Il ritorno
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Info su questo ebook
Il percorso emotivo viene splendidamente punteggiato in tutte le sue sfumature, mentre una famiglia, apparentemente distaccata ed indifferente, fa da sfondo al divenire della vita di Paola che cresce.
Ma quella stessa famiglia diviene poi il fulcro principale su cui si innesterà la maturità sentimentale della protagonista.
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Anteprima del libro
Il ritorno - Adriana Di Grazia
merita.
1
Varcai i cancelli della villa comunale, era mattino, il sole iniziava appena a filtrare, tra la rugiada, con raggi incerti. Erano anni che non entravo nel parco. La pioggia era stata battente per tutta la notte e il vento prepotente dell’isola non aveva lasciato quiete agli alberi che adesso apparivano sfrondati e stanchi. Amavo quei luoghi, la quiete e la fragranza dei fiori e delle piante, le verdi siepi che tracciavano i viali, il fruscio di sottofondo che accompagnava i passi. Lungo il viale degli Uomini Illustri, fiancheggiato da busti di marmo, i personaggi più famosi della storia d’Italia e della città si ergevano, severi e impettiti, su colonne tondeggianti. La fontana zampillante appariva provata dal tempo. Quante volte, tornando da scuola, l’avevo raggiunta correndo e mi ero chinata assetata come avessi attraversato il deserto. Raccoglievo i capelli nel pugno e lasciavo che gli spruzzi mi bagnassero il viso e il grembiule.
La voliera, al centro della rotonda, era silenziosa. Un tempo la varietà di uccelli che ospitava suscitava la mia curiosità, infilavo il naso tra le sbarre e cercavo di catturare, con lo sguardo, qualche nuovo volatile accoccolato sui rami. Tiravo fuori dalla tasca le briciole che avevo messo da parte e spingevo cautamente la mano aspettando che qualche pennuto più intraprendente si avvicinasse. Un grande cartello faceva da monito: E’ severamente vietato dare da mangiare agli animali, ma non sapevo resistere alla piacevole sensazione delle zampette ruvide dell’audace merlo che, traballando, stringevano il mio dito. Faceva una gran fatica per restare in equilibrio mentre io diventavo di marmo per non spaventarlo, poi il becco picchettava rapido la pelle per raccogliere le briciole e fuggiva veloce. Guardavo attorno per essere certa che il custode non mi scoprisse e agivo in fretta. Quel piccolo capriccio mi rubava un sorriso.
Procedevo lentamente in un pulsare di vita e di colori, tra le siepi a labirinto, lungo i viottoli alberati, immersa nel fascino di quel giardino settecentesco. Da adolescente lo attraversavo esitante, convinta che dietro ogni arbusto si celasse il peccato.
Mano a mano che mi addentravo, la vegetazione si faceva più fitta. Il sole appena nato giocava con le foglie degli alberi. Presi posto su una panchina di ferro. L’aria odorava di erba umida, la fragranza dei fiori si mischiava al gradevole scroscio dello zampillo delle fontane. Sopra di me le chiome dei tigli, unendosi, formavano un arco e nascondevano il cielo. Il sedile era freddo e logorato dalla ruggine. La pioggia, il sole e l’incuria l’avevano fatta da padrone. Notai che era costellato di nomi e cuori trafitti, tracciati con pennarelli e spray variopinti, testimonianza dei tanti innamorati che, negli anni, si erano soffermati nel parco. Due nomi dentro un grande cuore attirarono la mia attenzione: Maria e Francesco, e a caratteri più piccoli: per sempre.
Mi domandai dove fossero adesso. Affondai le mani nelle tasche del montgomery, il bavero sollevato mi riparava dal vento invernale, la sciarpa mi copriva la bocca. Un profondo senso di stanchezza si fece strada dalle gambe lungo tutto il corpo. Strinsi le spalle e respirai il mio alito caldo dentro la sciarpa. Odorava di menta e tabacco. Chiusi gli occhi e mi sembrò quasi di sentire il viso di Flavio vicinissimo al mio, le sue labbra sfiorarmi la guancia.
Nonostante il tempo trascorso, il pensiero di lui spingeva ancora frettoloso il mio cuore come al primo incontro. Era stata una sera di emozioni inaspettate, la porta si era aperta e l’avevo visto, stagliato sulla soglia come un bronzo di Riace. Sembrava appena uscito da una doccia solare, gli occhi erano due bracieri accesi, mi puntavano ed io li avevo sentiti ardere sulla pelle. Poi mi avrebbe detto che era stato attratto dai miei occhi, come un toro dal rosso.
