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La ragazza della neve
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E-book396 pagine6 ore

La ragazza della neve

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Info su questo ebook

Per mesi tra i bestseller del New York Times

Noa ha sedici anni ed è stata cacciata di casa quando i genitori hanno scoperto che è rimasta incinta dopo una notte passata con un soldato nazista. Rifugiatasi in una struttura per ragazze madri, viene però costretta a rinunciare al figlio appena nato. Sola e senza mezzi trova ospitalità in una piccola stazione ferroviaria, dove lavora come inserviente per guadagnarsi da vivere. Un giorno Noa scopre un carro merci dove sono stipate decine di bambini ebrei destinati a un campo di concentramento e non può fare a meno di ricordare suo figlio. È un attimo che cambierà il corso della sua vita: senza pensare alle conseguenze di quel gesto, prende uno dei neonati e fugge nella notte fredda. Dopo ore di cammino in mezzo ai boschi Noa e il piccolo, stremati, vengono accolti in un circo tedesco, ma potranno rimanere a una condizione: Noa dovrà imparare a volteggiare sul trapezio, sotto la guida della misteriosa Astrid. In alto, sopra la folla, Noa e Astrid dovranno imparare a fidarsi l’una dell’altra, a costo della loro stessa vita.

Per settimane tra i bestseller del New York Times
Pubblicato in 12 Paesi

Una storia travolgente di amicizia, coraggio e cambiamento sullo sfondo dell’occupazione nazista

«La prosa di Pam Jenoff è evocativa e coinvolgente…»
The Globe and Mail

«Un meraviglioso tributo allo spirito umano e al coraggio che vince la disperazione…»
Pam Jenoff
Nata nel Maryland e cresciuta nei dintorni di Philadelphia, ha frequentato la George Washington University a Washington. Dopo un’esperienza al Pentagono, è stata trasferita al Dipartimento di Stato e poi assegnata al Consolato degli USA a Cracovia, in Polonia. Durante questo periodo ha intrecciato strette relazioni con la comunità ebraica polacca e ha approfondito le sue conoscenze sull’Olocausto. È autrice di numerosi libri tra cui The Kommandant’s Girl, bestseller internazionale. Vive vicino a Philadelphia con il marito e tre figli.
LinguaItaliano
Data di uscita12 lug 2017
ISBN9788822712714
La ragazza della neve
Autore

Pam Jenoff

Laureata in storia e in giurisprudenza, nonché specializzata in affari internazionali, è stata tra le altre cose assistente personale del Ministro della Difesa americano al Pentagono. Attualmente vive a Philadelphia, dove oltre a scrivere lavora come procuratore legale.

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    Anteprima del libro

    La ragazza della neve - Pam Jenoff

    1

    Noa

    Germania, 1944

    Il suono arriva piano come il ronzio delle api che una volta avevano inseguito papà per tutta la fattoria e lo avevano costretto a trascorrere una settimana a letto avvolto in bende.

    Ripongo lo spazzolone con cui stavo strofinando il pavimento, un tempo elegante. Il marmo è ormai scheggiato dai tacchi degli stivali e segnato da linee sottili di sporcizia e cenere che non verranno mai via. Seguendo la direzione da cui proviene il suono, attraverso la stazione. Il cartello annuncia in grossi caratteri neri BAHNHOF BENSHEIM. Un nome altisonante per quella che in realtà è solo una sala d’attesa con due bagni, una biglietteria e un banchetto di wurstel che è aperto quando c’è carne a sufficienza e il clima non è pessimo. Mi piego a raccogliere una moneta ai piedi di una delle panche e me la metto in tasca. Mi affascinano le cose che la gente dimentica o abbandona.

    All’esterno, il mio respiro si libra in nuvolette nella fredda notte di febbraio. Il cielo è un collage d’avorio e di grigio e minaccia una nuova nevicata. La stazione si trova nel fondo di una valle, circondata su tre lati da rigogliose colline di pini, le cui cime appuntite si ergono sopra ai rami ricoperti di neve. L’aria odora vagamente di bruciato. Prima della guerra, Bensheim era solo una piccola fermata in cui la maggior parte dei viaggiatori transitava senza accorgersene nemmeno. Ma i tedeschi sanno trovare un modo per utilizzare qualsiasi cosa, a quanto pare, e questo posto è ottimo per parcheggiare treni e spegnere i motori durante la notte.

