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Nonna marciana
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E-book275 pagine4 ore

Nonna marciana

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Info su questo ebook

Sono i ricordi il veicolo che permette ad Emilio di riassumere e ripercorrere la sua vita dall’infanzia all’adolescenza con alcuni accenni al presente. Non è un semplice rievocare, è un rivivere e quasi essere spettatori di taluni eventi tanto è evocativa la sua scrittura. Una scrittura che, specie nella parte conclusiva, emoziona e commuove.
Il nucleo centrale della storia è l’amore intimo e profondo tra il nipote e nonna Milia, un legame indissolubile in vita, una perdita atroce nella separazione. Una donna dal carattere temprato, rigido, abituata al duro lavoro dei campi e ad affrontare avversità, lutti e sofferenze, ma comunque amorevole,
dolce, affettuosa più nelle azioni che nelle parole o nei gesti.

Emilio Diedo, veneziano, ferrarese d’adozione, dottore in legge, è poeta, narratore e critico letterario. Vincitore assoluto per la letteratura tra le varie sezioni artistiche in concorso alla Biennale d’Arte Contemporanea “Città di Roma-Jubilæum 2000”. Nel 2007, al Premio di Poesia indetto da Club3 (gruppo editoriale San Paolo) è stato selezionato tra “i magnifici dieci” poi pubblicati nella stessa Rivista. Tra le sue pubblicazioni di poesia: Mea culpa, 1995; Fotoni, 1997; Le ebbrezze di Chronos, 1999; Sbarchi d’arche, 2001; La Fiamma sulla Croce, 2002; Agli angeli, 2007; Serie (di) Ko(s)miche, e-book 2013; Reale apparente. Giochi d’esistenza, libro-manifesto per una nuova metrica, 2013. Per la narrativa ha pubblicato: il racconto Farfalle d’autunno, 1996; il romanzo Lettera dal paradiso, 1997; la raccolta di racconti Stelle di terra, 2009; il romanzo Diario di chi?, 2017; la prosa teatrale Madama Etrom, 2006. È stato ideatore e organizzatore del premio letterario internazionale “San Maurelio”, al quale sono state assegnate varie medaglie dalle più alte cariche dello Stato.     
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2022
ISBN9788830672420
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    Nonna marciana - Emilio Diedo

    LQ.jpg

    Emilio Diedo

    Nonna marciana

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6590-3

    I edizione ottobre 2022

    Finito di stampare nel mese di ottobre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Nonna marciana

    A nonna Emilia, protagonista

    di queste ripercorse sequenze di vita,

    a mia madre Valeria

    e ai loro rispettivi consorti,

    nonno Giuseppe e papà Guglielmo,

    nonché all’effimera vita di zia Rosa,

    tutte persone scippate ai miei affetti

    e qui, in qualche modo, menzionate.

    D’altro canto, citando i vivi,

    una dedica è dovuta anche

    alle mie due figlie Elisa e Sofia,

    perché con la lettura di questi spezzoni

    del mio vissuto acquisiscano qualcosa in più

    per meglio comprendere me, loro padre.

    «Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora».

    (Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Preambolo, incipit)

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Ciak si gira

    Sporadici tuoni premonitori nelle prime ore pomeridiane di fine gennaio davano l’idea di quei crepuscoli che l’inverno talora desolatamente anticipa. In balia d’acque incazzate col mondo intero, tra stratosferici marosi di un’indicibile irruenza, il mercantile galleggiava scricchiolante in una serie di vertiginosi saliscendi da dritta a mancina e viceversa. In alcuni momenti, flettendo da prua a poppa, recuperando subito l’assetto per poi inclinarsi spaventosamente da poppa a prua, avrei giurato che lo scafo stesse per roteare sottosopra e finisse per spezzarsi.

    In cambusa, seduto su un barilotto tra botti e caratelli, inventariavo le oramai scarse provviste sul registro di bordo aperto e appoggiato a un’estremità della botte, accanto a un boccale da mezzo litro. Udii dalla plancia il richiamo agitato del nostromo, attempato timoniere: «Comandanteeee!». Mi avvisava della sopravvenuta tempesta, burrasca che già, dal colore del cielo e del mare iracondo, avevo previsto. Non per niente una mezz’oretta prima detti all’equipaggio disposizioni per mettere il natante e loro stessi in sicurezza. Raccomandai alla corvè di ammainare le vele. Operazione essenziale per l’imminente pericolo che correvamo. Disposi che gli uomini al servizio remiero fissassero i legni agli scalmi. Alla sentinella detti ordine d’otturare le feritoie. Comandai alla corvè il bloccaggio interno del boccaporto e, dopo di che, di ripararsi nel sottostante antilocale e di restare a disposizione con il restante equipaggio. Solo il timoniere doveva rimanere esposto per dirigere la nave sulla plancia di comando, con me.

