai incredulo. Che Taro divenisse un giorno capo villaggio era la notizia più incredibile del mio piccolo mondo. Come e quanto avrebbe fatto pagare ai suoi aguzzini le angherie dell’infanzia?
Rimasi a fissare i legnetti a bocca aperta. Tuttavia non avevo più dubbi: sapevo leggere il futuro. Non sapevo ancora bene come ci riuscissi, ma potevo farlo e quindi non avrei avuto difficoltà a scoprire cosa aveva in serbo per me il destino, ora che avevo fatto quella incredibile scoperta.
Così, dopo aver preso un lungo respiro, lanciai i rametti una terza volta. Attesi qualche istante, ma alla fine mi decisi e guardai… Quello che vidi mi riempì gli occhi di lacrime anche se non saprei dire se erano lacrime di gioia o di dolore.
Quella sera rincasai al tramonto. Subito mia madre e mio fratello maggiore notarono il mio stato d’animo afflitto e pensieroso. Credendo che qualche ragazzo del paese se la fosse presa con me iniziarono a interrogarmi, ma io tacevo in modo ostinato; del resto, cosa avrei potuto rispondere loro?
Mangiai in silenzio. Avvertivo su di me gli sguardi dei miei nove fratelli, di mio padre e di mia madre. Doveva esser ben strano per loro non udire le mie continue domande sulla giornata di lavoro nei campi.
Mi coricai che il sole ancora indugiava all’orizzonte. Un paio di volte, prima che la luna fossa salita oltre le cime delle colline, mio fratello venne a domandarmi di nuovo cosa mi fosse accaduto, ma non ottenne risposta.
Ero immerso nelle mie meditazioni e ponderavo decisioni importanti. Passai la notte sveglio a ripensare a quei legnetti e a ciò che mi avevano rivelato. Neppure per un istante mi sfiorò la mente il dubbio che le mie non fossero altro che le fantasie di un ragazzino annoiato. Ero certo della mia dote, ne ero tanto sicuro quanto spaventato e per questo sentivo di dovermi comportare da uomo e non da fanciullo.
Così il gallo non aveva ancora cantato quando io, fagotto in spalla, lasciai la casa paterna e il villaggio natio. La direzione? Era stata indicata nella mia mente, da una forza superiore, fin dal momento in cui avevo lanciato i legnetti la prima volta. O almeno così mi piace ricordare per spiegare a me stesso la decisione che presi quella mattina.
Mi fermai un istante a salutare Neko, gli lasciai un dolcetto di riso e gli feci qualche carezza dietro le orecchie spelacchiate, a cui lui rispose con fusa sonore e generose. Indugiai perfino di fronte alla porta di Taro, gli donai un mio balocco, un cavallino di legno, adagiandolo di fronte all’uscio. Poi, senza più voltarmi, superai il ponte che scavalcava il torrente, mi immersi nel folto del querceto e cercai il vecchio sentiero che conduceva al villaggio che sorgeva nella valle. L’uomo lo avrei trovato lì, non ci sarebbe stato bisogno che venisse lui a cercarmi.
Impiegai due giorni di buon cammino per arrivare al villaggio di Nakaniwa. Non avevo mai camminato così a lungo in vita mia e avevo perfino dormito sotto gli alberi, con la mia giacca invernale