    Sono qui da quasi quattro mesi. Non era male in autunno, ero felice di aver trovato un rifugio dopo essere stata buttata fuori senza troppi complimenti con cibo sufficiente per due giorni, tre al massimo, tirando la cinghia. Dopo che i miei genitori avevano scoperto che ero incinta mi avevano cacciata, ero finita in un istituto per ragazze sperduto in mezzo al nulla, lontano da tutto, in nome della discrezione. Avrebbero potuto scaricarmi a Magonza, o almeno nella città più vicina. Invece avevano semplicemente aperto la porta, lasciandomi a piedi. Mi ero diretta verso la stazione ferroviaria prima di realizzare che non avevo nessun posto dove andare. Più di una volta, durante quei mesi lontana da casa, avevo pensato di ritornare, implorando perdono. Non che fossi troppo orgogliosa. Mi sarei messa in ginocchio senza problemi se avessi pensato che sarebbe servito a qualcosa. Ma il giorno che mio padre mi aveva buttato fuori di casa la furia nei suoi occhi mi aveva fatto capire che il suo cuore era chiuso per sempre. Non avrei potuto sopportare un secondo rifiuto.

    Per un colpo di fortuna, però, la stazione aveva bisogno di qualcuno che facesse le pulizie. Ora faccio il giro dietro all’edificio, verso il piccolo ripostiglio dove dormo su un materasso per terra. Il vestito pre-maman è lo stesso che indossavo il giorno in cui me ne sono andata di casa, con la differenza che ora la parte davanti ricade floscia. Non sarà sempre così, è ovvio. Troverò un lavoro vero – uno che paghi un po’ di più di un tozzo di pane non-proprio-stantio – e una casa degna di questo nome.

    Vedo il mio riflesso nella finestra della stazione ferroviaria. Perfetta per non dare nell’occhio: capelli slavati che schiariscono con il sole estivo, occhi azzurri. Un tempo il mio aspetto ordinario mi seccava; qui è un vantaggio. Gli altri due impiegati della stazione, la ragazza della biglietteria e l’uomo del chiosco, arrivano, lavorano e tornano a casa la sera. A stento mi rivolgono la parola. I viaggiatori passano per la stazione con l’edizione giornaliera del «Der Stürmer» ficcata sotto al braccio, spengono le sigarette a terra, se ne infischiano di chi sono e da dove vengo. Anche se mi sento sola, ho bisogno che tutto rimanga esattamente dov’è. Non posso rispondere a domande sul mio passato.

    No, nessuno mi nota. Io invece li vedo, i soldati in congedo e le madri e le mogli che vengono ogni giorno a scandagliare le banchine, nella speranza di incontrare un figlio o un marito, e alla fine se ne vanno a testa bassa. Si riconosce subito chi sta provando a tagliare la corda. Cercano di sembrare normali, come se stessero solo partendo per una vacanza. Ma hanno vestiti troppo stretti, perché sotto sono troppo infagottati, le loro borse sono così colme che rischiano di scoppiare da un momento all’altro. Evitano di incrociare lo sguardo degli altri, ma si affrettano spingendo e trascinando i figli con volti pallidi e tesi.

    Il ronzio si fa più forte e più acuto. Proviene dal treno che ho sentito stridere prima, ora parcheggiato nel binario più lontano. Mi incammino in quella direzione, passando accanto alle casse di carbone vuote. La maggior parte del carbone è stata portata via da tempo per le truppe che combattono a est. Forse qualcuno ha lasciato acceso un motore o un altro macchinario. Non voglio andarci di mezzo e rischiare di perdere il lavoro. Per quanto sia misera la mia situazione, so che potrebbe andare peggio – sono fortunata a essere qui.

    Fortunata. Me lo sentii dire per la prima volta da un’anziana tedesca che condivise con me qualche aringa sul bus per l’Aia, dopo aver lasciato i miei genitori. «Tu sei un’ariana perfetta», mi disse con la bocca piena, masticando con gusto, mentre l’autobus avanzava a fatica tra deviazioni e buche.

    Pensai che scherzasse; avevo capelli biondi lisci e un piccolo naso a patata. Il mio corpo era robusto – atletico, finché non aveva iniziato a rammollirsi e arrotondarsi. A parte quando il tedesco mi sussurrava parole dolci all’orecchio di notte, mi ero sempre considerata banale, trascurabile. E ora quella donna mi diceva che ero perfetta. Mi ritrovai a confidarmi con lei, a parlare della gravidanza e dei miei che mi avevano buttato fuori di casa. Mi disse di andare a Wiesbaden, e scrisse su un biglietto che stavo portando in grembo un figlio del Reich. Lo presi e mi misi in cammino. Non mi chiesi se fosse pericoloso andare in Germania, non pensai di rifiutare. Qualcuno voleva bambini come quello che cresceva dentro di me. I miei genitori avrebbero preferito morire piuttosto che accettare l’aiuto dei tedeschi. Ma la donna disse che lì sarei stata al sicuro. I tedeschi mi avrebbero protetto. Potevano poi essere davvero così cattivi? Non avevo nessun altro posto dove andare.