    «Vengo. Arrivo!» risposi al disperato appello del nocchiere.

    Riemersi in plancia e mi affrettai ad affiancarlo per aiutarlo a domare l’inaudita resistenza opposta dal timone, che continuava a roteare, scarrocciandoci in maniera impressionante da una parte all’altra. Fintantoché il timoniere a gran fatica lottava per contenerne la foga cercando di non perdere definitivamente il controllo dell’imbarcazione estrassi dalla tracolla il cannocchiale. Verificai l’andamento del moto ondoso, potendo così stimare la gravità della situazione, ma soprattutto osservai se vi fosse a debita distanza la possibilità di un approdo d’emergenza. In quel preciso istante, mentre subimmo l’ennesimo scarto, che sembrò inabissarci tra l’implacabile, altalenante barriera dei marosi, mi sentii paurosamente sovrastare da una palla di cannone. Il boato dello sparo doveva essere stato assorbito dai tuoni della tempesta. Ne avvertii soltanto il fischio e lo spostamento d’aria nel momento in cui un’ombra scura mi s’avvicinò rapidissimamente. Una scia passò pochi centimetri sopra la mia testa. Se avessi avuto il tricorno sul capo anziché abbassato sulla schiena, trattenuto al collo dal soggolo, quel proiettile me lo avrebbe strappato di dosso, ad un soffio dal fracassarmi il cranio. Ma, soprattutto, se la galea non si fosse abbassata a causa dell’estemporanea, provvidenziale, immane forza della natura, avrei perduto altro che il copricapo: mi si sarebbe spappolato il cranio e d’improvviso tutto sarebbe ingloriosamente finito lì.

    «Tutto bene?» mi chiese il nostromo, dovendo avere visto ed immaginato lo spauracchio che avevo passato.

    «Sì, sì, tranquillo, per grazia di Dio tutto apposto!»

    Ancora con il tremore alle gambe per lo spavento, rimisi in posizione orizzontale il monocolo per cercare di capire da dove diavolo provenisse quella mortale minaccia. Così, mentre la nave oscillava sull’opposta fiancata, infossandosi, permettendomi di vedere meglio nella direzione verso la quale puntavo il cannocchiale, mi accorsi di un galeone battente bandiera saracena abbassarsi, anche lui, dal fianco a fronte, tra le gigantesche onde, mettendomi pertanto la sua bandiera bene in evidenza nel fuoco della lente. Riuscivo a stimare che quell’imbarcazione, potenzialmente nemica, potesse essere stata a neanche mezzo miglio dalla nostra. Mi pareva strano che i saraceni si fossero già accorti dell’inganno. Ma forse era uno dei frequenti equipaggi pirateschi adusi a uccisioni e ruberie, che con la religione non avevano nulla da spartire. Di male in peggio, se così fosse stato! Lasciai per pochi minuti il timoniere a districarsi da solo. «Mi assento un attimo!» gli dissi.

    «D’accordo ma si sbrighi!» si preoccupò di rispondermi.

    «Stai tranquillo, vado e torno!» gli risposi a sua volta. Fattomi aprire il boccaporto dalla ciurma, lo infilai a fatica, perché, nel tentativo d’afferrarne il maniglione, a causa del frenetico saliscendi delle enormi ondate, nel traballare avevo l’impressione d’essere ubriaco fradicio, tanto da assomigliare a una danzatrice del ventre. Discesi nella stiva dov’era la salma imbalsamata di San Marco trafugata ai saraceni la notte precedente ad Alessandria d’Egitto. Attorniato dal cargo di sete, broccati e le varie essenze, merce in parte acquistata dagli alessandrini e in parte barattata con manufatti in vetro e cristalli di Murano, in un capiente contenitore di vimini d’odorosi ortaggi, grande come un baule, era deposto il corpo imbalsamato del Santo, ben nascosto, sovrastato da un’ingombrante carcassa di maiale con il muso in bella vista, ricoperta di sale e d’incenso in maniera che il corpo dell’animale non deteriorasse troppo in fretta e ne fosse mitigato il fetore. Inginocchiatomi, dopo essermi fatto il segno della croce, pregai a mani giunte: «San Marco proteggici dalle forze della natura e dai saraceni, affinché tu possa avere degna sepoltura in terra amica ed essere venerato come si conviene». E mi rifeci il segno della croce.