Al suo saluto avevo alzato lo sguardo e fugacemente, impallidendo di vergogna per l’inaspettata audacia, sì perché io impallidisco piuttosto che arrossire, avevo percorso il corpo perfetto di quello sconosciuto con fattezze da atleta e movenze che erano un misto tra il virile e l’equivoco. Poi lo sconosciuto aveva spento i suoi occhi sul mio corpo e si era allontanato, lasciandomi nella mano l’odore della sua pelle. Non mi aveva più degnata di uno sguardo, o almeno così mi era sembrato.
Ti ho seguita per tutta la sera
, mi avrebbe detto in seguito.
Le scelte erano fatte!
Il destino delle nostre vite si era compiuto in quella sera.
2
Paola. Avrei dovuto chiamarmi Anna, come la nonna, ma quando il signor Marini, mio padre, si presentò all’ufficio anagrafe per registrare la nascita della terza figlia, procreata non si spiegava ancora come, ma che lo faceva egualmente felice perché i figli sono un dono del Signore, come ripeteva spesso, incontrò una sua vecchia fiamma, come raccontava sorridendo.
Paola appunto!
Non conoscevo i dettagli, la signora Marini non li aveva mai chiesti, o forse aveva già ottenuto dal marito dettagliate spiegazioni. Rientrando a casa, annunciò alla moglie che il nome della bambina era Paola e non Anna.
3
Ada Marini continuava a ripetere alla figlia che era un errore di percorso, probabilmente perché non lo dimenticasse. La venuta al mondo di un terzo figlio non era prevista. La madre le diceva sempre: …tu sei venuta per caso… avevamo già la femminuccia e il maschietto…
La sera, attorno alla tavola imbandita, raccontava di come avesse tentato, con erbe e infusi consigliati da una qualche fattucchiera, di sbarazzarsi del bimbo che portava in grembo ma testarda fin da allora sei nata…
concludeva, incurante di quanto potesse pesare sulla bambina quel rifiuto.
Poi la rabbia si attenuava e gli occhi le si intenerivano insolitamente, allora raccontava di quando in sogno le era apparso un angelo con lunghi riccioli biondi e un vestitino azzurro che le aveva sussurrato, col viso rigato di lacrime: Perché non mi vuoi? Io sarò il conforto della tua vecchiaia!
Assalita dai rimorsi aveva smesso di ingurgitare intrugli e consentito al marito di completare la costruzione di una culla in ferro battuto. Il velo rosa, alla nascita, avrebbe segnato la sua sconfitta.
E come se non bastasse femmina! E non bionda come eri apparsa in sogno, ma nera come il carbone
, sentenziava ogni volta indispettita.
Ma era una bella bruna! E che occhi grandi…
incalzava Carlo Marini, concludendo il racconto sempre con le stesse parole, mentre allungava il braccio e afferrava la mano della bambina che scompariva nel suo pugno caldo.
4
Non mi sentivo accettata e, per difendermi, sfoderavo le uniche armi che possedevo: ostinazione e silenzio. Se mi impegnavo riuscivo a non proferire parola per giorni e giorni, chiusa nel mio mutismo per ribellione.
Ancora adesso il silenzio era per me una terapia.
Solo nel silenzio riuscivo a riappacificarmi con la vita verso la quale mi sentivo sempre in debito.
5
Per tanti anni un contenitore di cartone rivestito con carta a quadri rossi e verdi e bordato di blu aveva trovato posto nel ripiano più basso della libreria. Ricordavo esattamente la cura che avevo messo nel foderarlo, era ancora intatto nonostante il tempo trascorso. Ogni volta che mi era capitato di aprire lo sportello gli avevo lanciato uno sguardo rapido, consapevole che dentro erano custoditi i ricordi più belli dei miei anni giovani. Mi sarebbe piaciuto soffermarmi, alzare il coperchio, curiosare dentro, ma non ne avevo mai avuto il tempo, sempre proiettata in avanti, assorbita da mille doveri che mi reclamavano. Era incredibile come la vita mi avesse travolta. Era stata una vita frenetica, piena di obiettivi, in buona parte realizzati grazie alla mia tenacia.
Una vita così non aveva lasciato spazio ai ricordi.
Volli, sempre volli, fortissimamente volli.
Le parole e l’immagine di Vittorio Alfieri, riportate sul sussidiario delle elementari, legato a una sedia dal servitore, in seguito alla sua