    Ero fortunata, mi dissero ancora quando raggiunsi l’istituto. Anche se ero olandese, fui considerata di razza ariana e mio figlio – che altrove sarebbe stato additato come un uneheliches Kind, concepito fuori dal matrimonio – poteva essere accolto nel progetto Lebensborn e cresciuto da una buona famiglia tedesca. Passai quasi sei mesi lì, leggendo e dando una mano nelle faccende di casa finché il mio ventre non divenne troppo ingombrante. La struttura, anche se non meravigliosa, era moderna e pulita, progettata per far nascere bambini in buona salute per il Reich. Feci la conoscenza di una ragazza vigorosa che si chiamava Eva ed era di qualche mese avanti a me. Una notte si svegliò ricoperta di sangue e la portarono all’ospedale. Non l’ho mai più rivista. Da quel momento in poi, badai agli affari miei. Nessuna di noi sarebbe rimasta in quel posto a lungo.

    Il mio tempo scadde una fredda mattina di ottobre quando alzandomi dal tavolo della colazione mi si ruppero le acque. Le diciotto ore successive furono un susseguirsi di dolori terribili, scandite da ordini secchi, senza una sola parola di incoraggiamento o di conforto. Alla fine il bimbo venne fuori con un vagito e il mio corpo svuotato fu percorso da un fremito, come una macchina che si spegne.

    «Che succede?», domandai. Non mi era permesso vedere il bambino. Ma lottai contro il dolore per tirarmi su a sedere. «Qualcosa non va?»

    «Va tutto bene», mi assicurò il dottore. «Il bambino è sano». La sua voce però era tesa, al di là delle lenzuola drappeggiate color crema vedevo la sua espressione agitata dietro le spesse lenti degli occhiali. Mi piegai in avanti e un paio di penetranti occhi neri come il carbone incontrarono i miei.

    Quegli occhi che non erano ariani.

    Compresi allora il turbamento del dottore. Il bambino non sembrava affatto di razza pura. Qualche gene nascosto, tramandato nella mia famiglia o in quella del tedesco, gli aveva dato occhi scuri e pelle olivastra. Non sarebbe stato accettato nel progetto Lebensborn.

    Il bimbo lanciò un grido, lancinante e stridulo, come se avesse compreso il suo fato e stesse protestando. Cercai di stringerlo nonostante il dolore. «Voglio tenerlo».

    Il dottore e l’infermiera, che stavano compilando un qualche modulo contenente ogni singolo dettaglio riguardante il bambino, si scambiarono uno sguardo inquieto. «Non lo permettiamo, o meglio, il progetto Lebensborn non lo permette».

    Con un grande sforzo mi tirai a sedere. «Allora lo prendo e me ne vado».

    Stavo bluffando; non avevo nessun posto dove andare. Quando ero arrivata avevo firmato dei documenti rinunciando a tutti miei diritti per rimanere lì. C’erano guardie in tutto l’ospedale… Riuscivo a malapena a camminare. «Vi prego, lasciatemelo tenere per un secondo».

    «Nein». L’infermiera scosse la testa con enfasi, scivolando fuori dalla stanza mentre io continuavo a implorare.

    Quando se ne andò, qualcosa nella mia voce costrinse il dottore a cedere. «Solo per un momento», disse, porgendomi il bambino con riluttanza. Fissai il volto paonazzo, inalai il delizioso profumo della sua testa appuntita da tutte le ore di fatica e lotta per nascere e mi concentrai sui suoi occhi. Quegli occhi così belli. Com’era possibile che una creatura così perfetta non corrispondesse al loro ideale?

    Era mio, però. Un’ondata d’amore montò e si infranse su di me. Non avevo voluto quel bambino, ma in quel momento ogni rimorso fu spazzato via, sostituito dal desiderio. Panico e sollievo mi travolsero. Non lo avrebbero più voluto adesso. Avrei dovuto portarlo a casa, non avevo altra scelta. Lo avrei tenuto, avrei trovato un modo…

    Poi l’infermiera tornò e me lo strappò dalle braccia.

    «No, aspetti», protestai. E mentre lottavo per prendere il mio bimbo, qualcosa di aguzzo mi bucò un braccio. La mia testa si fece leggera. Delle mani mi spinsero indietro, sul letto. Persi i sensi, con l’immagine di quegli occhi scuri impressa nella memoria.