    Risalito in plancia ebbi la felice sorpresa di notare che il mare si stava placcando. Afferrai il cannocchiale per scrutare di nuovo la nave saracena. E cosa videro i miei occhi? Ormai rimaneva fuori dalle acque a malapena un metro dell’albero maestro in vetta del quale sventolava l’ostile bandiera. Lo scafo degli inseguitori, sopraffatto dall’impeto delle onde, doveva avere imbarcato eccessiva acqua o avere ceduto in qualche parte della carena. Fortuna volle, e non me ne voglia nostro Signore, che fosse già sommerso insieme al suo equipaggio. Nei dintorni non vidi alcuna scialuppa di salvataggio né notai sagome umane aggrappate ai relitti. Pace all’anima loro, ma gloria e soprattutto vita a noi. Da buon cristiano mi rifeci per la terza volta il segno della croce e alla fine ringraziai chi di dovere: «Grazie infinite, San Marco, per averci messi in salvo».

    Mi svegliai da quello ch’era iniziato come un incubo e che era però finito con una sensazione di liberazione. Un sogno di tanti anni fa, quand’ero bambino, in conseguenza della predica che don Cesare fece il giorno della festa del Santo, ricostruendone in breve l’avvincente storia del trafugamento delle sacre spoglie ad opera dei Veneziani da una terra straniera ed anticristiana per essere traslate in luogo più congeniale, presso un popolo a lui devoto, che ancora oggi lo festeggia con fervore.

    Scena onirica contaminata da certi anacronismi recepiti da delle fantasiose visioni piratesche immagazzinate nel cervello chissà da che fonte.

    Prologo

    Il giorno di festa cominciava con la messa mattutina, nella minuscola cappella dedicata alla ricorrenza. Una chiesuola che, a parte l’altarino e le pertinenze ad esclusivo uso del prete e dei chierichetti, contava sì e no una trentina di posti a sedere, tra seggiole e panchette. Il parroco, don Cesare, ci teneva di più a questa sagra che a quell’altra, di San Michele, patrono del paese intero, che si festeggia la prima settimana d’agosto. Nella predica ci metteva quanto cuore aveva. Ed ogni anno l’interno del modestissimo tempio lo faceva puntualmente stuccare e rinfrescare con un paio di mani di pittura, facendo togliere le infiltrazioni e quei segni antiestetici causati impietosamente dalle intemperie invernali.

    Prima e dopo la celebrazione ci si fermava sul lato esterno a rimirare la trave della cuccagna, in fase d’allestimento. Attrazione che si sarebbe svolta nel pomeriggio.

    Com’era capitato l’anno prima, la mattinata non aveva debuttato per il meglio, ma il pomeriggio si preannunciava all’insegna del bel tempo. Il sole c’era, anche se giocava a nascondino tra le nuvole. Di tanto in tanto riaffiorava la sua vitale luminosità. Quando faceva capolino l’albero della cuccagna palesava uno speciale lucore dalla parte in cui batteva, per l’abbondante strato di grasso che gli organizzatori vi avevano passato sopra allo scopo di rendere lo spettacolo più competitivo, a riguardo dei concorrenti, e più gustoso da osservare, per il pubblico che ogni anno non perdeva l’occasione per accorrervi in gran numero. Più ce n’era, di grasso, e maggiore sarebbe stato l’agonismo e l’effetto. Aspetto, questo, che impegnava gli sfidanti fino allo stremo, ritraendone spesso ilari squarci di comicità, talora ridicolizzandoli per le pose che assumevano nell’adottare tecniche inusuali. Si capiva quand’erano performance assolutamente improvvisate, lungi dall’essere state studiate a tavolino. I tentativi per agguantare la meta erano i più bizzarri, completamente fuori dagli ordinari schemi mentali. Noi bambini lo davamo a vedere con le nostre candide e cristalline risate. Da parte degli spettatori adulti non mancava qualche ghigno dal sarcasmo pungente. Il colmo dell’ilarità si realizzava quando, o per il notevole sforzo o perché a pranzo s’aveva pensato di rimpinguarsi per meglio sopperire alla fatica dell’impegnativa prova, si udiva il rombo sovrastante di certe pernacchie: strombazzate che non potevano non essere udite.

    La cuccagna, penzolante da un cerchione di bicicletta che veniva appeso sulla cima di un’idonea trave saldamente interrata, contemplava ogni ben di Dio, tra baccalà, formaggi, prosciutti, salami, pasta e un immancabile fiasco di vino, legati a dovere.