    Mi svegliai da sola in quella sala parto fredda e sterile, senza mio figlio, senza un marito, una madre, senza neanche un’infermiera, come un contenitore vuoto che nessuno voleva più. Più tardi mi dissero che l’avevano mandato da una buona famiglia. Non avevo modo di sapere se mi stessero dicendo la verità.

    Deglutisco a fatica, ho la gola secca. Scaccio via quei ricordi. Poi faccio un passo fuori dalla stazione, nell’aria fredda e tagliente. Per fortuna la Schutzpolizei des Reiches – quei ficcanaso della polizia di Stato che fanno la ronda nella stazione – non si vede da nessuna parte. Molto probabilmente stanno combattendo il freddo nei loro furgoni con l’aiuto di una fiaschetta. Guardo attentamente il treno, cercando di individuare da dove provenga il suono. L’ultimo vagone. Non è il motore. No, il rumore viene da qualcosa dentro al treno. Qualcosa di vivo.

    Mi fermo. Mi sono ripromessa di non avvicinarmi mai ai treni, di guardare da un’altra parte quando mi passano accanto – perché trasportano ebrei.

    Vivevo ancora a casa, nel nostro villaggio, la prima volta che vidi il mesto raduno di uomini, donne e bambini nella piazza del mercato. Corsi da mio padre, piangendo. Lui era un patriota, pronto a farsi avanti per ogni giusta causa – perché non questa? «È terribile», ammise attraverso la barba ingrigita, macchiata di giallo per il fumo della pipa. Mi asciugò le guance rigate di lacrime e mi diede una vaga spiegazione sulla complessità delle cose e sui vari modi per gestirle. Ma per colpa di quei modi la mia compagna di classe Steffi Klein era costretta a marciare verso la stazione ferroviaria insieme al fratellino e i genitori, con lo stesso abito che aveva al mio compleanno mesi prima.

    Il suono continua a crescere, quasi un lamento ora, come un animale ferito tra i cespugli. Studio attentamente la banchina vuota e mi guardo intorno. Mi chiedo se anche la polizia riesca a sentirlo. Mi fermo incerta al margine della banchina, sporgendomi sui desolati binari che mi separano dal vagone. Dovrei semplicemente andarmene. Tieni gli occhi a terra: è la lezione che ho imparato in questi anni di guerra. Non ottieni mai niente di buono facendoti gli affari degli altri. Se mi beccano a ficcare il naso in una zona della stazione dove non dovrei essere, sarò licenziata, rimarrò senza un tetto sulla testa, o forse finirò persino in galera. Ma non sono mai stata brava a badare ai fatti miei. Sei troppo curiosa, mi diceva mia madre quando ero piccola. Ho sempre avuto la necessità di sapere. Avanzo di un altro passo, incapace di ignorare il suono che, ora che sono più vicina, somiglia proprio a un pianto.

    Incapace di ignorare i piccoli piedi che sono ora visibili attraverso la porta aperta del vagone.

    Spalanco la porta. «Oh!». La mia voce riecheggia pericolosamente nel buio, come se volesse farmi scoprire. Ci sono bimbi, così tanti piccoli corpi che è impossibile contarli, distesi sul pavimento ricoperto di fieno del vagone, ammassati stretti uno sopra all’altro. Molti non si muovono e non so dire se siano morti o addormentati. In mezzo a quell’immobilità, pianti pietosi si mescolano a rantoli e gemiti come belati di agnelli.

    Mi aggrappo alla fiancata del vagone, lottando per respirare contro il muro di urina, feci e vomito che mi assale. Da quando sono qui, mi sono anestetizzata, vedo il mondo come se fosse un’immagine sfocata, un brutto sogno o un film che non può assolutamente essere reale. Questo è diverso, però. Così tanti bambini, tutti soli, strappati alle braccia delle loro madri. Sento un bruciore nel ventre.

    Rimango inerme di fronte al vagone, pietrificata dallo shock. Da dove vengono questi bambini? Devono essere appena arrivati, non possono certo sopravvivere a lungo con questa temperatura glaciale.

    Da mesi vedo treni andare verso est, carichi di persone al posto di bestiame e sacchi di grano. Nonostante l’orrendo modo in cui venivano trasportati, mi ero detta che erano diretti in qualche campo o villaggio. Forse li stavano semplicemente radunando tutti in un unico luogo. Mi ero formata un’idea confusa nella testa, mi ero immaginata un posto con delle casette, probabilmente, o delle tende, come il campeggio sul mare a sud del mio villaggio in Olanda per chi non poteva permettersi una vera vacanza o preferiva qualcosa di più rustico. Ripopolamento. Ma in questi bambini morti e moribondi vedo la menzogna.

    Do un’occhiata alle mie spalle. I treni che trasportano persone sono sempre sorvegliati. Ma qui non c’è nessuno – semplicemente perché non c’è nessuna possibilità che i piccoli fuggano.

    A poca distanza da me, è disteso un bimbo con la pelle grigia e le labbra blu. Cerco di ripulirgli le ciglia dal sottile strato di ghiaccio ma il bambino è già morto congelato. Ritiro la mano, scrutando gli altri. In gran parte sono nudi o avvolti solo da una coperta o un telo, spogliati di qualsiasi cosa che potesse proteggerli dal freddo. Ma al centro della carrozza due perfette scarpine di lana rosa pallido se ne stanno rigide in aria, indosso a un bambino che per il resto è nudo. Qualcuno ha avuto a cuore quel bimbo tanto da fargli delle scarpine a maglia, punto dopo punto. Un singhiozzo mi sfugge dalle labbra.

    Una testa svetta tra le altre. Paglia e feci ricoprono il faccino a forma di cuore. Il bambino non sembra sofferente e neppure turbato, ma ha un’espressione perplessa sul volto, come a dire Che ci faccio qui?. Ha qualcosa di familiare: occhi scuri come il carbone, mi attraversano da parte a parte, proprio come il giorno in cui avevo partorito. Il mio cuore si gonfia.

    La sua faccia si contorce improvvisamente in una smorfia e il bimbo strilla. Allungo le mani, mi sforzo di raggiungerlo in mezzo agli altri prima che qualcuno possa sentirlo. Il piccolo è troppo lontano, non riesco a prenderlo, urla ancora di più. Cerco di arrampicarmi nella carrozza, ma i bambini sono talmente stipati che rinuncio per paura di calpestarli. Disperatamente, tendo le braccia ancora una volta. Sollevo il bambino che piange, devo farlo smettere. La sua pelle è ghiacciata quando lo tiro fuori dalla carrozza, nudo eccetto che per un panno sporco a mo’ di pannolino.

    Il bimbo è tra le mie braccia adesso, è solo la seconda volta in vita mia che stringo una creaturina così piccola, eppure sembra calmarsi nell’incavo del mio gomito. Potrebbe veramente essere mio figlio, tornato a me per volere del fato o per caso? I suoi occhi si chiudono e la sua testa crolla in avanti. Non riesco a capire se stia dormendo o morendo. Tenendolo stretto, mi allontano dal treno. Poi mi volto indietro: se ci sono ancora bambini vivi, sono la loro unica speranza. Dovrei prenderne altri.

    Ma il bimbo che stringo piange di nuovo, il suono stridulo fende il silenzio. Gli copro la bocca e rientro di corsa nella stazione.

    Vado verso il ripostiglio in cui dormo. Mi fermo sulla porta, guardandomi intorno disperata. Non ho niente. Cambio idea ed entro nel bagno delle donne. Dopo il vagone, la solita puzza di umido ora si nota a malapena. Al lavandino, detergo il viso del piccolo incrostato di sporcizia con uno degli stracci che uso per fare le pulizie. Il bimbo sta riprendendo calore, ma ha due dita dei piedi blu. Le perderà? Da dove arriva?

    Apro il pannolino sporco. È un maschio. Proprio come il mio. Da vicino ora riesco a vedere che il suo piccolo pene è diverso da quello del tedesco, o da quello del ragazzo che me l’aveva mostrato a scuola quando avevo sette anni. Circonciso. Steffi aveva usato questa parola una volta, spiegandomi che era quello che avevano fatto al fratellino. Il bambino è ebreo. Non è il mio.

    Faccio un passo indietro quando la realtà mi investe, la verità che ho sempre saputo ma rifiutavo di accettare: non posso tenere un bambino ebreo, anzi, non posso tenere proprio nessun bambino, da sola e con i turni di pulizia della stazione di dodici ore al giorno. Cosa mi è saltato in mente?

    Il bimbo comincia a rotolare di lato sul ripiano del lavandino dove lo avevo lasciato. Salto in avanti, acchiappandolo prima che cada sul pavimento. Non sono pratica di bambini e ora lo tengo a una certa distanza, come un animale pericoloso. Ma lui si avvicina, strofinando il naso contro il mio collo. Preparo maldestramente un pannolino con l’altro straccio, poi porto il bambino fuori dal bagno e dalla stazione, dirigendomi di nuovo verso il vagone. Devo rimetterlo nel treno, come se nulla di tutto questo fosse accaduto.