    Le squadre iscritte alla gara erano tre, formazioni costituite da invidiabili marcantoni, tre per squadra più uno di riserva. Gli sfidanti erano vestiti peggio che potevano, con luride pezze, vesti tutt’un rammendo, raffazzonate, stracciate, se non a brindelloni. Se inizialmente davano l’impressione d’essere dei barboni, poi, a gara in corso e mano a mano che si cimentavano in quell’affascinante quanto massacrante impresa, proprio a causa del grasso che contestualmente vesti e volto assorbivano, le loro figure spaziavano dalle sembianze di anonimi spazzacamini fino ad altre più tetre, di diaboliche creature venute chissà da che buco del mondo. Anche per il fatto che qualcheduno indossava stracci dalle taglie inverosimili, d’una larghezza incongrua, che per forza di cose dovevano essere adattati al corpo tramite bretelle o altri sostegni di fortuna quali vecchie cinture di cuoio o altre cinte di elastici e persino di sfilacciati spaghi per far reggere in qualche modo quelle penose, mal assortite vestiture nelle varie parti del corpo. Le mani le avevano, quasi tutti, riparate da lerci guanti di crosta, usurati dai faticosi lavori per cui erano quotidianamente indossati. La testa era ricoperta da un altrettanto malmesso berretto o un foulard a mo’ di bandana per proteggersi sia dal viscidume della trave sia dai pestoni degli stessi compagni di squadra che, nel tentare la scalata, inevitabilmente dovevano poggiarsi uno sopra l’altro facendosi leva con i piedi sulla testa del sottostante compagno per sfruttare al meglio l’arrampicata, approntando l’umana loro sovrapposizione in una catasta di uomini. Ogniqualvolta una squadra falliva la sua prova, non avendo sfruttato il tempo a disposizione, a seguito d’una sequela di tentativi andati a vuoto, lasciava alla compagine successiva un briciolo di possibilità in più. Per ogni bracciata alla trave i concorrenti di turno inevitabilmente sottraevano un certo spessore di grasso. Sicché, in maniera lesta e fraudolenta, a volte taluno si avvaleva di qualche manciata di terra estratta da una tasca. Ecco che l’albero della cuccagna offriva una salita via via più abbordabile, perdendo viscidità.

    È questa la felice cornice del momento clou della festa di San Marco, del 25 aprile, rievocazione esportata dal capoluogo provinciale, Venezia. Inizio e fulcro d’una sagra che neppure poteva essere annoverata come paesana, visto che veniva rievocata nell’insignificante contrada di Ca’ Diedo, minima porzione di Prozzolo, a sua volta frazione del comune di Camponogara.

    Da tale tradizionale folclore della veneziana, dogale ricorrenza dei festeggiamenti di San Marco, in onore di mia nonna e per commemorarne il vissuto, ne ho attinto, d’arbitrio, il soprannome nell’espressione di ‘Marciana’, intendendo ricordarla nel vincolo che in vita l’aveva legata, se non al pio culto di San Marco, per lo meno alla sua godibile attrattiva che tutti gli anni ivi si svolgeva, godimento che mai avrebbe voluto perdersi.

    Nonna Milia non ne era esattamente una contradaiola. Abitava fuori, ma solo di qualche centinaio di metri. Con un’infinità di sacrifici s’era costruita casa nella zona, poi divenuta residenziale, del paese, giù, dal lato opposto della strada provinciale (la ‘strada alta’) dove un tempo scorreva il fiume Brenta. Fino a qualche decennio prima la strada provinciale era proprio denominata via Antico alveo del Brenta. La strada infatti corrisponde a uno di quelli che furono gli argini del Brenta. Oltre la teoria delle abitazioni di cui era parte la casa della nonna, a mezza via con l’altra, opposta antica sponda del fiume, qua e là spianata dalle ruspe o divorata dalle piogge con l’andare delle stagioni, passa ancora oggi la locale ferrovia. Al posto del Brenta oggi vi scorre la Brentella, canaletta a margine del più ampio percorso originario, poco oltre la ferrovia.

    Ma, ripeto, nonostante non fosse della contrada, mia nonna a quella festa amava esserci.

    Per i Veneziani, San Marco, il 25 aprile, come del resto il Redentore, ricordato il 20 e 21 luglio, per l’uscita dalla pestilenza del 1575-1577, sono espressioni d’ultracentenaria fede.

    Detti festeggiamenti del Santo, in alcune di quelle dépen-dance che erano state residenza di campagna di qualche illustre veneziano all’epoca delle Città Marinare, tra le quali Venezia aveva primeggiato con l’icastica qualifica di Serenissima Repubblica, altrimenti nota per l’appunto come Repubblica di San Marco, continuano ancora ad essere pedissequamente osservati. E a Ca’ Diedo, come del resto avvenne nel Vicentino, a Breganze e a Rosà, fu l’eponima famiglia Diedo a radicarla.