    Sul bordo della banchina, mi blocco. Una delle guardie sta camminando tra i binari, non posso raggiungere il treno. Mi guardo disperatamente intorno in ogni direzione. Avvisto un furgone per la consegna del latte, il retro è stipato da cima a fondo di grandi barili. Di impulso mi muovo in direzione del furgone. Infilo il bimbo in un barile vuoto, cerco di non pensare a quanto dev’essere ghiacciato il metallo a contatto con la pelle completamente nuda. Il piccolo non emette neppure un suono ma mi fissa impotente.

    Mi nascondo dietro a una panchina quando la porta del furgone si chiude con un gran fragore. Tra un attimo partirà, portando il piccolo con sé.

    E nessuno saprà quello che ho fatto.

    2

    Astrid

    Germania, 1942 – quattordici mesi prima

    Sono ferma ai margini dell’arido terreno che un tempo era il nostro campo invernale. Nonostante non ci siano stati combattimenti qui, la valle sembra un campo di battaglia, carri distrutti e rottami metallici disseminati ovunque. Un vento freddo soffia attraverso le finestre degli alloggi deserti, sollevando e facendo ricadere le tende di stoffa sbrindellate. Quasi tutte le finestre sono in frantumi, mi sforzo di non pensare a cosa le abbia rotte. È stato il tempo, o qualcuno le ha sfondate durante una lotta o in un impeto di rabbia? Le porte cigolanti sono aperte, le proprietà sono in rovina, sicuramente non sarebbe mai accaduto se mamma fosse stata qui. C’è una lieve traccia di fumo nell’aria, come se qualcuno avesse bruciato della legna di recente. In lontananza, un corvo lancia un grido di protesta.

    Mi stringo nel cappotto, mi allontano dallo sfacelo e mi incammino verso la villa che un tempo era la mia casa. I terreni sono identici a quando ero bambina, la collina si staglia proprio di fronte alla porta di ingresso, di modo che con le piogge di primavera spesso l’atrio veniva quasi allagato. Ma il giardino in cui ogni primavera mia madre si dedicava con amore alle ortensie è secco e ricoperto di spazzatura. Vedo i miei fratelli fare a botte in cortile prima di essere riportati all’ordine e costretti ad allenarsi. Si beccavano aspri rimproveri: non dovevano infatti sprecare energie né correre il rischio di farsi male, perché un infortunio avrebbe potuto compromettere lo spettacolo. Da bambini ci piaceva dormire all’aperto sotto il cielo d’estate, con le dita intrecciate, quel cielo che era una calotta di stelle sopra di noi.

    Mi fermo. Un’enorme bandiera rossa con una svastica nera sventola sopra la porta. Qualcuno, senza dubbio un ufficiale di alto grado delle SS, si è trasferito in quella che un tempo era casa nostra. Serro i pugni, non sopporto l’idea che usino la nostra biancheria e le nostre stoviglie, che insudicino il meraviglioso divano di mamma e i tappeti con i loro stivali. Poi distolgo lo sguardo. Non è certo per i beni materiali che mi affliggo.

    Guardo attraverso le finestre della villa, cercando invano un volto conosciuto. So che la mia famiglia se ne è andata, poiché la mia ultima lettera è tornata indietro senza essere stata consegnata. Sono venuta lo stesso, però. Una parte di me immaginava di trovare tutto immutato, o almeno sperava di scovare qualche indizio su dove fossero andati. Ma il vento soffia indisturbato su questi terreni desolati. Non è rimasto più nulla.

    Mi rendo conto che non dovrei essere qui nemmeno io. L’ansia soppianta velocemente la tristezza. Non posso permettermi di indugiare ancora, rischiando di essere vista da chi vive qui ora, chiunque sia. Come non posso permettermi di affrontare domande imbarazzanti, tipo chi sono e cosa ci faccio qui. I miei occhi sorvolano la collina fino al terreno adiacente, dove sorgeva il campo invernale del Circo Neuhoff. La loro mastodontica villa di ardesia si trova dalla parte opposta alla nostra: due sentinelle a guardia della valle di Rheinessen, nel mezzo.

    Poco fa, mentre il treno si avvicinava a Darmstadt, ho visto una locandina del Circo Neuhoff. All’inizio sono stata presa dal solito fastidio verso quel nome. Klemt e Neuhoff erano circhi rivali, siamo stati in competizione per anni, cercando di superarci reciprocamente. Ma il circo è pur sempre una famiglia, per quanto problematica. I nostri due circhi erano cresciuti insieme, fianco a fianco, come fratelli in stanze separate. Siamo stati compagni di viaggio e rivali. Fuori stagione, però, noi bambini frequentavamo la stessa scuola e giocavamo insieme, lanciandoci in slitta giù per la collina e ogni tanto condividendo gli stessi pasti. Una volta, quando Herr Neuhoff si fece male alla schiena dopo una brutta caduta ed era quindi impossibilitato a dirigere lo spettacolo, mandammo mio fratello Jules a dare una mano.

    Non vedo Herr Neuhoff da anni, però. E lui è cristiano, quindi tutto è cambiato. Il suo circo prospera mentre il nostro è scomparso. No, non posso aspettarmi l’aiuto di Herr Neuhoff, ma forse lui sa che ne è stato della mia famiglia.

    Quando raggiungo la proprietà dei Neuhoff, mi apre la porta una domestica che non riconosco. «Guten Abend», dico, «Ist Herr Neuhoff hier?». Tutt’a un tratto mi vergogno, mi imbarazza presentarmi senza invito come una mendicante. «Sono Ingrid Klemt». Uso il mio nome da nubile. Dall’espressione della donna capisco che sa chi sono, ma non saprei dire se la nostra conoscenza risalga ai tempi del circo o se mi abbia incontrata da qualche altra parte. La mia fuga, anni fa, è stata leggendaria. La voce si è sparsa per chilometri.

    Non abbandoni tutto per sposare un ufficiale tedesco come ho fatto io – specialmente se sei ebrea.

    Erich venne per la prima volta al circo nella primavera del 1934. L’avevo notato da dietro il sipario – è un falso mito che non si riesca a vedere il pubblico per colpa delle luci. Mi aveva colpito non soltanto per l’uniforme ma perché sedeva da solo, senza moglie o figli. Non ero una ragazzina piena di corteggiatori, ero ormai una donna che si avvicinava ai ventinove anni. Avevo sempre da fare con il circo ed ero costantemente in viaggio, pensavo di aver perso ormai la possibilità di sposarmi. Erich era incredibilmente bello, però, con un mento forte guastato solo da una fossetta nel mezzo, e lineamenti decisi addolciti dagli occhi più blu che avessi mai visto. Venne una seconda volta e delle rose rosa spuntarono davanti al mio camerino. Mi fece la corte per tutta la primavera, e ogni fine settimana si sobbarcò il lungo viaggio da Berlino fino alla città in cui di volta in volta ci esibivamo per passare un po’ di tempo con me tra uno spettacolo e l’altro e la domenica.

    Già allora avremmo dovuto sapere che la nostra relazione non aveva un futuro. Sebbene Hitler fosse salito al potere solo un anno prima, il Reich aveva già manifestato tutto il suo odio nei confronti degli ebrei. Ma negli occhi di Erich c’erano una passione e un’intensità che cancellavano ogni altra cosa. Quando mi chiese di sposarlo, non ebbi dubbi. Non pensavamo alle difficoltà che si profilavano all’orizzonte e avrebbero reso impossibile il nostro futuro insieme – guardavamo dall’altra parte, semplicemente.

    Mio padre non si oppose alla mia decisione di andarmene con Erich. Mi aspettavo che mi rimproverasse perché non sposavo un ebreo, ma quando gli comunicai la notizia si limitò a guardarmi con un sorriso triste. «Ho sempre pensato che avresti portato avanti tu lo spettacolo dopo di me», disse. Dietro agli occhiali i suoi tristi occhi color cioccolato erano lo specchio dei miei. Rimasi sorpresa. Avevo tre fratelli più grandi, quattro se si contava Isadore, che era stato ucciso a Verdun; non c’era motivo di pensare che papà potesse avere dei progetti su di me. «Soprattutto visto che Jules sta mettendo su uno show tutto suo a Nizza. E i gemelli…». Papà scosse la testa mestamente. Mathias e Markus erano forti e aggraziati, il pubblico rimaneva a bocca aperta di fronte alle loro prodigiose performance acrobatiche. Le loro capacità erano puramente fisiche, però. «Eri tu, liebchen, quella che aveva il talento per gli affari e l’istinto dello spettacolo. Ma non ti terrò imprigionata come un animale in gabbia».

    Non sapevo che avesse questa opinione di me. Lo scoprivo solo ora che lo stavo abbandonando. Avrei potuto cambiare idea e rimanere. Ma Erich e la vita che pensavo di aver sempre voluto mi chiamavano. Così partii per Berlino, portando con me la benedizione di papà.