    Lì da noi i Diedo avevano occasionale residenza (più usata dal fattore che da loro), molto probabilmente consistente in un retrostante villino asservito dall’area cortiliva con a fronte le cantine per la lavorazione e la conservazione del vino e dei suoi derivati; i silos e il deposito per i cereali; le stalle e la scuderia con le soprastanti tettoie per il fieno; i magazzeni per i carriaggi, per le attrezzature agricole e la generica manutenzione; ed alcune unità domestiche per il personale in un unico lungo porticato di collegamento, fatta eccezione solo per la casa signorile, rigorosamente costruita in disparte. La comunità doveva sottostare ad un contratto prossimo alla mezzadria, lavorando la terra e allevando il bestiame per il loro sostentamento e, tra le varie clausole, dovevano avere senz’altro obbligo d’ospitalità nei confronti dei Diedo ogniqualvolta vi giungessero, onere e onore. Al lato estremo del cortile dovevano esserci, raccolti in un unicum, pollaio, porcile, latrina e letamaio. Al centro del cortile poteva esserci stato un pozzo artesiano e, un po’ più decentrati, abbeveratoi e lavatoio. Il complesso, lo si poteva ancora constatare dai ruderi e dalle inevitabili modifiche avvenute nei secoli, sorgeva in un’appendice topografica che tutt’oggi separa la borgata del paese alla sua campagna, dividendone in due il territorio. Dell’insieme, la cappellina era la prima struttura ad essere notata, in bella vista, prospiciente alla via principale. Vicino a quel circostanziato luogo di raccoglimento, soltanto a una ventina di metri, a destra, i percorsi formavano un bivio che si raccordava con un’unica via: la ‘risàra’. Su via Ca’ Diedo, che procedeva dalla provinciale, dipartendosi dall’Antica Pila (in tempi lontani, probabilmente risalenti all’epoca in questione, era luogo di ‘pilatura’, di sbiancatura, del riso; poi divenuta omonimo ristorante), s’intersecava la ‘stradona’. Qualche decina di metri più avanti, sulla sinistra, pressoché a ridosso della chiesetta, doveva esserci stato l’accesso privato dei Diedo.

    Erano, all’epoca, tutte strade sterrate. E la risàra era la via di campagna che, diritta come un fuso, collegava i vari poderi fino ai confini del paese. Chiaramente, ne era stato coltivato il riso in tempi passati. S’intuiva dove la risaia potesse iniziare e dove finisse perché ad un tratto la campagna sprofondava di parecchio per poi, dopo diverse centinaia di metri, riaffiorare al livello della carreggiata che la sezionava nella sua doppia simmetria. La strada prendeva l’appellativo della medesima zona. Dire risàra equivaleva intendere sia l’ex area di coltivazione del riso sia la strada che vi penetrava.

    Ma chi erano questi Diedo che hanno dato nome alla contrada e dai quali ho preso a prestito lo pseudonimo? O meglio, chi furono? Perché ormai sembra che se ne siano perse le tracce.

    I Diedo furono un influente casato costituito da una dinastia di famiglie signorili, notabili che ai tempi della Venezia marinara si procurarono lustro e onori. E se non riuscirono a primeggiare in autorità, si misero comunque in evidenza a partire dal XVI secolo, giungendo a sfiorare la soglia dogale. Espressero, nella loro genealogia, personalità di rilievo in qualità di condottieri, ‘capitani da mar’, architetti, letterati, prelati. Da tale angolatura un Diedo di nome Vincenzo, nel 1556, fu patriarca della stessa Venezia. Anni dopo, precisamente nel 1580, Girolamo Diedo divenne il primo vescovo di Crema.

    La loro originaria residenza fu a Santa Fosca, nel circoscritto territorio che a Venezia viene denominano ‘insula’. Un’isoletta circondata dalle concomitanti acque del rio dell’omonima Santa, di rio Grimani, di rio del Trapolin e di rio della Maddalena. Attualmente la struttura è gestita da un ente comunale, il Fondo Immobiliare Città di Venezia, finalizzato all’alienazione. Vi trovarono ospitalità, nelle varie epoche, ubicate ai diversi piani, una società sportiva, il Monte di Pietà, la scuola elementare e, fino al 2012, il Tribunale di Sorveglianza.

    Altri palazzi a Venezia furono possesso dei Diedo. Nel campiello dei Meloni di San Polo. Un altro è

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