    Forse, se non me ne fossi andata, la mia famiglia sarebbe ancora qui.

    La domestica mi conduce in un salotto che, sebbene maestoso, mostra i segni del tempo. I tappeti sono un po’ sfilacciati e ci sono spazi vuoti nella vetrina dell’argenteria, come se i pezzi più grandi fossero stati presi o venduti. L’odore stantio di fumo di sigaro si mescola a quello di cera al limone. Sbircio fuori dalla finestra, sforzandomi di vedere la tenuta della mia famiglia attraverso la nebbia che si è posata sulla valle. Mi chiedo chi ci viva ora e che cosa veda quando guarda giù verso il deserto desolato del campo invernale.

    Dopo il matrimonio – una piccola cerimonia tenuta da un giudice di pace – mi trasferii nel grande appartamento di Erich con vista sul Tiergarten. Trascorsi le giornate passeggiando per negozi sulla Bergmannstrasse, comprando quadri dai colori vividi, tappeti e cuscini di seta ricamata, piccole cose che avrebbero trasformato il suo appartamento spartano nella nostra casa. La scelta più impegnativa che dovevamo prendere era decidere in quale caffè andare per la colazione della domenica.

    Ero a Berlino da quasi cinque anni quando scoppiò la guerra. Erich ricevette una promozione, non sapevo esattamente quale fosse il suo nuovo ruolo ma aveva a che fare con le munizioni. Le sue giornate di lavoro si allungarono. Ritornava a casa tardi e di malumore, oppure inebriato dall’eccitazione per cose che non poteva condividere con me. «Sarà tutto così diverso quando il Reich trionferà, credimi». Ma io non volevo. Mi piaceva la nostra vita. Per come la vedevo io, non c’era proprio nulla da cambiare.

    Le cose non tornarono più come prima, però. Al contrario, peggiorarono rapidamente. Dicevano cose terribili degli ebrei alla radio e sui giornali. I negozi ebraici furono distrutti e sulle loro porte apparvero delle scritte ingiuriose. «La mia famiglia…». A colazione, nel nostro appartamento berlinese, condividevo con Erich le mie tribolazioni dopo aver visto le finestre distrutte di una macelleria ebraica sull’Oranienburger Strasse. Ero la moglie di un ufficiale tedesco. Ero al sicuro. Ma la mia famiglia?

    «Nessuno farà loro del male, Inna», mi calmò, massaggiandomi le spalle.

    «Se sta succedendo qui», incalzai, «a Darmstadt la situazione non può essere certo migliore».

    Mi cinse tra le braccia. «Shh. C’è stato solo qualche atto di vandalismo in città. Una dimostrazione. Guardati intorno. Va tutto bene». L’appartamento era pervaso dall’aroma di caffè. Una brocca di succo d’arancia era appoggiata sul tavolo. Di certo le cose non potevano andare poi tanto male, nemmeno altrove, no? Posai la testa sulle ampie spalle di Erich, il mio rifugio, inalando il calore familiare del suo collo. «Il circo della famiglia Klemt è conosciuto a livello internazionale», mi rassicurò. Aveva ragione. L’arte circense si tramandava da generazioni nella nostra famiglia, le sue radici risalivano a un antico spettacolo equestre in Prussia – il mio bis-bisnonno, dicevano, aveva lasciato i suoi stalloni lipizzani a Vienna per fondare il nostro primo circo. E la generazione successiva e quella dopo ancora avevano seguito le sue orme, portando avanti la bizzarra attività di famiglia.

    Erich proseguì: «È il motivo per cui quel giorno mi sono fermato a vedere lo spettacolo mentre tornavo a Monaco. E poi ti ho vista…». Mi fece sedere sulle sue gambe.

    Alzai una mano per fermarlo. Di solito amavo parlare con lui degli inizi della nostra storia, ma quel giorno ero troppo angosciata per ascoltarlo. «Dovrei andare a controllare che stiano bene».

    «Come farai a trovarli adesso che sono in tour?», chiese, e una nota di impazienza strisciò nella sua voce. Era vero; eravamo nel cuore dell’estate e la mia famiglia poteva essere praticamente ovunque in Germania o in Francia. «E cosa potresti fare tu per aiutarli? No, loro vorrebbero che restassi qui. Al sicuro. Con me». Mi pizzicò il naso per gioco.

    Aveva ragione, mi dissi, acquietata dalle sue labbra sul mio collo. Ma l’angoscia mi opprimeva ancora.

    Poi un giorno è arrivata la lettera. «Carissima Ingrid, abbiamo smantellato il circo…». Il tono di papà era diretto e concreto, non si

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